Un nuovo stile di vita
I credenti di tutte le chiese si raccolgono la domenica per il culto e si incontrano in altri giorni per la preghiera, per lo studio della Parola, per il canto, ma anche solo per il piacere di stare insieme, realizzando quanto espresso dal salmista:
“Ecco quant’è buono e quanto è piacevole che i fratelli vivano insieme… là infatti il Signore ha ordinato che sia la benedizione” (Sl 133:1).
Bontà, piacevolezza e benedizione sono il frutto del vivere insieme garantito dalla promessa del Signore stesso.
Quando ciò non avviene abbiamo la garanzia opposta: poca o nulla bontà, scarsissima piacevolezza, assenza di benedizione collettiva ma anche singola.
Senza la benedizione del Signore vi è perdita della gioia della salvezza, del piacere del vivere comunitario e si è immediatamente esposti alla seduzione del mondo e del peccato (Eb 12:1).
Non possiamo, in ogni caso, pensare alla vita comunitaria cristiana solo come ad un piccolo “Eden” che si realizza periodicamente per dar piacere a chi vi partecipa.
Non è legittimo ridurre la vita cristiana ad un quieto e piacevole estaniarsi dal mondo reale. Vale a dire: la vita cristiana non si esaurisce nelle brevi pause comunitarie, benché essenziali e piacevoli, se vissute con lo Spirito del Signore, ancor meno la si può ridurre ad incontri saltuari, una volta qui una volta là in una comunità o nell’altra oppure in nessuna, giusto per stare tranquilli.
Per vita cristiana si intende un nuovo stile di vita e di rapporti, in prospettiva del realizzarsi in noi e fra noi della volontà di Dio.
Un servizio esigente
La comunità cristiana non si raccoglie insieme per dimostrare a sé stessa e agli altri di essere più religiosa, più osservante, più zelante nel rendere gloria a Dio, ma soprattutto per realizzare con l’aiuto dello Spirito di Dio quello stimolo reciproco, affinchè ognuno sia reso capace di capire ed operare efficacemente secondo il carisma ricevuto, disponendosi così al servizio per il Signore.
Paolo così si esprime:
“… vi siete convertiti dagli idoli a Dio per servire il Dio vivente e vero e per aspettare dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti e che ci libera dall’ira a venire” (1Te 1:9-10).
La comunità cristiana non è chiamata all’autocompiacimento e alla lode fine a sé stessa, bensì all’ubbidienza secondo la chiamata rivoltale dal Signore.
Il servizio è un dovere e nel servizio si risolvono anche periodi di crisi individuali e collettive che si manifestano periodicamente come tentazione di sfuggire ed evadere dalle brutture del mondo. In questo caso l’attesa del Signore crea e genera una tensione benefica per l’anima e per lo spirito, al contrario l’evasione dal mondo è fonte di depressione e degenerazione della fede.
Purtroppo forme di depressione, di negatività, sono sempre in agguato come tentazione, lo si nota dal pessimismo con il quale molti cristiani affrontano il loro futuro, rannicchiandosi psicologicamente nelle paure ed autogiustificandosi nella loro inazione.
Inoltre il servizio per il Signore richiede ed esige impegno: occorrono tempo, sacrificio, rinunce. Portare il peso della consacrazione produce inevitabili preoccupazioni, delusioni, sofferenze ecc…
Si è contenti soltanto quando si afferma che il Cristo ha portato la croce per noi, lo si è molto di meno quando il Cristo ci dice che ciascuno di noi deve portare la sua croce senza scaricarla sul “cireneo” di turno.
Tentativi di autogiustificazione
Quando poi si considera la vastità del mondo, l’immensità dei problemi, l’infinita domanda che ci viene rivolta a fronte dell’esiguità della nostra azione, ma soprattutto della nostra inazione, subentrano lo scoraggiamento e l’amarezza.
Sembra quasi inutile servire Dio, i problemi sono infiniti e terribili, i credenti sono pochi e inascoltati.
Inevitabilmente avviene l’incontro fra lo scoraggiamento e la pigrizia. Risultato: fine del servizio (se mai ha avuto un inizio!).
C’è chi reagisce in modo diverso, ricercando un modo di servizio grandioso, affascinante, seducente, miracolistico che in un Paese come il nostro può essere utile per il proselitismo, per ottenere risultati di prestigio, per riempire le chiese…
Oppure attraverso la cultura, la politica, la religiosità (intese, manifestazioni varie…) per poter dire: “Ci siamo anche noi!”.
Si cercano insomma compensazioni per giustificare e nascondere la sfiducia e la delusione.
Poiché è raro che il Signore ci chiami ad operare in modo appariscente, molti si sottraggono e non è raro ascoltare i loro giudizi pungenti sulla realtà del nostro popolo che sembra pendere in modo delirante dalle parole del papa. Si ravvisa in questi casi una sorta di autogiustificazione:“Inutile darsi da fare; qui non c’è più niente da fare!”.
Questo è il passaggio dalla depressione alla tentazione: meglio lasciar perdere, meglio non prendersela più di tanto e cercare di prosperare come fanno tutti, meglio badare ai fatti propri!
Non servire è “malvagità”
Ma tutto ciò, scrive Malachia è operare malvagiamente. La malvagità non consiste nel peccare brutalmente, nel tornare nel fango o nel rinnegare la fede. No!
Molto più semplicemente consiste nel disinteressarsi del servizio, nel trascurare la chiamata che Dio ha rivolto ad ognuno di noi.
Si è malvagi nel sottrarsi al servizio e, peggio, nel ritenerlo inutile!
Malachia introduce quindi un altro orientamento: “Temere il Signore e rispettare il suo nome!”.
Malachia non indica il timore della pauraa ed un rispetto basato sul terrore di un giudizio o di una ritorsione; al contrario: è la chiamata a reagire alla depressione, al pessimismo, all’egoismo e alla pigrizia.
È il freno alla fuga nell’effimero, all’acquiescenza dell’amore, alla concupiscenza della carne che spodesta lo Spirito per far posto al piacere.
Il timore ed il rispetto per l’Eterno e per il suo nome corrispondono all’accettazione libera e gioiosa della sua guida, del suo consiglio, della sua Parola che sono fonte di autentica liberazione, consolazione e stimolo al servizio.
Tutti coloro che “temevano il Signore” e che, per la grazia di Dio, hanno intrapreso questo cammino faticoso ma gioioso, dice Malachia, si sono raccolti insieme con umiltà e devozione: “…si sono parlati l’un l’altro. Il Signore è stato attento e ha ascoltato”.
Parlarsi l’un l’altro significa comunicare le proprie esperienze, ansie, progetti, gioie e sofferenze, sapendo di essere ascoltati, compresi, aiutati, consolati, incoraggiati.
Significa condividere i dolori, ma anche le gioie, condividere i dubbi ma anche le certezze, i progetti, gli obiettivi.
Significa rivelarsi reciprocamente l’azione di Dio nella propria vita, edificarsi l’un l’altro.
Così e solo così, scrive Malachia, “un libro di ricordo è stato scritto davanti a lui per quelli che temono il Signore e onorano il suo nome”(Ml 3:16).
La fede non è un fatto privato!
Da parte del Signore: un sostegno mai mancante
Quando ci dedichiamo a lui insieme è come attingere ad una fonte, è un fatto fecondo e produttivo di buone opere, un fatto approvato da Dio che ne dà una giusta valutazione.
Là dove c’è un segno reale ed autentico del Regno di Dio che viene, questo può essere accompagnato dalla disattenzione e dalla disapprovazione dei portatori di una cultura mondana e carnale, ma queste attenzioni malevole sono ampiamente bilanciate dalla garanzia dell’attenzione di Dio.
“Il libro scritto davanti a lui” è e sarà la testimonianza che nelle nostre scelte individuali e collettive di servizio, non siamo abbandonati a noi stessi, ma possiamo contare sul suo intervento continuo, sul suo conforto, sulla sua promessa perché agli occhi suoi “siamo la sua proprietà particolare, un particolare tesoro”, perché saremo risparmiati dall’ira a venire, “come un uomo risparmia il figlio che lo serve” (Ml 3:17).
Quindi una promessa solenne di protezione rivolta ai figli di Dio che “servono” il Padre con devozione
Malachia non parla di figli che amano, che si emozionano, che fanno promesse solenni di ogni genere; molto più semplicemente parla di figli che “lo servono” in un servizio illuminato dalla sua Parola e determinato nel praticarla.
Il discernimento come dono
Infatti alla comunità che ascolta la Parola e si dispone al servizio è promesso il dono del discernimento:
“…vedrete di nuovo la differenza che c’è fra il giusto e l’empio, fra colui che serve Dio e colui che non lo serve” (Ml 3:18).
Questo discernimento fra malvagità e giustizia è indispensabile, ma non è dato a tutti anzi solo a coloro che lo servono.
È un “vedere di nuovo” che non significa il recupero di una capacità perduta, bensì l’essere dotati da Dio di una potenzialità sconosciuta al mondo, purtroppo anche ai “cristiani” che non vivono una reale comunione con la chiesa locale e persistono nell’isolamento e nel protagonismo individualista, frutto dell’ingratitudine e della supponenza non solo verso coloro che li hanno condotti al Signore, ma verso il Signore stesso, affetti quindi da una cecità spirituale che può sfociare nella “malvagità” e nell’empietà come ammmonisce Malachia.
La storia della Chiesa e delle chiese ne è purtroppo costellata.
Invece ai membri della comunità cristiana che vivono la comunione fraterna e sono attivi nel servizio è promessa e data la capacità di saper distinguere il giusto dall’empio non solo con delle categorie quali le demarcazioni confessionali e/o istituzionali o riferite al variegato campo della “laicità”, bensì con l’attenzione prodotta dallo Spirito Santo e con la guida della Parola di Cristo.
Infatti chi è giusto e chi è empio?
Giusto è colui che serve Dio; empio è colui che non lo serve.
Il servizio fra obbedienza e premio
Il servizio non è solo un’appendice opzionale della fede, una conseguenza pratica, come si afferma a volte piuttosto sbrigativamente, ma – come afferma qui la parola di Malachia confortata da tutto l’insegnamento di Cristo e degli apostoli – è la linea di demarcazione fra la giustizia e l’empietà. Il servizio è obbedienza; la disobbedienza è peccato.
Giusto è colui che riconosce in Dio l’autore della propria giustificazione e salvezza e si dispone al servizio.
Empio è colui che non riconosce di fatto (non solo di principio) su di sé l’Autorità di Dio, perciò non lo teme e pensa solo a sé stesso anziché servirlo.
Infine c’è anche un premio al servizio e non è una qualsiasi medaglia in onore della virtù e della fatica, ma è ciò che il Signore concede all’ubbidienza.
È il premio di appartenere sempre meno a noi stessi e sempre di più a lui e al nostro prossimo; è la gioia del dare e del darsi.
Infatti Gesù disse che “c’è maggiore felicità nel dare che nel ricevere” (At 20:35; 1Co 13:1-3).
Quindi nella consapevolezza che Cristo si è dato per noi per purificarsi un popolo suo proprio, zelante nella buone opere (Tt 2:14), possiamo concludere con la promessa di Malachia:
“Per voi che avete timore del mio nome spunterà il sole della giustizia, la guarigione sarà nelle sue ali” (Ml 4:2).