Guidando i miei alunni in gita scolastica nella nostra capitale, ho avuto più volte occasione di visitare i “palazzi” del potere: Montecitorio, Palazzo Madama, il Quirinale, Palazzo Chigi. Ricordo che, in occasione del mio primo ingresso in uno di questi luoghi (Montecitorio), l’aspetto che più mi impressionò fu il lusso sfrenato presente in ogni ambiente. “Anche una persona semplice che entra qui dentro – osservai con una mia collega – corre il rischio, in poco tempo, di montarsi la testa!”. È il rischio, quello della megalomania, cioè della esagerata presunzione di sé e delle proprie capacità e forze, che corre chiunque giunga ad assumere una posizione di autorità. Ricordiamo tutti la triste storia del re Uzzia il cui cuore, “quando fu divenuto potente, insuperbitosi, si pervertì” (2Cr 26:16). Ma, come recita, un proverbio diventato famoso anche perché contiene la più lunga parola della lingua italiana, “Chi troppo in alto va precipita sovente, precipitevolissimevolmente” ed è proprio quello che accade ad Uzzia. Nella sua presunzione di “grandezza”, egli ritenne di poter fare a meno dei sacerdoti. Così illegittimamente e senza alcuna purificazione si presentò davanti alla santità di Dio “per bruciare dell’incenso sull’altare dei profumi”: un proposito buono solo in apparenza, perché in realtà era rivelatore della sua presunzione di “onnipotenza” e della sua convinzione di non aver più bisogno di nessuno! Ma il Signore giudicò (e punì!) il suo comportamento solo successivamente, quando, ripreso dal sacerdote Azaria (“Non spetta a te, Uzzia, di offrire incenso al Signore…”), Uzzia “si adirò”. E “si adirò” perché Azaria si era permesso di riprenderlo, per di più pubblicamente davanti ad altri “ottanta sacerdoti del Signore”. La sua rabbia è frutto del classico: “Tu non sai chi sono io! Con quale coraggio vieni a dirmi cosa devo o cosa non devo fare?!”. La presunzione di grandezza aveva prodotto un frutto ancora peggiore: la presunzione di irreprensibilità. La riprensione del Signore, comunicata attraverso le parole di Azaria, non aveva prodotto alcun pentimento. Fu a questo punto che “la lebbra gli scoppiò sulla fronte… perché il Signore lo aveva colpito”. Evidentemente è proprio la presunzione di irreprensibilità il peccato peggiore, quello che preclude qualsiasi possibilità di perdono. Recentemente mi è capitato non semplicemente di sentir “dire”, ma (ahimé!) “insegnare”, che “irreprensibile” indica la condizione di una persona che, per il suo ruolo di autorità, non deve essere ripresa (criticata, giudicata) da nessuno! È, questa, una “irreprensibilità”, che quotidianamente viene vissuta e conclamata da personaggi politici, mediatici e religiosi. Sarebbe facile usare queste riflessioni per puntare il dito contro qualcuno che è in autorità e che, in un delirio di onnipotenza, pretende di non essere giudicato da nessuno (la stessa pretesa di Uzzia!). Ma, come sempre, il Signore ci incoraggia ad applicare a noi stessi, e non ad altri, le esortazioni che ci fa giungere attraverso la sua Parola. Ed allora egli ci invita a ricordare che in realtà “irreprensibile” è aggettivo che qualifica la vita di una persona che si comporta in modo talmente giusto e santo da rendere impossibile per gli altri qualsiasi critica, qualsiasi appunto. “Irreprensibile” è colui che, come Gesù, può chiedere agli altri, senza ottenere alcuna risposta: “Chi di voi mi convince di peccato?”(Gv 8:46). Ma chi di noi può porre ad altri una domanda del genere, senza cadere nel grave peccato di “presunzione di irreprensibilità”? Dobbiamo riconoscere che, davanti all’esempio inimitabile e perfetto di Gesù l’irreprensibilità, che viene richiesta a chi è in autorità (1Ti 3:2, 10) ma anche indistintamente a tutti i credenti (Fl 1:10; 2:15 e paralleli), appare come un obbiettivo a cui tendere e non come una realtà umanamente realizzabile. Ma proprio da quest’umile convinzione di non realizzabilità può trarre forza il nostro cammino verso il traguardo di quella “perfezione” che ci renderà irreprensibili!
irreprensibili?!
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