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Introduzione

 

L’autore della lettera agli Ebrei ha appena ribadito con forza l’insegnamento di Gesù sul matrimonio e l’inevitabilità del giudizio di Dio per i fornicatori e per chi macchia di infedeltà il letto matrimoniale (13:4). Segue immediatamente un’altra ammonizione riguardante l’avarizia.

Lo stesso accostamento fra immoralità sessuale e avarizia si trova in Efesini 5:3-6. Fa riflettere che qui tali comportamenti vengono definiti anche“idolatria” e cose per le quali “l’ira di Dio viene sugli uomini ribelli”. Questo fa pensare che i comportamenti immorali caratterizzano chi non si fa tesoro dei doni di Dio bensì desidera sempre di più di tutto, a prescindere dalla legittimità del proprio desiderio.

Segue nel brano che ci accingiamo a studiare (Eb 13:5-17) un altro accostamento istruttivo. In parole semplici: la consapevolezza che Dio provvede per me mi rende contento e mi libera “dall’amore del denaro”.

Al contrario, il non accontentarsi dello stato in cui uno si trova, indica che si è persa di vista la fedeltà di Dio. Infatti il nostro brano insegna che Dio prende cura costantemente di coloro che entrano in un patto con lui. Quindi il fenomeno di non sapersi accontentare della propria moglie, del proprio marito o del proprio stato economico, è un segnale della mancanza di comunione con Dio la cui presenza è di per sé una benedizione senza paragoni (cfr. Fl 4:11-13). Se Dio, da cui procede ogni cosa buona, è presente nella mia vita per mezzo dello Spirito Santo, “che cosa potrà farmi l’uomo?” Chi conosce queste verità, nel senso di vivere alla luce di esse, come Gesù ebbe a dire ai suoi contemporanei, è una persona veramente libera, nonostante le sfide quotidiane (Gv 8:31).

Un’altra verità importante menzionata nel nostro brano riguarda la messianicità di Gesù (v. 8). Molti Ebrei non avevano riconosciuto in Gesù il Messia promesso perché avevano sperato in un Messia che li liberasse dal giogo romano (Lu 24:21). Inoltre, quando l’autore scrisse questa lettera, i tempi di attesa del ritorno del Messia, quando egli avrebbe ristabilito “il regno a Israele” (At 1:6), potevano sembrare nuovamente di allungarsi oltre misura. Quindi poteva venir meno in alcuni la certezza che Gesù, morto e risorto, fosse il Messia glorioso che deve venire sulle nuvole alla fine dei tempi per restaurare “tutte le cose; di cui Dio ha parlato fin dall’antichità per bocca dei suoi santi profeti” (Mr 15:62; At 3:21). Per chi viveva in questo stato di dubbio l’autore della lettera ribadisce con forza che Gesù è l’unico vero Messia (v. 8).

Anche questa verità è liberatrice, portando chi gli rimane fedele, nell’attesa del suo ritorno (10:13), a prendere posizione con lui e con il Vangelo, contro il parere della maggioranza in Israele, perfino accettando di essere vituperato per il suo nome.

Il sapere che i tempi che intercorrono fra l’ascensione di Gesù (1:3) e il momento in cui “i suoi nemici siano posti come sgabello dei suoi piedi” (10:13), possono allungarsi, aveva delle implicazioni per la vita comunitaria di coloro che erano entrati nel nuovo patto. L’autore ha già dato istruzioni di non abbandonare “la comune adunanza” che serve, fra le altre cose, per incitarsi “all’amore e alle buone opere” (10:24-25). Nel nostro brano considera altri aspetti della vita comunitaria che rispecchia la speranza del giorno di Cristo: l’ubbidienza ai conduttori, l’offerta continua di un “sacrificio di lode” e la pratica della beneficenza.

 

 

Contro “l’amore del denaro”

 

A suo tempo mi hanno colpito le parole di un capo indiano degli USA intervistato da Enzo Biagi. Parlando della sua condizione di vita, pur non avendo soldi e avendo una casa decisamente “scaruppata”, il capo indiano disse al celebre giornalista italiano, con aria convinta: “Io sono un uomo molto ricco!” Parlava dei valori della famiglia e di altre cose che davano sicurezza alla sua vita.

Un giorno un giovane, avendo riconosciuto in Gesù una persona con autorità, gli chiese di intervenire presso suo fratello affinché dividesse con lui l’eredità che spettava a entrambi (Lu 12:13). Gesù colse l’occasione per dire alla folla:

“State attenti e guardatevi da ogni avarizia; perché non è dall’abbondanza dei beni che uno possiede, che egli ha la sua vita” (v. 15).

Diverse delle beatitudini esprimono la stessa verità (Mt 5:3-12). La società occidentale odierna non è d’accordo con Gesù. Partendo da un criterio materialistico, la maggioranza delle persone ritiene di stare male se non riesce ad accumulare sempre più beni e confort, sperando di poter così giungere al vero benessere. Ma tale speranza risulta una chimera e, intanto, porta a trascurare valori molto più importanti, come quello della famiglia e la comunione con Dio. La valutazione che fa Dio nella parabola del ricco stolto rimane calzante:

“Stolto, questa notte stessa l’anima tua ti sarà ridomandata; e quello che hai preparato, di chi sarà?” (v. 20). Gesù commenta: “Così è di chi accumula tesori per sé e non è ricco davanti a Dio” (v. 21).

Contro la vita caratterizzata dall’amore del denaro, il nostro brano ricorda che la vera sicurezza sta nelle promesse di Dio e, in particolare, questa promessa: “Io non ti lascerò e non ti abbandonerò” (Eb 13:5). Chi fa tesoro di questa promessa, fatta da un Dio che si è dimostrato fedele alle promesse fatte, può dire con piena fiducia: “Il Signore è il mio aiuto; non temerò. Che cosa potrà farmi l’uomo?” (v. 6). La parola “aiuto” si riferisce qui a un aiuto a 360 gradi, compreso l’approvvigionamento di ciò che serve per il fabbisogno quotidiano. Quindi il figlio di Dio è libero di usare la sua energia per i compiti che ha sotto mano oggi, senza sprecare energia preoccupandosi del domani. Sarà il suo Padre celeste a preoccuparsi del suo domani (Mt 6:33-34).

 

 

Il ruolo dei conduttori e la messianicità di Gesù

 

 Ci sono due riferimenti a “conduttori” in questo brano, uno al v. 7 e l’altro al v. 17.

 

• Nel primo caso il riferimento è a chi ha terminato la corsa, lasciando dietro di sé un esempio di fede. I lettori sono invitati a ritornare col pensiero su due aspetti dell’esempio lasciato da questi uomini. Innanzitutto “ricordatevi” di loro perché “vi hanno annunciato la parola di Dio” (v. 7). L’uso del tempo aoristo del verbo “parlare” (gr. elalesan) suggerisce che il riferimento sia al primo annuncio del Vangelo che aveva portato i lettori alla fede in Gesù come Messia, quindi al loro ingresso nella comunità del nuovo patto. Però il ministero di questi uomini si era protratto per tutta la vita. Sappiamo dal 10:32-24 che erano passati anche per tempi difficili, di vessazione e altri tipi di opposizione. Infatti, l’altro momento, nella vita di questi conduttori del passato, che i lettori sono invitati a considerare, è il modo in cui avevano terminato la loro vita. Evidentemente la loro fede era stata esemplare, fino alla fine.

Come nel caso degli esempi di fede descritti nel capitolo 11, l’autore passa dal parlare della vita esemplare dei conduttori del passato a parlare di Gesù, il cui ministero continua nel presente ed è assicurato anche per il futuro. Come nel passato il suo sacrifico aveva posto fine a ogni sacrificio, i lettori potevano contare anche sul suo ministero sacerdotale nel presente. In più potevano essere sicuri che, al tempo debito, lo stesso Gesù sarebbe tornato in gloria, nella veste di Messia, per compiere quanto previsto dal Salmo 110:4, quando “i suoi nemici” saranno “posti come sgabello dei suoi piedi”.

Come troviamo altrove nel Nuovo Testamento (per es. in Fl 2:5-11), il riferimento a Gesù come esempio diventa l’occasione per fare un’affermazione importante di tipo cristologico. Infatti, se in qualche lettore covava un dubbio riguardante l’identità messianica di Gesù, quanto a “colui che deve venire”,l’affermazione del v. 8 fuga ogni dubbio. Diverse traduttori di questo versetto hanno preso la libertà di spostare le parole greche ho autos (“lo stesso”) dalla posizione in cui si trovano nel testo greco (dopo “oggi”) mettendole fra “Gesù Cristo” e “ieri”.

Poi, sottintendendo il verbo “essere” prima delle parole “lo stesso”, si ottiene la seguente traduzione: “Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e in eterno.”È indiscutibile che il versetto, tradotto in questa maniera, esprime una verità molto importante: Gesù Cristo non cambia mai perché è “vero Dio”, oltre che “vero uomo”. Però alcune considerazioni consigliano di tradurre il versetto secondo l’ordine delle parole nel testo greco, il che rende il seguente significato: “Gesù (è) Cristo, ieri e oggi lo stesso e in eterno”. Uno dei motivi per preferire questa traduzione ha a che fare con il modo in cui l’autore usa il nome Gesù e il titolo Cristo in questa lettera: raramente stanno insieme. Non calcolando questo brano, le uniche volte in cui “Gesù” “Cristo” stanno insieme sono in 10:10 e 13:21. In genere, usa o il nome proprio Gesù o “Figlio di Dio” oppure lo identifica come il titolo di Messia (gr.Christos).

Ma il motivo più sostanziale per preferire la traduzione più letterale del versetto riguarda il suo rapporto con il resto del brano. Il v. 9 parla di tentativi di convincere i Giudei messianici a riabbracciare alcuni aspetti del giudaismo. Tale tentativo poteva essere accompagnato dall’insinuazione che bisognava aspettare un altro Messia capace di ristabilire il regno a Israele (cfr. At 1:6). Gesù, rispondendo alla domanda degli apostoli sui tempi del ristabilimento del regno a Israele, aveva detto che il Padre ha riservato “alla propria autorità” la questione dei tempi e momenti, mentre il tempo intermedio è riservato all’annuncio del Vangelo della grazia che è frutto della prima venuta del Messia (vv. 7-8). Ciò non toglie che sarà lo stesso Gesù, ora accolto in cielo “fino ai tempi della restaurazione di tutte le cose”, ad apparire la seconda volta (At 3:21; cfr. Eb 9:28).

Partendo dal suo sacrifico unico e finale, i ministeri di Gesù il Messia sono stabili in eterno. Ma dal momento che molti Israeliti del I secolo non avevano riconosciuto l’identità messianica di Gesù, andare a lui significava uscire “fuori dall’accampamento… portando il suo obbrobrio”.

L’immagine dell’accampamento rievoca il periodo in cui le tribù di Israele si accampavano secondo un ordine preciso, intorno al tabernacolo durante i quarant’anni nel deserto. Quindi “uscire dall’accampamento” significava, simbolicamente, lasciare la parte del popolo rimasta attaccata al patto levitico, per identificarsi, senza vergogna, con il Cristo crocifisso.

A questo proposito l’autore ribadisce che il sacrificio di Cristo ha un valore infinitamente più grande dei sacrifici offerti sotto il patto mosaico, reso obsoleto ormai dall’entrata in vigore del nuovo patto.

A differenza da come poteva sembrare agli Ebrei attaccati al patto levitico, in realtà sono coloro il cui cuore è “reso saldo dalla grazia” ad avere il diritto più grande, quello di beneficiare del sacrificio di Gesù, che lui offrì “fuori dalla porta della città” (Eb 3:9-14).

 

• L’altro riferimento a conduttori (v. 17) riguarda coloro che avevano la responsabilità di guidare la comunità al tempo in cui la lettera fu scritta. La parola greca hegoumenois si riferisce più alla loro funzione di condurre che non alle loro persone. Questi conduttori, come i loro predecessori, erano chiamati a guidare la loro comunità in tempi difficili. Per i loro predecessori la difficoltà stava nel fatto che la comunità subiva un’opposizione che provocava sofferenze fisiche e danni materiali; per quelli in carica la difficoltà risiedeva nel tentativo in atto di re-introdurre, come norme vincolanti, aspetti della legislazione mosaica, relative a vivande e altre cose simili.

L’autore esorta i suoi lettori a collaborare con i conduttori, sottomettendosi alla loro guida. I motivi per fare questo sono istruttivi: innanzitutto perché i conduttori devono rendere conto di come vegliano sulle anime dei membri della chiesa locale.

In altre parole il loro compito è di carattere soprattutto pastorale. Quindi si tratta di una sottomissione alla loro autorità e guida spirituale, esercitata non per signoreggiare su coloro che sono stati affidati a loro (cfr. 1P 5:1-4). In secondo luogo, la non collaborazione renderebbe il compito dei conduttori ancora più gravoso e ne diminuirebbe radicalmente l’utilità.

La collaborazione, invece, permetterebbe loro di svolgere il loro compito, nonostante sia molto delicato, con gioia.

 

 

Liberi di fare le cose di cui Dio si compiace

 

L’autore ha appena ricordato il diritto straordinario che hanno coloro che sono entrati nel nuovo patto. Infatti tutti godono di un accesso alla presenza di Dio che sarebbe stato inimmaginabile per coloro che servivano al tabernacolo del patto levitico (13:10). Quest’accesso passa per Gesù, che figura qui come “l’altare” del nuovo patto.

Questo nuovo approccio a Dio non va celebrato in modo passivo. Il diritto di sacerdozio va accompagnato dall’ingresso fiducioso nella presenza di Dio (cfr. 10:19-23). Nel trattare qui questo aspetto, l’autore adopera il linguaggio del patto levitico, di modo che i lettori, abituati a tale linguaggio, possano dare il giusto valore ai privilegi acquisiti per mezzo del sacrificio sufficiente e finale di Cristo.

Così esorta i suoi lettori in questi termini:

“Per mezzo di Gesù, dunque, offriamo continuamente a Dio un sacrificio di lode: cioè, il frutto di labbra che confessano il suo nome” (v. 15).

L’istruzione di Pietro è simile:

“Anche voi, come pietre viventi, siete edificati per formare una casa spirituale, un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali, graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo” (1P 2:5).

Commentando il v. 15 del nostro brano, F. F. Bruce scrive:

“I sacrifici di animali erano stati per sempre resi obsoleti dal sacrificio di Cristo, ma il sacrifico di ringraziamento poteva essere ancora offerto, anzi doveva essere offerto a lui da tutti coloro che hanno imparato ad apprezzare il sacrificio perfetto di Cristo… La trattazione fatta dal nostro autore del rituale sacrificale come antiquato si deve alla sua comprensione della finalità e efficacia perenne del sacrifico di Cristo”.

L’autore aggiunge al breve elenco di sacrifici di cui Dio si compiace una dimensione pratica, che ricalca il concetto di “sacrificio vivente” di cui Paolo parla in Romani 12:1. Scrive: “Non dimenticate poi di esercitare la beneficenza e di mettere in comune ciò che avete; perché è di tali sacrifici che Dio si compiace” (Eb 13:16). Il “mettere in comune ciò che avete” era stato sperimentato con grande successo nei primi tempi della chiesa di Gerusalemme (At 2:42-47; 4:32-36). Tale pratica costituisce un modo pratico di ubbidire al “nuovo comandamento” di Gesù: “Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 13:34).

Nel nostro brano si parla anche di “esercitare la beneficenza”, che sembra riferirsi al fare il bene a coloro che non appartengono ancora alla “casa della fede” (Ga 6:10). Questo richiede sacrificio. Ma si tratta di un modo di vivere di cui Dio, a cui dobbiamo ogni cosa, si compiace.

 


Per la riflessione personale e lo studio di gruppo

 

1. Quali caratteristiche importanti della vita nel nuovo patto sono testimoniate in questo brano?

2. Perché era opportuno che i lettori di Ebrei ricordassero che il Messia (Cristo) che Dio aveva promesso a Israele va sempre identificato nella persona e nei ministeri di Gesù?

3. Perché qualche tipo di pratica della comunione dei beni rimane importante ancora oggi?