“Però, non quello che io voglio,
ma quello che tu vuoi”
(Mc 14:36)
Conflitti emotivi nella sofferenza
Cosa è disposto a fare un genitore per alleviare le sofferenze di un figlio?
Quante famiglie vendono persino tutti i propri averi, avventurandosi in costosi viaggi della speranza, pur di tentare ogni strada percorribile che possa guarire un proprio caro!
La risposta al perché di questi sacrifici estremi sta in una semplice parola: amore.
È l’amore ciò che spinge un genitore a fare tutto ciò che gli è possibile di fronte al dolore del proprio figlio.
Che dire allora di un padre che può ogni cosa? Benedetto quel figlio che ha come padre una tale persona, perché di sicuro non soffrirà mai! Se, al contrario, quel figlio dovesse soffrire, le possibilità sarebbero infatti due:
1. non è vero che suo padre può ogni cosa;
oppure…
2. suo padre non lo ama abbastanza.
La fredda logica razionale di queste due opzioni inesorabili riflette proprio quei conflitti emotivi vissuti da un credente immerso nella sofferenza, mentre implora insistentemente un intervento salvifico da parte di colui che riconosce come Padre amorevole ed onnipotente, ma che invece appare sordo alle sue grida d’angoscia.
Di fronte a suppliche inascoltate è facile infatti scivolare in un rancore inconfessato verso Dio, che ci porta a dubitare della realtà del suo amore per noi.
Lentamente cresce quella dura scorza sul nostro cuore che ci fa vivere in quell’arido cinismo di chi guarda con disillusa sufficienza agli entusiasmi di coloro che hanno da poco sperimentato la grandezza dell’amore di Dio nella loro vita.
Li si guarda come a dei bambini che salutano sorridendo qualsiasi persona che passa davanti al loro passeggino, ma non conoscono ancora le ferite e le delusioni della cruda realtà: “Goditi questa beata innocenza, finché puoi farlo!”.
Oppure invece, pur senza abbandonare la consapevolezza dell’amore di Dio, si diviene via via sempre più scettici sul fatto che Dio possa davvero intervenire in modo potente e straordinario in risposta alla preghiera.
La certezza dell’onnipotenza di Dio si trasforma lentamente in un’affermazione squisitamente razionale, applicabile magari ai soli episodi del passato narrati nella Scrittura, ma che non si traduce in un’autentica aspettativa di fede nella nostra esperienza quotidiana.
L’esempio di Gesù-Uomo
Ha il nostro Signore Gesù sperimentato lo stesso conflitto nel corso del suo ministero terreno?
Sì, e lo vediamo espresso in tutta la sua umana trasparenza nella sua supplica accorata presso il Getsemani. La narrazione biblica di questo episodio ci trasmette tutta la sofferenza e l’angoscia di un uomo consapevole del destino violento e doloroso che lo attende di lì a breve. Gesù cerca un sostegno in coloro che gli stanno più vicino, non vergognandosi di mettere a nudo il proprio animo e pregandoli di essergli solidali in quello stato di profonda prostrazione:
“L’anima mia è oppressa da tristezza mortale; rimanete qui e vegliate” (Mr 14:34).
È in questo turbinio emotivo che Gesù prega il Padre con alte grida e con lacrime (Eb 5:7), mediante queste parole (Mr 14:36):
“Abbà, Padre! Ogni cosa ti è possibile; allontana da me questo calice!”.
Gesù implora insistentemente un intervento salvifico invocando: “Abbà, Padre!”.
Questa esclamazione non è il grido rivolto a un Dio distante e imperturbabile, ma la supplica di un figlio verso il proprio babbo, o papà che dir si voglia, colui cioè che Gesù riconosce come suo padre amorevole.
Continua poi con: “Ogni cosa ti è possibile”, riconoscendo dunque che il padre amorevole a cui si sta rivolgendo può ogni cosa, finanche allontanare da lui quel calice di sofferenza.
Anche Gesù dunque affronta quel conflitto lacerante di cui abbiamo parlato prima, tra la consapevolezza dell’amore e dell’onnipotenza di Dio, contrapposta alla realtà di una sofferenza che incombe, senza l’ombra di una via d’uscita.
Se però in queste parole possiamo veder rispecchiati quei dubbi che afferrano anche la nostra mente, esse ci mostrano soprattutto come Gesù, anche nella prova estrema, non smetta mai di affermare in modo netto, deciso e inequivocabile: “Sì, tu sei Abbà Padre! Sì, ogni cosa ti è possibile!”.
Le sue infatti non sono domande dubbiose, le sue sono affermazioni di fede, seppur vissute all’interno di un forte combattimento interiore.
Il “segreto” della vittoria di Gesù
Ma Gesù esce vittorioso da questo combattimento di fede. È indubbio che ne esca vittorioso, perché alla fine di questo momento intenso di preghiera egli ci appare come un Uomo totalmente trasformato.
Quell’Uomo che si era precedentemente rivolto ai suoi discepoli manifestando la tristezza mortale che lo attanagliava (Mr 14:34), eccolo ora risoluto ad affrontare consapevolmente il suo calice di sofferenza:
“Basta! L’ora è venuta: ecco, il Figlio dell’uomo è consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo…” (Mr 14:41-42).
Qual è il segreto di questa vittoria?
È importante conoscerlo, perché tante volte anche noi combattiamo in preghiera nelle prove più intense, rimanendo saldi nell’affermare con fede l’amore di Dio e la sua infinita potenza, ma non sempre questo si traduce nel medesimo ritrovato entusiasmo.
La risposta credo stia tutta in quel “Però…” che fa seguito alla sua invocazione di Marco 14:36.
“Però, non quello che io voglio, ma quello che tu vuoi”
Per Gesù è sempre stata ben chiara la necessità di sintonizzarsi sulla volontà di Dio e non sulla propria.
La stessa preghiera che aveva trasmesso ai suoi discepoli all’inizio del suo ministero prevedeva l’espressione“sia fatta la tua volontà anche in terra come è fatta in cielo” (Mt 6:10), proprio allo scopo d’insegnare la necessità di adeguarsi a una volontà celeste, che non sempre collima con quella terrestre, ma che ciò nonostante deve avere la priorità.
È importante però sottolineare che questa frase, “non quello che io voglio, ma quello che tu vuoi”, non sia l’espressione di un’accettazione passiva di un destino da cui purtroppo Gesù non può sfuggire.
Piuttosto, essa diviene per Gesù una potenza dinamica che gli permette di uscire dalla sua angoscia, aprendogli gli occhi a una prospettiva d’osservazione completamente diversa; riesce cioè, attraverso quelle parole, a indirizzare verso Dio quei riflettori fino ad allora puntati su sé stesso, sulla sua tristezza mortale.
Tante volte abbiamo davvero bisogno di cambiare prospettiva d’osservazione per avere una percezione reale del problema che stiamo vivendo. Pensiamo anche al rancore che il salmista Asaf maturava nel suo animo a causa del benessere di coloro che, incuranti di Dio e dei suoi comandamenti, godevano di fama e ricchezze (Sl 73). Anche lui trova una via d’uscita quando cambia la sua prospettiva d’osservazione, entrando nel santuario di Dio (Sl 73:17).
Comprendere “il meglio per noi”
Si dice a volte che quando il Signore non risponde alle preghiere, ciò accade perché… Dio ha in serbo per noi qualcosa di meglio.
Questa frase può essere ambigua, se non ci intendiamo bene su due elementi fondamentali: il limite temporale entro cui Dio realizzerà questo “meglio”, e l’ordine di priorità a cui è sottoposto ciò che è il meglio“per noi”.
In effetti può accadere di scoprirsi a ringraziare Dio per non aver risposto a suppliche accorate che gli abbiamo rivolto in un lontano passato. Tocchiamo con mano come Dio conoscesse in anticipo quali conseguenze nefaste avrebbe comportato nella nostra vita il venire incontro ad una richiesta che ci appariva allora così indiscutibilmente buona e irrinunciabile. Quando ciò accade, non ci rimane altro che inginocchiarci davanti al nostro Padre celeste, riconoscendo la sua paziente sopportazione dei nostri capricci infantili.
Ma non è sempre così. A volte infatti Dio non risponde alle nostre suppliche nonostante ciò che gli stiamo chiedendo sia a tutti gli effetti buono per noi.
È bene esserne consapevoli, perché altrimenti si rischia di cadere in un inconfessato senso di frustrazione, tutte le volte che ci vediamo negato dal Signore qualcosa che siamo convinti essere ciò di cui abbiamo effettivamente bisogno.
Pensare che Dio ha in serbo per noi qualcosa di meglio, può magari portarci a dirgli, a denti stretti: “…lo so che mi ami così tanto e che vuoi darmi ancora di più, ma ti autorizzo ad amami un po’ meno e darmi ciò che ti chiedo, perché so benissimo accontentarmi!!!”.
Per quanto possa apparire duro da digerire, proprio per evitare inutili frustrazioni, è bene riconoscere che a volte ciò che stiamo chiedendo è davvero il meglio per noi, ma… la volontà di Dio è un’altra.
L’esempio di Gesù nel Getsemani ci dice esattamente questo.
Dio ha forse risposto alla sua richiesta di allontanare da lui quel calice?
No!
Eppure, per Gesù, quello era sicuramente il meglio!
Che dire poi dei tanti nostri fratelli e sorelle che ogni giorno innalzano suppliche a Dio di essere liberati dalle torture e dalle persecuzioni?
Cos’è il meglio per loro?
Non è forse l’essere liberati da quei tormenti?
Ecco dunque perché è bene intendersi bene su quale sia il limite temporale entro cui si manifesta il meglio per noi. Per tanti fratelli e sorelle questo “meglio” non si realizzerà affatto su questa terra.
Le parole di Paolo in questo sono molto chiare:
“Infatti io ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria che dev’essere manifestata a nostro riguardo” (Ro 8:18), parlando però di una prospettiva futura, alla presenza di Dio.
Gesù stesso ha visto realizzato il suo meglio allorché, dopo la morte sulla croce, Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome (Fl 2:9).
D’altra parte, è bene intendersi anche su l’ordine di priorità che ci consente di realizzare il meglio per noi. Le parole di Gesù, “ non quello che io voglio, ma quello che tu vuoi”, ci invitano ad affermare la priorità di ciò che è meglio per Dio, rispetto a ciò che è meglio per noi.
Ebbene sì, a volte il Signore non risponde a una nostra lecita richiesta, sebbene essa esprima ciò che è davvero il meglio per noi, a causa del fatto questo non esprime il meglio per lui.
D’altra parte però la Scrittura ci rivela che è proprio nel fare la sua volontà, nel fare ciò che è meglio per lui, che noi realizziamo in modo profondo e autentico ciò che è il meglio per noi: “Ma quanto a me, il mio bene è stare unito a Dio” (Sl 73:28), queste sono le parole a cui giunse Asaf dalla nuova prospettiva d’osservazione in cui si era posto. Asaf comprende che il suo bene più autentico è frutto di una diversa priorità, in cui al primo posto non c’è più il suo bene soggettivo, ma ciò che è buono per il suo Dio.
Dare priorità a ciò che Dio vuole come espressione della nostra Fede in lui
Comprendiamo dunque come queste parole di Gesù, “Però, non quello che io voglio, ma quello che tu vuoi”, siano state per Gesù una potenza dinamica che lo ho reso disposto ad affrontare con coraggio quella prova estrema, e possono esserlo anche per tutti coloro che oggi sono sovrastati dal peso di una supplica apparentemente inascoltata.
Forse oggi non se ne comprende il motivo, ma sappiamo che il Signore sta portando a compimento un piano più grande, di cui ciascuno di noi è partecipe come suo collaboratore, forse proprio attraverso quella sofferenza.
Oggi siamo chiamati ad esercitare fede in lui, come servi ubbidienti. Fede nel fatto che un giorno comprenderemo il perché di quelle suppliche disattese, e ne saremo a lui grati.