Memoria storica ignorata o revisionata
Il 17 marzo di questo anno, in occasione della Festa per l’Unità nazionale (centocinquantesimo anniversario), l’attuale Papa ha inviato al Presidente della Repubblica un messaggio teso a riconsiderare il ruolo svolto dai cattolici, e dalla “chiesa”, nel processo di unificazione nazionale che chiamiamo Risorgimento.
L’atmosfera conciliante ha poi avuto il suo acme nella celebrazione di una funzione religiosa cattolica davanti a tutte le più alte cariche dello Stato e trasmessa in diretta dalle televisioni.
Si tratta sicuramente del punto più alto di un fenomeno teso a riconciliare la memoria storica del nostro paese che vedeva una frattura molto netta tra cattolicesimo e vicende risorgimentali.
Neanche il comico Roberto Benigni ha osato contrastare questo fenomeno quando nella sua performance a Sanremo ha ignorato totalmente il fatto che il Risorgimento si è fatto anche contro la Chiesa di Roma.
Nelle righe che seguono cerco allora di accennare a tre punti che naturalmente avrebbero bisogno di ulteriori approfondimenti nel tentativo di alludere al fenomeno del revisionismo, ai suoi limiti e a ciò che esso evoca in noi evangelici.
Gli obiettivi del revisionismo
Agli inizi degli anni ’90 la Conferenza Episcopale Italiana elaborò un’iniziativa volta a coniugare la missione della chiesa (cattolico–romana) e le esigenze più urgenti della nazione, identificando nella “cultura” il terreno in cui questa coniugazione era possibile. Nasce così il Progetto culturale della CEI all’interno del quale viene posto il tema dell’identità italiana.
È in questo quadro che riprende vigore, con tonalità nuove rispetto alla storiografia coeva alle vicende storiche, l’interpretazione del Risorgimento come di un fenomeno anticlericale ostile a un cattolicesimo ingiustamente represso ma che in realtà fu il vero trionfatore, passato il momento più difficile, delle vicende ottocentesche.
Costituisce un manifesto di questo grumo di problematiche, tra gli altri, il libro di Massimo Viglione, docente presso l’Università Europea di Roma (Legionari di Cristo), dato alle stampe nel 2005 (Città Nuova), dal titolo“Libera Chiesa in libero Stato? Il Risorgimento e i cattolici: uno scontro epocale”. L’autore si è ripetuto in questo ultimo anno con un altro testo di segno simile, dal titolo: “1861. Le due Italie. Identità nazionale, unificazione, guerra civile”.
Viglione prendendo spunto da incisi e commenti che si trovano sparpagliati nella storiografia risorgimentale degli ultimi 50 anni (anche Giorgio Spini serve al suo proposito!) fa emergere nella prima parte del suo libro (Le premesse ideologiche dello scontro) un quadro in cui le vicende del Risorgimento e dell’Unità d’Italia sono state un vero fallimento dal punto di vista dell’identità italiana in quanto questa era assicurata da ben 18 secoli dal legante della religione cattolica:
“È chiaro a tutti, insomma, come l’identità nazionale degli italiani sia debitrice all’azione svolta per diciotto secoli dalla Chiesa romana” (pag. 20).
Ratzinger nella sua lettera a Napolitano del 17 marzo non è andato così lontano e si è posto semplicemente l’obiettivo di valorizzare l’apporto dei cattolici e della Chiesa di Roma alla nascita e allo sviluppo della nazione italiana: “Non si può sottacere l’apporto di pensiero – e talora di azione – dei cattolici alla formazione dello Stato unitario”.
In maniera meno faziosa di Viglione anche Ratzinger però rileva che “la nazione italiana, come comunità di persone unite dalla lingua, dalla cultura, dai sentimenti di una medesima appartenenza, seppure nella pluralità di comunità politiche articolate sulla penisola, comincia a formarsi nell’età medievale” e da qui sottolinea il ruolo avuto dal cristianesimo nella forma cattolico romana (la Chiesa) in questa identità pre–risorgimentale.
La conclusione di tutta la revisione storiografica e delle diplomatiche manovre vaticane è dunque il concetto di“identità” italiana, concetto che ha l’obiettivo di espungere dall’italianità ciò che non manifesta gli elementi centrali di questa identità, soprattutto la religione e il fantomatico “sangue”!
È possibile un revisionismo storico così estremo?
Non è questo certamente il luogo in cui rispondere a questa domanda. Possiamo però dire alcune cose sinteticamente.
Negli studi storici si assiste spesso alle oscillazioni delle interpretazioni proposte dalle varie scuole; ma queste oscillazioni hanno un limite oltre il quale diventano narrazioni mitologiche.
Il Risorgimento non è immune a questa logica e conosce sia una narrazione ufficiale e paludata e sia una serie di miti alternativi quali quello della Chiesa di Roma perseguitata da giacobini, rivoluzionari di ogni risma, massoni e, senti senti, protestanti (nel libro di Viglione c’è un capitolo dal titolo: “Fare gli italiani… protestanti”).Rientra sicuramente all’interno delle narrazioni mitiche il concetto di “identità italiana”.
Tuttavia bisogna dire che queste narrazioni mitiche si appoggiano, manipolandoli, a dati che la ricerca storica illumina man mano che procede acquisendo nuovi materiali. Nel caso del Risorgimento quello che sta interessando gli studiosi, al di là del mito dell’identità, è il fenomeno della devozione popolare che in qualche modo sopravviverà alle vicende risorgimentali. È al contrario cosa acclarata il fatto che molti dei protagonisti del Risorgimento erano buoni cattolici. Non bisogna scandalizzarsi di ciò.
Ciò che può essere utile ricordare, però, è che tutte le letture revisionistiche del Risorgimento tendono a sottacere o a relativizzare il ruolo che ebbero nell’800 la Chiesa e il Papato in quanto Istituzioni. Il revisionismo tende infatti ad esagerare il ruolo delle correnti razionaliste e laiciste esterne alla Chiesa.
In realtà uno dei problemi più grandi della nostra unità nazionale fu rappresentato dal vistoso distacco tra l’Istituzione ecclesiale, completamente arroccata su privilegi temporali (si ricordi infatti che il Papa era il principe di un vero e proprio Stato) e le aspirazioni di tanti cattolici che nel percepire la possibilità di unire l’Italia, liberandola dagli stranieri, pensavano che un’istituzione come la Chiesa avrebbe facilmente accolto, rinunciando al potere temporale, un ripiego sui suoi interessi esplicitamente religiosi e spirituali. Così non fu e tutte le speranze nutrite per esempio dalla corrente definita “neoguelfismo” e incarnata dall’opera di Vincenzo Gioberti, “Il primato morale e civile degli italiani” (1843), andarono deluse allorquando nel 1848, nel pieno della prima guerra d’Indipendenza, Papa Pio IX pronunciò il 29 aprile davanti al Concistoro la famosa Allocuzione con la quale si sfilava dal conflitto con l’Austria, abbandonando la guerra:
“Non possiamo astenerci dal ripudiare, al cospetto di tutte le genti, i subdoli consigli, palesati eziandio per giornali e per vari opuscoli, da coloro i quali vorrebbero che il pontefice romano fosse capo e presiedesse a costituire una simile nuova Repubblica degli universi popoli d’Italia. Anzi, in questa occasione ammoniamo e confortiamo gli stessi popoli d’Italia, mossi a ciò dall’amore che loro portiamo, che si guardino attentamente da siffatti astuti consigli e perniciosi alla stessa Italia, e di restare attaccati fermamente ai loro prìncipi di cui sperimentarono già la benevolenza e non si lascino mai staccare dalla debita osservanza verso di loro. Qualora altrimenti lo facessero, non solo verrebbero meno del loro debito, ma anche avrebbero pericolo che la medesima Italia non si scindesse ogni giorno di più in maggiori discordie ed intestine fazioni.”
Giovanni Spadolini, nella famosa conferenza del 1954 sul rapporto tra Cattolicesimo e Risorgimento parlava a questo proposito della lacerazione del ’48 e del dissidio interiore dei cattolici.
A partire da quel momento la vicenda risorgimentale si arricchisce del capitolo molto complesso costituito dalla posizione del Papa che si opporrà a tutti gli eventi cruciali della liberazione e dell’Unità, che non accetterà il nuovo Regno d’Italia (“Non possumus”), che si riterrà prigioniero all’atto della presa di Porta Pia, rifiutando la benevola Legge sulle Guarantigie e che opererà continuamente per scongiurare i cattolici dal prendere parte attiva alla vita politica e sociale della nazione (“Non expedit” = “Non conviene”, 1868).
Nasce così nel periodo di preparazione (1848–1861) il problema della “questione romana” e quello ancor più complesso del rapporto tra Stato e Chiesa.
A queste problematiche, risolte almeno in parte dal genio di Cavour, succederanno dopo l’unificazione le problematiche della Conciliazione, fino al momento della riappacificazione tra mondo cattolico “istituzionale” e potere politico, che avverrà ai tempi dei Patti Lateranensi nel 1929.
Dunque la storia presenta un racconto abbastanza stabile sia delle tante anime del Risorgimento sia delle dinamiche del suo accadere: in questo racconto resta ancora fermo il fatto che l’Istituzione romana si oppose alle aspirazioni di libertà dei suoi stessi fedeli, creando lei stessa, nel corpo sociale, un dissidio, anche violento (le insorgenze), tra popolazioni rurali e ceti più colti. Si può dire, insomma, che la Chiesa non fu perseguitata ma scelse lei stessa una strada costellata di atti autoritari fuori dal tempo (come le Encicliche anti-moderniste e il Concilio Vaticano I con il dogma dell’Infallibilità papale) lungo la quale a suo tempo (con il fascismo!) avrebbe operato una clamorosa inversione.
Cosa abbiamo da dire in qualità di evangelici?
Certo, come evangelici non ci ha mai allettato l’ipotesi che a trionfare fosse stata la corrente neoguelfa di Gioberti, il quale voleva un’Italia unita sotto il primato, non più temporale, del Papa di Roma. Negli anni a cavallo dell’Unità, quando era in pieno svolgimento la riflessione sul rapporto tra Chiesa e Stato, dopo il famoso discorso di Cavour in cui questi pose le basi della soluzione del problema Chiesa–Stato (“libera Chiesa in libero Stato”) e ipotecò il destino di Roma, proclamandola capitale del Regno (27 marzo 1861), Teodorico Pietrocola Rossetti ammoniva sulle ipotesi di riconoscere, per legge alla Chiesa (la religione di Stato), un primato spirituale. Nel suo opuscolo “La religione di Stato” (1860–61) egli infatti sosteneva che anche il “potere”spirituale si sarebbe presto trasformato in qualcosa di più sostanzioso.
È indubbio che la ricerca sul Risorgimento si sta dilatando e sta illuminando sempre nuovi ambiti e nuove problematiche.
Ciò vale anche per noi evangelici.
Penso per esempio alla precauzione che dovremmo avere nello sposare acriticamente una tesi di dubbia provenienza come quella della riforma mancata elaborata dagli intellettuali hegeliani. Tuttavia come evangelici continuiamo a pensare al Risorgimento come a una stagione provvidenziale per l’Italia, una stagione voluta dal Signore per permettere alla nostra terra, anche se in mezzo a tante difficoltà, di assistere alla diffusione della Bibbia.
L’idea che l’Italia, la cui preesistenza culturale era apprezzata anche dai credenti, potesse incarnarsi in una formazione statuale unitaria che contemplasse la possibilità di essere italiani anche se non cattolici fu un’idea che appassionò vivamente i nostri fratelli e le nostre sorelle dell’800.
La passione era in ordine a due, forse a tre obiettivi:
• beneficiare concretamente di un principio che evidentemente non era intravisto tra i benefici che si suppone la Chiesa di Roma avrebbe dato alla terra d’Italia per 18 secoli, quello della libertà dell’individuo;
• in secondo luogo vedere la diffusione della conoscenza della Parola di Dio e del Vangelo e,
• in ultimo, la speranza che la combinazione dei due precedenti obiettivi potesse essere estremamente benefica per il nuovo regno.
In ordine a questi obiettivi, e alle strade che si prefiguravano per raggiungerli, gli evangelici dell’800 operarono una diversa lettura dei secoli precedenti: per essi quei secoli non erano stati pacifici secoli di dominio sereno del cattolicesimo.
La storia dell’Italia non era leggibile solo in chiave “guelfa” ma lo era anche in chiave “ghibellina”, vale a dire come la registrazione di un continuo contrasto nei confronti di pretese della Chiesa di Roma che generazioni di“italiani” avevano avvertito come non spirituali se non addirittura anti–spirituali.
Non è un caso che gli esuli ottocenteschi per ragioni più o meno di fede, a partire da Gabriele Rossetti e arrivando a Camillo Mapei e Salvatore Ferretti vollero sancire di appartenere a questa diversa storia d’Italia intitolando il giornale che pubblicavano a Londra dal 1857 “L’eco di Savonarola”, ascrivendolo cioè a uno dei campioni di questa storia alternativa.
Piero Guicciardini, dal canto suo, volle dare lo stesso messaggio con la sua famosa raccolta di opere religiose, principalmente Bibbie, principalmente italiane ma sostanzialmente non–cattoliche, raccolta che ancora oggi costituisce il Fondo Guicciardini della Biblioteca Nazionale di Firenze.
Lo storico Domenico Maselli ha poi insistito continuamente sulla necessità che si comprenda il valore che gli evangelici dell’800 attribuivano a questa lettura della storia italica, una lettura che in qualche modo vedeva problematico anche il rapporto con la Riforma protestante, considerata roba straniera.
Dunque l’evangelismo ottocentesco tentò di legittimarsi sul piano storico appellandosi a una tradizione di tentate riforme religiose nella quale la Riforma protestante era solo uno dei tanti momenti, essa stessa debitrice allo spirito italico (“la risveglia italiana” nelle parole di Guicciardini).
In questo modo, mediante questa rilettura delle vicende italiche, gli evangelici italiani dell’ottocento coniugarono ciò che non era riuscito neanche ai riformatori italiani del ‘500 e del ‘600, da Pietro Martire Vermigli a Giovanni Diodati, Girolamo Zanchi, Francesco Turretini, ecc.., vale a dire l’anelito a una religione che fosse fondata nella Bibbia, il Vangelo, da professare nella terra dei padri senza andare in esilio e l’idea che la stessa terra dei padri potesse beneficiare di questa religione. Tutto ciò, appunto, in quanto e a pieno titolo italiani.
Anche la questione romana interessò i credenti dell’800. Essi non furono immuni dall’entusiasmo della maggior parte dell’opinione pubblica mondiale sia nel momento della Repubblica romana (1848–1849) sia, e ancor di più, nel 1870 con Porta Pia.
Ma c’è un distinguo da fare.
In diversi e tra questi, più lucidamente di tutti, Rossetti, si resero conto che gli obiettivi della diffusione della Bibbia e della conoscenza del vangelo e la speranza che questa diffusione fosse benefica per la nazione non coincidevano con l’abbattimento manu militare o anche politico–istituzionale del papato e della religione cattolica. Questo era un equivoco e questo equivoco divenne particolarmente pericoloso proprio con la presa di Roma. Nell’editoriale di uno dei primi numeri de “La Vedetta cristiana” Rossetti afferma perentoriamente:
“Fratelli con quale spirito andrete voi a Roma per annunziare l’Evangelo? – Non siate precipitosi nel decidervi, non correte all’impazzata, non siate animati dal vano proposito di essere i primi a portare l’evangelo a’ Romani: – ma raccoglietevi piuttosto in voi stessi, mettetevi alla presenza del Signore, e investigate il carattere, i sentimenti e le afflizioni dello spirito che è in voi. (…) Voi lo sapete: da qualche tempo non è GESÙ CRISTO ED ESSO CROCIFISSO che si predica, ma la controversia clamorosa e beffarda, i principi, le divisioni! (…) Ma se alcuno andrà a Roma per predicare la sua chiesa, i suoi principi, le sue forme, e cambierà la cattedra della Verita in una cattedra di maldicenze contro il Papa, i preti, i frati ecc, la provincia romana diventerà campo di contenzione clamorosa come avvenne nell’Italia centrale e nella meridionale – dopo un breve rumore gli uditori spariranno come pula sospinta dal vento, e gli evangelizzatori che sciupano e disertano il ricco campo della Grazia dovranno uno stretto conto del loro operato carnale davanti al tribunale di Cristo.”
In questo scritto troviamo la straordinaria e lucida critica della postura anticlericale dalla quale lui, che non mancava di confutare i dogmi e i principii della Chiesa romana, raccomandava di prendere le distanze per amore del Vangelo.
C’era un punto infatti che stava particolarmente a cuore ai vari personaggi dell’evangelismo dell’800, un punto che poi operò anche da elemento chiarificatore nelle spaccature che intervennero in particolare dagli anni ’70 in poi: la possibilità di essere equivocati.
Era così forte in loro il desiderio che gli italiani ascoltassero veramente e per la prima volta la Parola di Dio, che si preoccuparono di rimuovere tutti quelli che potevano apparire degli alibi che avrebbero impedito ai loro connazionali di ascoltare ed eventualmente di credere. Uno di questi era la collocazione storico–ideale della loro esperienza di fede, vale a dire il rapporto con la Riforma protestante. Non erano degli ingenui e neanche dei primitivisti, nel senso che non si ritenevano proiettati nella storia, a quel punto, dai tempi dell’era apostolica e sorvolando secoli di testimonianza.
Ancora una volta la Biblioteca Guicciardiniana sta a dimostrare come essi si sentissero “eredi” e quanto sia fuorviante strumentalizzare il loro non voler essere considerati “protestanti”. Tuttavia essi volevano vivere responsabilmente questa eredità: non erano cattolici, ma non volevano essere considerati né anticlericali né protestanti. Essi si sentivano a un tempo e con tutte le loro forze, cristiani ed italiani.
Ecco come si esprime Bonaventura Mazzarella nella Conferenza dell’Alleanza Evangelica del 1861 tenutasi a Ginevra:
“…Considerate la nostra condizione. Non si tratta per noi di opporre ai nostri cittadini né templi, né riti, né storia, né clero, perciocché han tutto ciò superiormente. Una cosa non hanno, la quale proporremo e opporremo: il Vangelo. Ed a coloro che ci chiedono: chi erano mai gli avi vostri o quale è la vostra storia? Rispondiamo: eravamo morti nei nostri falli e nei nostri peccati, ma ora viviamo in Cristo! È vero, gl’Italiani hanno i lor pregiudizi contro il protestantesimo, ma a che pro ragionarne? Cristo è il nostro Salvatore, non il protestantesimo…”.
In “La rivista cristiana” III, 1873, pagg. 376 ss.