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ELEMENTI COMUNI

 

Nei brani biblici che affronteremo sarà possibile rinvenire elementi sia comuni che differenziali tra uomini ed animali.

 

 

Prima, durante e dopo il diluvio

 

Un primo episodio da considerare è quello relativo al diluvio. In particolare ci interessa esaminare cosa accadde alla fine del diluvio:

“Poi Dio si ricordò di Noè, di tutti gli animali e di tutto il bestiame che era con lui nell’arca; e Dio fece passare un vento sulla terra e le acque si calmarono…” (Ge 8:1).

 

Dio “si ricordò” di tutte le sue creature che erano sopravvissute al diluvio. Il “ricordarsi” di Dio, è un antropoformismo che rivela bene il carattere compassionevole di Dio, il quale si estende non solo agli uomini ma a tutti gli animali.

Il racconto biblico non nasconde l’importanza speciale che Dio diede a Noè in tutta la storia (cfr. 6:7-8), ma ciò non sminuisce l’attenzione che il Signore ha dato agli “animali” ed anche al “bestiame”.

 

Tutta la Scrittura conferma che il Creatore non si dimentica delle sue creature, anche degli animali (es. Lu 12:6), perché egli si rallegra in relazione a tutto ciò che la sua mano ha fatto, compreso il bestiame (cfr. Gn 4:11).

Dopo essersi ricordato di Noè e di tutte le altre creature che erano nell’arca, il Signore entrò in azione rivolgendosi direttamente a Noè:

“«Esci dall’arca tu, tua moglie, i tuoi figli e le mogli dei tuoi figli con te. Tutti gli animali che sono con te, di ogni specie, volatili, bestiame e tutti i rettili che strisciano sulla terra, falli uscire con te, perché possano disseminarsi sulla terra, siano fecondi e si moltiplichino su di essa».

Noè uscì con i suoi figli, con sua moglie e con le mogli dei suoi figli. Tutti gli animali, tutti i rettili, tutti gli uccelli, tutto quello che si muove sulla terra, secondo le loro famiglie, uscirono dall’arca (Ge 8:16-19).

 

Il Signore conosceva l’indole ubbidiente di Noè, e sapeva che non sarebbe mai uscito dall’arca di propria iniziativa: perciò gli ordinò di farlo, specificando che dovevano uscire anche tutti gli animali di qualsiasi genere che si trovavano nell’imbarcazione. In questo caso il Creatore rinnovò anche la benedizione di fecondità fatta all’inizio della creazione (cfr 1:22), ma lo fece solo per gli animali.

In questo modo, Dio consentì a Noè di condurre egli stesso fuori dall’arca tutte le creature. Tornati sulla terraferma, fu un po’ come ritornare all’inizio della creazione ed è significativo che Dio non permise che questo “ritorno alle origini” avesse luogo senza gli animali: egli, naturalmente, conosceva bene la loro fondamentale importanza per la sopravvivenza dell’uomo.


La consacrazione dei “primogeniti”

 

Un altro ambito nel quale è possibile rinvenire elementi comuni fra l’uomo e gli animali, è quello relativo alledisposizioni concernenti la consacrazione a Dio dei primogeniti:

“Consacrami ogni primogenito tra i figli d’Israele, ogni primo parto, sia tra gli uomini, sia tra gli animali: esso appartiene a Me…Consacra al Signore ogni primogenito e ogni primo parto del tuo bestiame. I maschi saranno del Signore” (Es 13:2, 12).

 

Nell’ambito delle prescrizioni concernenti la Pasqua il Signore chiese a Israele che gli fossero consacrati anche tutti i primogeniti: quelli degli uomini e quelli degli animali, perché ciascuno di essi appartiene in modo speciale a lui.

L’espressione ebraica per “primo parto” è molto significativa e, tradotta letteralmente, può essere resa con:“tutto ciò che apre l’utero (fra gli Israeliti, di uomini e di bestie)”: ogni primo maschio doveva essere consacrato a Dio e poi riscattato (v. 13), perché l’Eterno in Egitto salvò tutti i primogeniti ebrei, degli uomini come degli animali (v. 14-16).

 

Operando così, il Signore dimostra di considerare sia gli uni che gli altri come parte effettiva del suo popolo. Dio aveva eletto Israele come il suo primogenito fra le genti (cfr Es 4:22), e in Egitto egli aveva già “messo da parte”tutti i primogeniti, salvandoli dall’Angelo distruttore (cfr Nu 3:13; 8:17), per cui ora egli chiedeva che gli venissero“messi da parte” i primogeniti di tutti gli esseri viventi appartenenti al suo popolo.

 

Le disposizioni sulla primogenitura sono di una certa importanza per Dio, se è vero che vengono ripetute anche in Esodo 34:19, in Levitico 27:26 e in Numeri 3:13. In Es 22:30 troviamo che Dio riconosce una grande importanza a quell’istinto materno da lui stesso creato. Sta scritto, infatti:

“Mi darai il primogenito dei tuoi figli. Lo stesso farai del tuo grosso e del tuo minuto bestiame:

il loro primo parto rimarrà sette giorni presso la madre; l’ottavo giorno me lo darai”.

 

 

Ai piedi del Sinai

 

Al Sinai troviamo un’altra dimostrazione che, nella mente di Dio, gli animali erano parte del popolo:

“Tu fisserai tutto intorno dei limiti al popolo, e dirai: «Guardatevi dal salire sul monte o dal toccarne i fianchi. Chiunque toccherà il monte sarà messo a morte. Nessuna mano dovrà toccare il colpevole: questo sarà lapidato o trafitto con frecce; animale o uomo che sia, non dovrà vivere!» Quando il corno sonerà a distesa, allora essi potranno salire sul monte” (Es 19:12-13).

 

Javè stava per rivelarsi in tutta la sua gloria a Mosè sul monte Sinai; allora gli comandò di santificare il popolo e di evitare che esso toccasse il monte (v. 10-12): chiunque avesse disubbidito sarebbe stato messo a morte, anche se si fosse trattato di un animale.

È evidente che siamo davanti ad una norma molto forte, che stabilisce una debita distanza fra gli adoratori e il Dio da adorare, ma che fissa anche un principio di necessaria vigilanza sugli animali da parte degli uomini. Infatti un animale non poteva disubbidire ad una norma che non era in grado di comprendere; qui interveniva la responsabilità oggettiva dell’uomo, che doveva amare gli animali fino al punto di evitare che morissero per una sua negligenza.

 

 

Il giorno del riposo

 

Subito dopo quest’episodio, l’Eterno pronunziò le famosissime “dieci parole”, la quarta delle quali si esprime così:

“…ma il settimo è giorno di riposo, consacrato al Signore Dio tuo; non fare in esso nessun lavoro ordinario, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né lo straniero che abita nella tua città…” (Es 20:10).

 

Il Signore impone qui un giorno di riposo (ebr. shabbàt) che sia solennemente consacrato a lui e che coinvolga sia gli uomini che gli animali: nessuno doveva lavorare perché l’intero settimo giorno doveva essere dedicato in modo speciale a Dio, senza fare alcun tipo di lavoro.

Nel testo in italiano non appare evidente, come in quello ebraico, che la frase distingue due classi di persone: da un lato vi sono gli uomini liberi e i loro figli, dall’altro gli schiavi e gli stranieri ed anche il bestiame.

 

 

La legge dell’interdetto

 

Passando al libro del Levitico, leggiamo:

“Nondimeno, tutto ciò che uno avrà consacrato al Signore per voto d’interdetto, fra le cose che gli appartengono, si tratti di una persona, di un animale o di un pezzo di terra del suo patrimonio, non potrà essere né venduto, né riscattato; ogni interdetto è cosa interamente consacrata al Signore” (Le 27:28).

 

Nella legge sull’interdetto, così come esposta nel versetto appena citato, non vi è alcuna differenza davanti a Dio fra gli uomini e gli animali: tutto ciò che veniva consacrato al Signore non poteva essere né riscattato né venduto, a prescindere dal fatto che il proprietario potesse offrire una persona umana sottoposta alla sua autorità oppure un animale o un pezzo di terreno.

La parola ebraica per “interdetto” è cherèm e contiene l’accezione fondamentale della totalità e della completezza: qualunque persona o animale o cosa veniva interamente consacrata al Signore dal relativo proprietario ed era “santa”, cioè messa da parte per Dio e dedicata a lui soltanto. Anzi, essa era cosa“santissima” per il Signore (cfr. 2:3), totalmente e completamente consacrata a Lui, per cui queste persone o questi animali dovevano essere sacrificati ed uccisi e non potevano essere risparmiati in alcun modo.

Un autore ha avanzato l’ipotesi secondo cui il voto d’interdetto, relativamente al sacrificio umano, non poteva essere considerato libero, ma occorreva limitarlo a casi particolari di palesi e continuate disubbidienze di persone già consacrate a Dio, come i sacerdoti. In modo analogo, seguendo quest’interpretazione si sostiene che consacrare per interdetto animali o terreni doveva essere necessariamente limitato ai casi in cui essi impedivano o ritardavano in qualche modo la dedicazione a Dio promessa dal loro padrone.

 

 

Il valore dato agli animali

 

Vediamo ora un altro brano della Torà, da cui risultano elementi comuni fra uomini e animali davanti a Dio:

“…e presero tutte le spoglie e tutta la preda: gente e bestiame…Il Signore disse ancora a Mosè: «Tu, con il sacerdote Eleazar e con i capi famiglia della comunità, fa’ il conto di tutta la preda che è stata fatta: della gente e del bestiame…Dalla metà che spetta ai figli d’Israele prenderai uno su cinquanta, tanto delle persone quanto dei buoi, degli asini, delle pecore, di tutto il bestiame e lo darai ai Leviti, che hanno l’incarico del tabernacolo del Signore »” (Nu 31:11, 26, 30).

In questo brano troviamo un’applicazione della legge dell’interdetto esaminata poc’anzi: eseguendo l’ordine di Dio (v. 1), il popolo d’Israele sconfisse l’esercito di Madian e ne uccise il re e tutti i maschi (v. 7-8), ma risparmiò e prese per sé le donne e i bambini, oltre al bestiame e ad altri beni materiali (v. 9-11). Ciò fece adirare Mosè (v. 14-16), che però, alla fine, lasciò in vita tutte le vergini (v. 17-18); l’intero bottino fu diviso in parti uguali fra i combattenti, da un lato, e la comunità, dall’altro (v. 25-27), e furono inoltre prelevate una parte come tributo al Signore e un’altra come dono ai Leviti (v. 28-30).

L’elemento comune è evidente: sia il bestiame (pecore, buoi ed asini) che gli uomini (in questo caso: donne e bambini) sono stati ritenuti di valore tale da essere risparmiati dal voto d’interdetto. Dio include sia uomini che animali nel conteggio della preda e del bottino che doveva essere distribuito fra i soldati e in mezzo al popolo, nonché nel conteggio del tributo che doveva essere consacrato all’Eterno e di quello che doveva essere donato ai Leviti, dopo che ciascuna persona e ciascun animale fosse stato purificato con acqua (v. 23).

 

 

Uguale brevità della vita

 

Un Salmo contiene indicazioni sull’esistenza, nella mente di Dio, di elementi comuni fra uomini e animali. In questi versetti, infatti, è dato leggere:

“Ma anche tenuto in grande onore, l’uomo non dura; egli è simile alle bestie che periscono… L’uomo che vive tra gli onori e non ha intelligenza è simile alle bestie che periscono” (Sl 49:12, 20).

 

Per due volte i figli di Core attestano l’esistenza di un elemento comune fra uomini ed animali: la vita di entrambi non dura per sempre e sia gli uni che gli altri periscono. La forma del brano è quella poetica del “proverbio”, ma ciò non sminuisce la crudezza della realtà ad esso sottesa:, quella dell’inevitabilità della fine della vita, che ci rende simili agli animali proprio come succede con l’inizio della vita stessa.

 

L’uomo è folle se pensa di potersi sottrarre alla morte convinto che i suoi beni dureranno per sempre: la vita terrena è un soffio e, proprio come succede per gli animali, tutti noi morremo e i nostri cadaveri andranno in putrefazione, come quelli dei cani e dei gatti. Se l’uomo, che è dotato di intelligenza, non comprende questo dato di fatto e non vi fa discendere le debite conseguenze, egli è più stupido di un qualsiasi animale perché quest’ultimo non è stato creato per comprendere tale realtà.

 

Lo stesso tema viene ripreso da Salomone:

“Io ho detto in cuor mio: «Così è a causa dei figli degli uomini, perché Dio li metta alla prova, ed essi stessiriconoscano che non sono che bestie». Infatti, la sorte dei figli degli uomini è la sorte delle bestie; agli uni e alle altre tocca la stessa sorte; come muore l’uno, così muore l’altra; hanno tutti un medesimo soffio, e l’uomo non ha superiorità di sorta sulla bestia; poiché tutto è vanità. Tutti vanno in un medesimo luogo; tutti vengono dalla polvere, e tutti ritornano alla polvere. Chi sa se il soffio dell’uomo sale in alto, e se il soffio della bestia scende in basso nella terra? (Ec 3:18-21).

 

Il saggio re Salomone ricorda che c’è un momento per ogni cosa (v. 1-10), che Dio è il creatore ed il sovrano del tempo (v. 11-15) e che egli è il giusto Giudice che vuol far capire agli uomini la loro natura caduca, simile a quella delle bestie (v. 16-22). Il Signore desidera ridimensionare l’orgoglio degli uomini e vuole, per il loro bene, che si rendano conto che non v’è distinzione fra esseri umani e animali, almeno davanti alla morte: tutti dipendono dal tempo e dalle circostanze e sono sottoposti alla volontà sovrana di Dio. Non v’è alcuna superiorità dell’uomo: tutti nascono e muoiono e, guardando solo “sotto il sole” non è dato comprendere se, dopo la morte, gli uomini e le bestie avranno sorti differenti. Entrambi, infatti, almeno per quanto riguarda il visibile, hanno la stessa destinazione: “la polvere della terra”, cioè la decomposizione del corpo fisico. Il Signore lancia indirettamente una sfida contro coloro che vivono come se fossero immortali e come se non dovessero mai rendere conto a lui.

 

Sulla stessa scia, nel libro di Giona leggiamo:

“Poi, per decreto del re e dei suoi grandi, fu reso noto in Ninive un ordine di questo tipo: «Uomini e animali, armenti e greggi, non assaggino nulla; non vadano al pascolo e non bevano acqua; uomini e animali si coprano di sacco e gridino a Dio con forza; ognuno si converta dalla sua malvagità e dalla violenza compiuta dalle sue mani…»” (Gn 3:7-8).

 

Dopo le sue prime riluttanze, Giona aveva ubbidito a Dio e aveva predicato a Ninive l’im-

minente castigo divino causato dai peccati del popolo assiro (v. 1-4). Come temeva il profeta, però, questi pagani nemici d’Israele credettero a Dio e proclamarono un digiuno, che divenne un affare di Stato quando lo stesso re emanò un decreto che imponeva a tutti, uomini e animali, di astenersi dal mangiare qualsiasi cibo e dal bere acqua per gridare a Dio ed invocarne la misericordia e il perdono (v. 5-8).

Ciò che colpisce in questo brano è proprio che il digiuno completo fu esteso anche agli animali, in particolare buoi e pecore, che venivano così considerati parte integrante della popolazione ed elemento attivo nella richiesta di perdono a Dio per i peccati del popolo. In tal senso, allora, questo brano conferma che le sorti di uomini ed animali sono molto più legate fra loro di quanto oggi possiamo immaginare o dedurre dalle teorie sull’evoluzionismo.

Naturalmente, erano i padroni che dovevano vestire di sacco i loro animali ed evitare di condurre al pascolo le loro pecore o abbeverare le loro mucche, e ciò avrebbe sicuramente aggravato le loro “alte grida a Dio” perché avrebbero visto le sofferenze del proprio bestiame innocente, oltre che dei propri cari.

 

È interessante notare che Erodoto e Plutarco raccontano di un digiuno, che coinvolse uomini ed animali e che si verificò in Persia dopo la morte del generale Masistio, ucciso nella battaglia di Platea: si narra che in quell’occasione anche gli animali alzarono alte grida di dolore e, per quanto naturalmente le bestie non potessero comprendere i motivi di quel digiuno, parteciparono anch’esse all’afflizione dell’intero popolo.

 

 

ELEMENTI DISTINTIVI

 

Passiamo ora a considerare quali siano, alla luce della Scrittura, i principali elementi che invece distinguono, nella mente di Dio, gli uomini dagli animali.

 

 

Diverso valore della vita

 

Una volta usciti dall’arca dopo il diluvio, il Signore benedisse Noè e i suoi figli, ribadendo e ampliando le benedizioni elargite all’inizio della creazione (Ge 9:1) ma anche stabilendo i dettagli operativi del dominio dell’uomo sugli animali (v. 2): l’uomo, con dei precisi limiti, poteva ora mangiare carne di animali (v. 3-4). Allo stesso tempo fu stabilita la natura sacra della vita dell’uomo, allorché Dio disse (Ge 9:5-6)…

“Certo, Io chiederò conto del vostro sangue, del sangue delle vostre vite; ne chiederò conto a ogni animale; chiederò conto della vita dell’uomo alla mano dell’uomo, alla mano di ogni suo fratello. Il sangue di chiunque spargerà il sangue dell’uomo sarà sparso dall’uomo, perché Dio ha fatto l’uomo a sua immagine (Ge 9:5-6).

 

La vita umana, al contrario di quella animale, era considerata assolutamente sacra ed inviolabile, fino al punto che l’uccisione di un uomo sarebbe stata punita con la morte del responsabile, sia esso un uomo o anche un animale.

Il discorso di fondo è chiaro: la vita non ci appartiene e non ne possiamo disporre a nostro piacimento, se è vero che persino gli animali saranno messi a morte se uccideranno un uomo. In tal senso, allora, emerge anche il principale elemento distintivo, fortemente motivato, tra gli uomini e gli animali: solo i primi, infatti, sono stati creati “a immagine di Dio” e pertanto solo gli uomini hanno ricevuto una vita che è particolarmente degna di attenzione da parte del Creatore!

 

Anche nel Levitico scorgiamo sia un elemento comune che un elemento di distinzione fra gli uomini e gli animali, anche se quest’ultimo appare prevalente:

“Chi percuote a morte un capo di bestiame lo pagherà: vita per vita… Chi uccide un capo di bestiame lo pagherà; ma chi uccide un uomo sarà messo a morte” (Le 24:18, 21).

 

È evidente la disapprovazione di Dio per l’uccisione di qualsiasi sua creatura, fino al punto di dichiarare colpevole e degno di sanzione l’assassino. Vi è però una sostanziale differenza che emerge con chiarezza: chi avrà ucciso un uomo dovrà egli stesso essere messo a morte, mentre chi avrà ucciso un animale dovrà solo risarcire il danno al padrone in denaro oppure con l’uccisione di un proprio capo di bestiame, se mai ne fosse stato proprietario.

Uccidere il bestiame altrui violava il diritto di proprietà privata, stabilito e difeso da Dio a tutela dell’ordine sociale: per questo motivo, allora, era necessario che l’uccisore di un animale altrui risarcisse interamente il danno provocato al proprietario.

L’elemento di distinzione appare prevalente rispetto all’elemento comune: la morte di un animale veniva punita solo con un risarcimento del danno, in natura o economico, e solo se l’animale aveva un proprietario, mentre per l’assassinio di un uomo si applicava pienamente la cosiddetta “legge del taglione” sotto il profilo del principio“vita per vita”. Agli occhi di Dio un uomo fatto a sua immagine non potrà mai essere posto sullo stesso piano di un animale, il cui valore è inferiore per natura e per essenza.

 

Più avanti nel Levitico leggiamo:

“Quando uno, anche senza saperlo, avrà toccato qualcosa di impuro, come il cadavere di una bestia selvatica impura, di un animale domestico impuro o di un rettile impuro, rimarrà egli stesso impuro e colpevole. Quando uno, anche senza saperlo, avrà toccato un’impurità umana, qualunque di quelle impurità che rendono l’uomo impuro, appena viene a saperlo, diventa colpevole” (Le 5:2-3).

 

Il Signore emana degli ordini circa la necessità di compiere sacrifici per vari casi di colpevolezza, ivi compreso il toccare qualcosa di impuro, come un cadavere di un qualsiasi animale o una delle impurità umane. Nel brano parallelo di Le 7:21 viene detto soltanto che per rendersi colpevole bastava toccare qualsiasi animale impuro, selvatico o domestico, anche se fosse stato vivo, prescrivendo che lo stesso colpevole doveva essere “tolto via dalla sua gente” se, in quello stato d’impurità, avesse mangiato la carne di un sacrificio di riconoscenza che apparteneva al Signore tre volte santo.

Queste sanzioni avevano come destinatari i sacerdoti e i leviti nel caso in cui essi avessero violato le norme divine sulle impurità, volute dal Signore per tutelare la salute e l’incolumità pubblica del suo popolo. L’elemento di distinzione è palese: bastava toccare, anche involontariamente, il cadavere di un animale impuro per diventare impuro ed essere considerato colpevole, mentre occorreva una certa consapevolezza di aver toccato un’impurità umana per poter essere considerato colpevole, perché solo dal momento in cui l’uomo se ne accorgeva veniva dichiarato anch’egli impuro.

 

 

Nei libri sapienziali

 

Anche i libri sapienziali propongono elementi di distinzione fra uomini e animali:

“…ma nessuno dice: «Dov’è Dio, il mio Creatore, che nella notte ispira canti di gioia, che ci fa più intelligenti delle bestie dei campi e più saggi degli uccelli del cielo?»” (Gb 35:10-11).

Gli animali sono dotati di grandi istinti e di eccellenti abilità nel ricercare il cibo, ma non v’è paragone con le capacità e le facoltà dell’uomo, specie in termini di razionalità, di logica e di comprensione delle cose, oltre che di possibilità di porsi in relazione con Dio stesso in modo cosciente e volontario.

L’applicazione fatta da Elihu al caso di Giobbe è stringente: l’uomo che soffre non dovrebbe reagire come un qualsiasi animale, lamentandosi e magari addossando su altri le proprie responsabilità. Egli dovrebbe piuttosto rivolgersi al Signore e gridare a lui con umiltà e fiducia: Dio non è indifferente al dolore delle sue creature e ha dotato gli uomini di una particolare abilità nell’ascoltare la sua voce durante le afflizioni, al contrario di quanto succede agli animali.

 

Passando ai libri poetici troviamo altre indicazioni:

“Quando il mio cuore era amareggiato e io mi sentivo trafitto internamente, ero insensato e senza intelligenza; io ero di fronte a te come una bestia (Sl 73:21-22).

 

Asaf confessa i suoi sentimenti negativi di fronte allo spettacolo della prosperità degli empi (v. 1-12), sentimenti che lo stavano conducendo allo scoraggiamento e alla ribellione (v. 13-16), se egli non fosse entrato alla presenza del Signore, dove ha potuto scorgere la fine di questi pagani senza timore di Dio (v. 17-20).

Fino a quando Asaf si è limitato a ragionare dentro di sé, non riuscendo a darsi una spiegazione per ciò che vedeva intorno a sé, non solo viveva amarezza e profonda tristezza, ma era anche senza senno e privo di ragione, proprio come sono gli animali. Questi ultimi, infatti, non possono avvicinarsi a Dio ed ascoltare la sua voce né possono parlare con lui, ma si preoccupano solo del presente e dei loro bisogni materiali. Alla fine Asaf riconosce che è assurdo, per un uomo, reagire alle prove come farebbe una bestia qualsiasi, perché l’uomo è stato creato per avere una relazione con Dio, anche nei momenti di difficoltà.

 

 

Diversi intelligenza, cuore, valore, corpo…

 

Nel libro di Daniele, si racconta di un terribile sogno fatto dal re di Babilonia Nabucodonosor (4:5), posto sul trono da Dio stesso con gloria e con maestà (5:18). Egli si era inorgoglito (5:20) e, nella spiegazione del sogno data da Daniele, che in seguito si realizzò pienamente, Nabucodonosor sarebbe stato deposto dal suo trono, e in questo periodo gli sarebbe stato cambiato il cuore perché il Signore così aveva disposto:

“…invece di un cuore umano, gli sia dato un cuore di bestia…” (Da 4:16).

Poco cambia se, nel successivo racconto del capitolo 5 si parla di un cuore “simile a quello delle bestie” (v. 20), perché ciò che qui interessa è il fatto che esiste una grande differenza fra il “cuore” degli uomini e quello degli animali, se intendiamo per “cuore” la sede delle riflessioni morali e delle scelte della volontà che incidono sui comportamenti esteriori.

L’uomo ha posizione e dignità diverse e qualitativamente superiori rispetto a quelle delle bestie: proprio in questo senso è significativo che il Signore privò Nabucodonosor dell’uso della ragione per cui egli divenne simile in tutto ad una bestia dei campi: il grande re non era più in grado di governare neppure sé stesso, rendendo ancora più evidenti le differenze esistenti fra uomini ed animali in quanto a volontà e a sentimenti, a capacità logiche e ad emozioni.

Passando alle parole del Signore Gesù, verso la fine del “Sermone sul Monte”, esortò i suoi discepoli a non preoccuparsi troppo dei beni materiali necessari per la sopravvivenza, anche perché il valore delle persone umane è notevolmente superiore a quello degli animali e delle cose:

“Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro? (Mt 6:26).

 

Tutta la creazione testimonia l’amorevole cura e la provvidenza di Dio, anche nei confronti di creature che noi riteniamo “inferiori”: gli uccelli cercano il loro cibo senza aver prima lavorato e guadagnato denaro… eppure nessuno di loro rimane digiuno perché il Signore “li nutre”! Dio è il Sovrano dell’universo ma è anche il “Padre”degli uomini che confidano in lui: Gesù ci esorta a non preoccuparci troppo del domani e dei nostri bisogni materiali… noi siamo preziosi ai suoi occhi (cfr. Is 43:4)!

 

Anche dal punto di vista fisico, naturalmente, sussistono delle evidenti e notevoli differenze tra uomini ed animali:

“Non ogni carne è uguale; ma altra è la carne degli uomini, altra la carne delle bestie, altra quella degli uccelli, altra quella dei pesci” (1Co 15:39)

Non v’è chi non veda che il corpo degli uomini è fatto e funziona diversamente rispetto al corpo degli animali: se è vero che anche tra gli uomini e tra gli animali al loro interno vi sono delle differenze fisiche, esse sono ancora più evidenti e profonde se si osservano i due generi separatamente.

C’è grande varietà nella creazione perché il Creatore ha grande fantasia: nel contesto di questo brano Paolo ha appena parlato di semi e di piante (v. 36-38), ma ora si sofferma sulle differenze esistenti in natura fra i corpi fisici degli esseri viventi, differenze che egli poi utilizza per approfondire il discorso relativo al corpo che avremo alla resurrezione.

 

Le distinzioni create da Dio, se vissute come elemento di arricchimento, sono importanti fattori di crescita dei singoli e delle specie, e non vanno considerate ostacoli all’armonia della natura perché è Dio stesso ad averle create nella sua sovrana saggezza.