Introduzione
Alcuni anni fa si svolse, in alcuni settori del mondo evangelico, un’animata discussione sulla seguente questione:
“Per essere salvati basta credere in Gesù come Salvatore oppure bisogna anche riconoscerlo come Signore?”.
Questa dibattito coinvolgeva esponenti di spicca del mondo evangelico e alcune facoltà teologiche, un po’ come nel caso del dibattito sul rapporto fra il Vangelo di Cristo e la legge, nell’era apostolica (At 15:1-29).
Il brano che prendiamo in esame in questo studio (1Gv 2:28−3:10) getta luce su questo argomento. In particolare descrive due dimensioni della vita del credente che promuovono un radicale cambiamento nella vita di chi diventa figlio di Dio. Essi sono: la nuova prospettiva di vita, che è legata alla seconda venuta di Cristo, e “il seme divino” che è stato impiantato in lui e rimane in lui. Questi due fattori fanno sì che i veri figli di Dio non vivono come il mondo che, invece, “giace sotto il potere del maligno”.
Una nuova prospettiva di vita (2:28−3:4)
Gli apostoli Pietro, Paolo e Giovanni hanno in comune la volontà di dare grande importanza agli aspetti futuri dell’opera di Dio e, in particolare, al ritorno di Cristo.
A questo proposito, oltre all’insegnamento di Giovanni in questo brano, sono particolarmente significative le parole di Pietro in 1Pietro 1:3-9 e 2Pietro 3:3-10 e le parole di Paolo in Atti 14:21-22; 1Corinzi 15:23-58 e tutta la 1Tessalonicesi.
Alla luce delle verità esposte in questi brani, risultano supremamente importanti le cose che non si vedono, le cose che possiamo percepire soltanto per fede, perché sono eterne.
Chi, invece, non ha fede in Cristo ha lo sguardo “alle cose che si vedono” che sono soltanto per un tempo (2Co 4:16-18; 1P 1:3-5).
La manifestazione dell’amore di Dio nell’opera compiuta durante il primo avvento di Cristo (1Gv 4:8-10) crea la nuova prospettiva di vita per chi crede.
La promessa del ritorno di Cristo, quando tutti i salvati riceveranno un corpo glorificato come il suo, dà concretezza a questa prospettiva. In quel momento si realizzerà uno dei desideri che Gesù ha espresso nella sua preghiera sacerdotale: che coloro che avranno creduto alla Parola annunciata dagli apostoli vedano la sua gloria (Gv 17:24). Di questo Gesù ha parlato in modo molto personale con i suoi discepoli nel Cenacolo (Gv 14:1-4).
Nell’insistere sulla priorità delle realtà eterne e sulla promessa del ritorno di Cristo e della risurrezione del corpo, gli apostoli andavano decisamente contro corrente rispetto al modo di pensare dei loro contemporanei (2P 3:3-7 e 1Co 15:12).
In mancanza delle certezze della fede (si veda Eb 11:1) l’uomo si attacca alle cose momentanee, cerca di prolungare la vita terreste il più possibile e stabilire la propria immortalità lasciando un segno indelebile nel luogo in cui è vissuto.
Questi due aspetti vengono evidenziati nel modo di considerare la morte:
• da una parte il tentativo di abbellirla, per dimenticarla;
• dall’altro il tentativo di perpetuare la memoria del defunto, per esempio con un sepolcro monumentale su cui sono scritti degli elogi.
A questo proposito è celebre il tentativo di Ugo Foscolo di ricuperare questo valore nella prima parte dell’opera“Dei sepolcri” (1807).
Ma è ugualmente impopolare pensare oggi a un ritorno personale di Cristo.
Il 2012 è stato sbandierato come un anno in cui potrebbe avvenire la fine del mondo, ma la maggior parte dei commentatori lo escludono, appellandosi non alla Bibbia bensì a un ragionamento analogo a quello degli“schernitori beffardi” di cui parla Pietro. Pietro profetizzò che questi schernitori, per beffarsi della promessa del ritorno di Cristo, diranno: “dal giorno in cui i padri si sono addormentati, tutte le cose continuano come dal principio della creazione” (2P 3:3-4).
Gli “schernitori beffardi” preferiscono immaginare l’universo come qualcosa di chiuso, che esclude la possibilità di qualsiasi intervento di Dio, passato, presente o futuro.
Il mondo occidentale vive in quest’illusione, derubandosi così di ogni certezza e di una prospettiva reale per l’avvenire.
Gli apostoli sottolineano il fatto che la prospettiva del ritorno di Cristo, quando viene presa sul serio, influisce in modo radicale sul modo in cui il discepolo di Cristo vive nel presente (2Co 5:6-10; 2P 3:11-18; 1Gv 2:28-29).
Nel nostro brano l’apostolo Giovanni introduce questo tema con un’esortazione:
“E ora, figlioli, rimanete in lui affinché, quand’egli apparirà possiamo aver fiducia e alla sua venuta non siamo costretti a ritirarci da lui, coperti di vergogna” (2:28).
Il fatto che Cristo verrà una seconda volta per prendere con sé i suoi discepoli viene presentato da Giovanni come una certezza di fede.
Per ogni discepolo di Gesù, il tempo va avanti in modo inesorabile verso quest’appuntamento. Quando, in un momento non precisato, Cristo tornerà, non avremo tempo per rettificare qualcosa.
Se abbiamo vissuto la nostra vita dimorando in Cristo, seguendo le sue direttive (Gv 15:7) il frutto della nostra vita ci darà franchezza alla presenza del Signore.
Se ci siamo dedicati ad accumulare tesori sulla terra, o abbiamo dimenticato di amare, saremo “coperti di vergogna” (cfr. Mt 24:42-51).
Giovanni aggiunge una certezza di fede per spronare i suoi lettori a orientare la propria vita in vista dell’incontro con Cristo:
“Vedete quale amore ci ha manifestato il Padre, dandoci di essere chiamati figli di Dio! E tali siamo. Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.
Carissimi, ora siamo figli di Dio, ma non è ancora manifestato ciò che saremo. Sappiamo che quand’egli sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo com’egli è. E chiunque ha questa speranza in lui, si purifica com’egli è puro” (1Gv 3:1-3).
Dopo tanti anni di fede, Giovanni non aveva perso il senso di meraviglia pensando al fatto di essere diventato un “figlio di Dio”.
Le sue parole sono al tempo stesso semplici, eloquenti e significative:
“Vedete che genere di amore, sconosciuto a questo mondo, [gr. idete potapēn agapēn] ci ha manifestato il Padre!”
Un commentatore ha scritto:
“Lo scopo di questo dono stupefacente, di un amore saggio e santo che si preoccupa di darci bene più alto, non è soltanto che siamo salvati dalla sofferenza e dalla perdizione ma che otteniamo lo status di figli di Dio”(Davide Smith, “The epistles of John” in The Expositor’s Greek New Testament, a cura di W. Robertson Nicoll, 5 voll. ristampa Grand Rapids, Ml., Eedermans 1979; 5°: 182-183)).
E Giovanni aggiunge con meraviglia:
“E tali siamo!”
Questo status aggiunge qualcosa di importante e sostanziale alla nuova prospettiva di vita.
Giovanni non nasconde il fatto che non sappiamo tutto su come sarà il nostro futuro. Non è possibile saperlo.
Però annuncia che una certezza di fede soddisferà il discepolo di Cristo: “Sappiamo che quand’egli sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo com’egli è.”
E aggiunge: “Chiunque ha questa speranza in lui, si purifica com’egli è puro”.
Le certezze di fede ci predispongono a lasciare operare lo Spirito Santo nella nostra vita trasformandoci nell’immagine di Cristo.
“E noi tutti, a viso scoperto, contemplando come in uno specchio la gloria del Signore, siamo trasformati nella sua stessa immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione del Signore, che è lo Spirito” (2 Co 3:18).
Come si distinguono “i figli di Dio” (2:29; 3:4-10)
Diverse volte in questo brano Giovanni torna su un argomento strettamente legato alla prospettiva futura dei discepoli di Cristo e al loro status di “figli di Dio”.
A questo proposito la cosa importante da afferrare su questo argomento è che la speranza dei figli di Dio si manifesta nel presente, nel modo di vivere la vita di tutti i giorni.
La prima allusione a questo rapporto riguarda come possiamo evitare di vergognarci nel momento dell’incontro con Cristo:
“E ora, figlioli, rimanete in lui affinché, quand’egli apparirà, possiamo aver fiducia e alla sua venuta non siamo costretti a ritirarci da lui, coperti di vergogna” (2:28).
Poi, dopo aver arricchito la speranza dei figli di Dio (3:1-2) aggiunge:
“E chiunque ha questa speranza in lui, si purifica com’egli è puro” (3:3). Questa seconda dichiarazione introduce il resto del brano che stabilisce una distinzione netta fra l’agire dei “figli di Dio” e i “figli del diavolo” (3:4-10).
La parte del brano che comprende 3:4-10 inizia con una chiara definizione del peccato (ovvero di ciò che non caratterizza la vita dei figli di Dio):
“Chiunque commette il peccato trasgredisce la legge: il peccato è la violazione della legge” (v. 4).
Per i lettori che tendevano a dimenticarlo, forse per motivi filosofici o perché non pensavano alla vita cristiana in termini pratici, Giovanni, il testimone del vangelo, ricorda:
“Ma voi sapete che egli è stato manifestato per togliere i peccati; e in lui non c’è peccato” (v. 5).
Questa dichiarazione rievoca il modo in cui Giovanni il battista aveva presentato Gesù ai suoi discepoli, dicendo:
“Ecco l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo” (Gv 1:29).
Essendo questo lo scopo del primo avvento del Messia, è logico che “chiunque rimane in lui non persiste nel peccare” (1 Gv 3:6a).
È altrettanto evidente che “chiunque persiste nel peccare non l’ha visto, né conosciuto” (v. 6b). Questa definizione dello scopo dell’incarnazione (cfr. 4:10) e di come essa divide tutta l’umanità in chi se ne fa tesoro e chi no, squalifica le tendenze gnostica che davano importanza quasi esclusiva all’assimilazione di certe conoscenze, per giunta più filosofiche che frutto della rivelazione divina, trascurando gli obiettivi posti da Dio stesso.
È importante comprendere la seguente affermazione:
“Chiunque rimane in lui non persiste nel peccare” (3:6).
È importante comprenderla, anche perché i figli di Dio vengono descritti in questi termini diverse volte in questo brano.
Al contrario coloro che persistono nel peccato sono identificati come “figli del diavolo” (vv. 8-10). Abbiamo visto che Giovanni afferma in modo perentorio che capita a tutti di peccare e poi indica come tali peccati possono essere perdonati (1:8−2:2).
Però, attenzione, nella frase “se qualcuno ha peccato” (2:1) usa un tempo del verbo greco (l’aoristo) checaratterizza il peccato commesso come una caduta occasionale, non un’abitudine di vita.
Nel brano che stiamo studiando, invece, l’apostolo usa il tempo presente del verbo greco e qualche volta, come nel v. 6, addirittura il participio presente, per descrivere un andazzo costante.
La differenza fra chi “persiste nel peccare” e chi cade in peccato occasionalmente può essere rassomigliata alla differenza fra il tempo invernale e il tempo primaverile.
Nell’inverno, proprio perché è inverno, ci aspettiamo tempo freddo con piogge e qualche volta anche la neve. Con l’arrivo della primavera, invece, nasce una nuova tendenza, un movimento verso tempo più caldo con meno pioggia. Più si avvicina l’estate e più diventano normative giornate calde in cui il freddo e le piogge sono eventi sempre più occasionali. Di conseguenze certi eventi, come i matrimoni, vengono programmati di più in questi mesi piuttosto che nell’inverno. Eppure ricordo che una volta sono caduti trenta centimetri di neve a Frosinone nel periodo della Pasqua; un’altra volta ho visto degli sposi costretti a portare ombrelli bianchi per le foto in tarda primavera! Infatti anche in primavera inoltrata capitano giorni di freddo e di pioggia. Però non è più la norma: ciò che ci si aspetta.
Allo stesso modo per il figlio di Dio: può cadere nel peccato durante il cammino di santificazione, ma il peccare non è più la norma nella sua vita: ciò che Dio e gli altri si aspettano da lui.
Il discorso di Giovanni continua con grande limpidezza. La pratica della giustizia è propria di chi è diventato erede della giustizia di Cristo. Chi dice il contrario va visto per quello che è: un seduttore (v. 7).
Infatti: “Colui che persiste nel commettere il peccato proviene dal diavolo, perché il diavolo pecca fin da principio.
Per questo è stato manifestato il Figlio di Dio: per distruggere le opere del diavolo.” (v. 9).
Conclusione (vv. 9-10)
Entrambi questi versetti cominciano con un riassunto di ciò che è stato insegnato nei versetti precedenti.
• “Chiunque è nato da Dio non persiste nel commettere peccato” (v. 9a).
• “In questo si distinguono i figli di Dio dai figli del diavolo: chiunque non pratica la giustizia non è da Dio; come pure chi non ama suo fratello” (v. 10a).
Dopo il primo di questi riassunti segue una spiegazione del perché le cose stanno così.
Dopo il secondo la caratterizzazione dei figli di Dio come operatori di giustizia viene arricchita da un’altra caratteristica dei figli di Dio su cui sia Gesù sia Giovanni si soffermano sovente.
Consideriamo questi due elementi aggiuntivi uno alla volta:
“Chiunque è nato da Dio non persiste nel commettere peccato, perché il seme divino rima-
ne in lui, e non può peccare perché è nato da Dio” (v. 9).
Come si vede, il motivo per cui un vero figlio di Dio non può guazzare nel peccato è molto solido e non suscettibile di eccezioni.
La nuova vita impiantata in lui, che ha la sua origine in Cristo (non nel diavolo!) non può peccare.
Come il tempo invernale sembra fuori luogo in primavera, perché in contrasto con l’andamen-
to generale del clima, così le cadute occasionali nel peccato di un figlio di Dio contrastano con la nuova direzione da lui presa e con la nuova vita che lo spinge a vivere secondo giustizia.
La natura schietta del riassunto del v. 10 è tipica dell’insegnamento di Giovanni e del suo Maestro Gesù. L’apostolo scrive:
“In questo si distinguono i figli di Dio dai figli del diavolo: chiunque non pratica la giustizia non è da Dio”.
Lo scopo di Cristo nel distruggere le opere del diavolo era proprio quello di ristabilire la giustizia. Coloro che sono di Cristo diventano partecipi in questo progetto, proprio perché “sono nati da lui”.
Giovanni aggiunge:
“..come pure chi non ama suo fratello [non è da Dio]” (v. 10).
Quindi un altro modo per sapere se siamo figli di Dio è la risposta che diamo alla domanda: “Amo il mio fratello?”.
Questo tema verrà approfondito nel brano che segue. Intanto Giovanni fa sapere che l’amore per la fratellanza che si sta formando sul fondamento dell’opera compiuta da Cristo, è un altro segnale di vita, mentre chi non ama suo fratello non è un figlio di Dio.
La descrizione di coloro che non sono figli di Dio come “figli del diavolo” riprende una frase di Gesù riportata in Giovanni 8:44, dove Gesù usa questa stessa espressione per descrivere i Giudei che non accettavano la sua Parola.
Alcuni studiosi hanno suggerito che questo brano del Vangelo sia anti-Giudaico.
Non solo una lettura onesta di Giovanni 8 non porta a questa conclusione, inoltre l’appli-
cazione generalizzata della stessa frase in 1 Giovanni 3:10 dimostra l’infondatezza di tale insinuazione.
La verità è che chiunque, giudeo, greco, romano o barbaro che sia, che non è un figlio di Dio in virtù della fede posta in Cristo, rimane, spiritualmente parlando, un “figlio del diavolo”.
Per la riflessione personale o lo studio di gruppo
1. In che modo ciò che crediamo riguardo al futuro incide sulla nostra vita quotidiana?
2. Perché è impossibile per i figli di Dio persistere nel peccare?