…con le lingue
In questo articolo desidero esaminare i primi tre versetti del capitolo 13 della prima ai Corinzi. Qui Paolo mette a confronto l’agape con sei virtù e doni spirituali fra i più ricercati ed importanti, con l’obiettivo di far risaltare la grandezza e la superiorità del vero amore.
Il primo confronto dell’agàpe viene posto dal v. 1 in questi termini:
“Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi amore, sarei un rame risonante o uno squillante cembalo”.
Parlare in lingue sconosciute, di altri popoli o addirittura di esseri angelici, per quanto possa essere straordinario e forse anche gratificante, non ha gran senso al cospetto di Dio se non viene accompagnato dall’agàpe.
L’espressione “parlare le lingue degli uomini e degli angeli” fa riferimento, probabilmente, allo specifico uso (ed abuso) che nella chiesa di Corinto veniva fatto del dono delle lingue.
Nel successivo capitolo 14, l’apostolo Paolo stabilirà la superiorità del dono di profezia rispetto a quello delle lingue (v. 1-3) anche a motivo della necessità che l’esercizio della glossolalia sia comprensibile agli ascoltatori e li edifichi (vv. 4-12). Il dono delle lingue deve essere accompagnato da quello di interpretazione, allo scopo di renderlo utile ed efficace (1Co 14:13-26).
In tale contesto sociale ed ecclesiale, non meraviglia che il primo confronto dell’agàpe sia fatto proprio con la glossolalia, così diffusa e anche così abusata nella chiesa di Corinto. Probabilmente, però, il riferimento è qui anche più generale, nel senso che forse esso viene posto anche in relazione a qualsiasi tipo di eloquenza umana o di esperienza estatica, dato che esse possono affascinare o impressionare ma finiscono per essere vuote se non sono accompagnati dalla potenza di Dio e del suo amore.
La sfida del v. 1 non è rivolta solo ad un gruppo di credenti del I secolo d.C., ma a qualsiasi figlio di Dio in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo. Anche a noi, qui ed ora.
In questo versetto, l’accento fondamentale viene su: “Se non avessi amore…”. In altre parole, se non vivo l’agàpe di Dio, tutto il resto risulta inutile ed inefficace, compreso il saper parlare lingue sconosciute e l’essere apprezzato per questo dono straordinario.
Il fatto di appartenere al Signore non garantisce, di per sé, una vita santa e pura davanti a Dio, né tanto meno assicura il corretto esercizio dell’amore divino.
Anche per la chiesa occidentale del XXI secolo, tante volte assorbita dagli eventi da organizzare o dall’immagine sociale da mantenere, c’è senz’altro un disperato bisogno di tornare ai valori fondamentali della fede cristiana, cioè a quello che davvero conta agli occhi dell’Onnipotente, come ad esempio “la fede che opera per mezzo dell’amore” (Ga 5:6).
Secondo il testo, una buona eloquenza o uno splendido dono di lingue porterà sicuramente il cristiano ad essere come uno strumento musicale freddo ed inutile, se non è accompagnato dall’agàpe di Dio.
Il concetto che Paolo vuole rendere è relativamente semplice: ogni parola che pronunciamo, per quanto eloquente e affascinante possa essere, senza l’agape diventa un suono percettibile, per il nostro interlocutore, solo a livello della mente, non del suo cuore e del suo spirito.
I due strumenti musicali, scelti dallo Spirito Santo per rendere questo concetto, sono quelli più usati nell’antica Corinto nell’ambito dei riti pagani a favore di Dionisio e di Cibele.
Tutto questo al probabile scopo di enfatizzare ulteriormente la portata negativa del discorso paolino:
• il primo è il “rame risonante” e si riferisce con ogni probabilità ad una tromba oppure, meglio ancora, a dei piatti.
L’aggettivo “risonante”, poi, rivela l’idea di qualcosa che riecheggia nell’aria producendo soltanto dei suoni morti.
• Il secondo strumento indicato da Paolo è “uno squillante cembalo” e si riferisce ad un antico strumento simile ad un tamburello col fondo di cartapecora, circondato tutt’intorno da piccoli sonagli, che si adoperava percuotendolo con le nocche e con le palme delle mani. L’aggettivo “squillante” indica la percussione di un metallo fatta al solo scopo di produrre un suono alto e stridulo.
… con le profezie, i misteri,
la scienza e la fede
Il secondo confronto dell’agàpe viene posto dal v. 2 in questi termini:
“Se avessi il dono di profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare i monti, ma non avessi amore, non sarei nulla”.
Con quest’ulteriore paragone, l’apostolo Paolo intende completare il confronto dell’agàpe con i doni spirituali e con qualsiasi altra manifestazione speciale di Dio all’uomo.
La superiorità dell’agàpe non si mostra soltanto in relazione all’esercizio del dono delle lingue, ma anche in rapporto a quello della profezia, a quello della scienza, ed a quello della fede.
Ad essi vengono aggiunti i “misteri”, perché anch’essi simboleggiano speciali manifestazioni di Dio per l’uomo.
Esaminiamo più nel dettaglio ciascuno di questi aspetti:
• Il primo dono citato è quello della “profezia” e si riferisce, con ogni probabilità, a qualsiasi discorso umano ispirato da Dio che riveli una parte della sua volontà, ovvero a qualsiasi spiegazione o comprensione più chiara di ciò che Dio ha già rivelato all’uomo nella sua Parola. Talvolta la profezia può riguardare anche predizioni concernenti il futuro.
In ogni caso, la profezia è sempre e comunque un dono elargito dallo Spirito Santo, che risulta fra i carismi più importanti (es. Ef 4:11) ed è considerato dallo stesso Paolo come prevalente sul dono delle lingue (1Co 12:28; 14:1-3) perché è in grado di penetrare i misteri divini della grazia e ha, nel contempo, scopi pratici di edificazione della chiesa (1Co 14:3).
• Il secondo dono citato è quello della conoscenza di tutti “i misteri” e si pone in relazione ai segreti disegni di Dio, che egli ha voluto rivelare ai suoi figli e, in particolare, il suo piano di salvezza per l’umanità (vedi 1Co 2:7 e 4:1).
Ma non c’è nulla di “misterioso” in quei dettagli del piano di Dio per l’umanità che egli, dopo averli tenuti nascosti per secoli, ha voluto far conoscere nella sua grazia al suo popolo. L’esistenza di tali “misteri”, piuttosto, sottolinea l’incapacità degli uomini di conoscere la volontà di Dio senza il suo intervento soprannaturale.
• Il terzo dono spirituale menzionato è quello della “scienza”, che si riferisce alla conoscenza tipicamente umana, che si contrappone a quella divina rappresentata dai “misteri”.
Si tratta di un altro dono spirituale (cfr 1 Co 12:8, dove troviamo lo stesso termine greco) che rappresenta in modo specifico quell’accurata conoscenza delle dottrine cristiane che trova origine nella guida dello Spirito di Dio ma che, allo stesso tempo, se non è accompagnata dall’amore, può portare all’orgoglio e alla vanità (cfr 1Co 8:1). Quel che il Signore apprezza non è la grande conoscenza intellettuale, ma piuttosto la vera dedizione a Dio ed il conseguente amore sincero per il prossimo.
• Il quarto dono spirituale citato è quello della “fede”, che non si riferisce alla fede salvifica individuale (cfr Eb 11:1) e neppure alla fede oggettiva come deposito delle dottrine fondamentali (cfr Gd 3), quanto piuttosto ad uno specifico carisma concesso dallo Spirito Santo ad alcuni figli di Dio per l’edificazione della sua Chiesa.
Questo dono può essere inteso come qualcosa che può rendere l’uomo capace di compiere miracoli nel nome di Cristo (es. 1Co 12:9).
In quest’ultima accezione potrebbe essere compreso meglio il riferimento a quel “trasportare i monti” che viene menzionato al v. 2 ed altrove è utilizzato dallo stesso Signore Gesù (es. Mt 17:20) per illustrare qualunque attività chiaramente e completamente al di fuori della portata di un uomo…
A margine di quanto finora esposto, non è superfluo evidenziare ancora un paio di aspetti concernenti il brano biblico al nostro esame.
In primo luogo, annotiamo l’aggettivo “tutto”, che riscontriamo per ben tre volte in questo versetto. L’apostolo Paolo afferma che se il lettore conoscesse “tutti” i misteri e “tutta” la scienza, ovvero se possedesse anche“tutta” la fede, egli non sarebbe nulla se contemporaneamente non vivesse l’agàpe di Dio.
Ciò significa che quest’agàpe è “un ingrediente” necessario per la vita cristiana e per l’esercizio delle facoltà spirituali menzionate finora, persino se manifestate al loro massimo grado. Anche se il Signore ci avesse rivelato tutti i suoi segreti, anche se conoscessimo alla perfezione tutte le dottrine bibliche, anche se lo Spirito Santo ci avesse concesso tutto il dono della fede nella sua manifestazione più piena, noi non saremmo nulla se ci mancasse il vero amore, che solo in Dio risiede.
Ed ecco la seconda osservazione dal testo che stiamo studiando: il sostantivo “nulla”, associato al verbo“essere”. L’apostolo non dice qui “non avrei nulla” ma piuttosto “non sarei nulla”. Al “tutto” che precede si contrappone questo “nulla” ed all’“avere” la fede o la conoscenza si contrappone il non “essere” niente.
Non si tratta, quindi, di possedere o non possedere qualcosa, ma piuttosto di essere o non essere qualcuno, perché agli occhi di Dio la mancanza di vero amore svuota l’uomo della sua stessa essenza e lo riduce ad uno stato pressoché inanimato, sotto il profilo spirituale. Lo stesso Gesù mise più volte in guardia i suoi ascoltatori dal voler sembrare qualcosa invece di essere realmente qualcuno, ovvero dal voler fare per Dio qualcosa invece che essere conosciuti personalmente da lui. Nessuno potrà mai dimenticare le sue parole, rivolte a certuni che avevano fatto “molte opere potenti” nel suo nome e che, nell’ultimo giorno, si sentiranno dire: “Io non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, malfattori!” (Mt 7:23).
… con la misericordia e la dedizione
Il v. 3, concludendo la sezione in cui l’agàpe viene posta a confronto con altri doni spirituali e virtù eccellenti, menziona le opere di misericordia e lo spirito di dedizione:
“Se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri, se dessi il mio corpo ad essere arso, e non avessi amore, non sarei nulla”.
Quest’ulteriore paragone si sviluppa su due linee direttrici, simili fra loro ma allo stesso tempo ben distinte:
• La prima linea direttrice è quella delle opere di misericordia, sintetizzate nell’espressione “distribuire tutti i beni per nutrire i poveri”.
L’idea, contenuta nel testo originale, è quella della distribuzione dei propri beni in piccole dosi ad un vasto numero di persone, senza distinzione di sorta fra i destinatari.
Il tempo del verbo fa pensare a un dono definitivo e completo, fatto una volta per sempre: colui che dona offre in unica soluzione e completamente tutti i suoi numerosi beni, senza lasciare nulla per sé. È un gesto molto raro e di grande altruismo, che tocca le corde della sensibilità del cuore umano ed attira l’attenzione delle persone: un esempio, in tal senso, può essere quello che rese famosi Pietro Valdo e Francesco d’Assisi.
Un’altra nota esegetica è rappresentata dal fatto che il sostantivo “poveri”, in realtà, non è presente nei testi originali, ma è stato opportunamente aggiunto nelle migliori traduzioni per dare enfasi e maggiore efficacia al discorso di Paolo. L’assenza del riferimento ai poveri può essere anche dovuto al fatto che qui l’apostolo non vuole porre l’accento sui destinatari del dono, quanto piuttosto sul donatore.
Ciò che lo Spirito Santo vuole trasmetterci, con questo terzo paragone, è che davvero “non giova a nulla”, davanti agli occhi di Dio, il fatto di consacrare “tutti” i propri beni materiali per aiutare i poveri, se alla base di tale gesto (apparentemente?) altruistico non c’è l’amore di Dio, espresso come vero amore per il prossimo. Solo il Signore può sapere, infatti, se dietro questo genere di azioni vi siano anche degli scopi egoistici, come per esempio l’essere ammirati o l’acquistare prestigio dinanzi agli uomini e alla società.
• La seconda linea direttrice è quella concernente lo spirito e le opere di dedizione, sintetizzati nell’espressione“dare il proprio corpo ad essere arso”.
Ai tempi di Gesù e degli apostoli, nel mondo greco esisteva la convinzione generalizzata che il sacrificio del proprio corpo per un qualsiasi alto ideale facesse acquistare grandi meriti davanti agli dèi. La Scrittura riporta almeno un caso in qualche modo analogo, laddove i tre giovani amici di Daniele “esposero i loro corpi al fuoco”pur di rimanere fedeli al Signore (Da 3, specie il v. 28). In tal modo, anche nella Bibbia troviamo traccia di una tradizione giudaica sui martiri, secondo cui venivano narrate storie di Ebrei che si erano lasciati bruciare vivi pur di evitare di tradire il proprio popolo.
Nel nostro brano, però, lo Spirito Santo afferma con autorità che questo tipo di sacrificio, questo atto estremo di dedizione, pur lodevole ed apprezzabile sotto il profilo umano, non è di per sé stesso rilevante agli occhi del Signore, a meno che non sia accompagnato dall’agàpe di Dio. La Bibbia insegna che i nostri sforzi di carattere legalistico non sono altro che opere morte (cfr Eb 9:14), le quali non potranno reggere nel giorno del giudizio se non saranno state fatte in Cristo (cfr 1Co 3:11-15).
Ciò che conta davanti al Signore non è l’azione in sé stessa ma la motivazione che vi sta alla base ed al suo fondamento. L’azione può essere lodevole ma la sua motivazione, invece, può essere falsa o sbagliata: per esempio, questi atti di supremo sacrificio di sé possono essere fatti anche per avere gloria presso gli uomini o per acquistare meriti davanti a Dio…
Se manca il vero amore, quello altruista che trova la sua fonte in Dio stesso, persino i gesti di altruismo estremo non giovano a nulla, proprio a nulla, nel senso che da essi non si potrà ricevere alcun beneficio di nessun tipo. “Fare la carità” non servirà a niente se non si possiede la vera carità nel cuore!