Nel libro di Esdra leggiamo che, subito dopo il loro ritorno a Gerusalemme, i reduci da Babilonia si adunarono “come un solo uomo” (Ed 3:1) e si misero a lavorare “come un solo uomo” (Ed 3:9) per ricostruire il tempio distrutto dall’esercito di Nabucodonor.
Esdra ci racconta di uno straordinario lavoro collettivo. Si lavorava gomito a gomito, con lo stesso spirito e, soprattutto, con lo stesso obiettivo. Mentre lavoravano per gettare le fondamenta del tempio, i reduci “cantavano rispondendosi a vicenda, celebrando e lodando il Signore: «Perché egli è buono, perché la sua bontà verso Israele dura in eterno»” (Ed 3:11). La gioia di poter essere (insieme!!) usati dal Signore, per la ricostruzione del tempio, era tanta che “le grida di gioia” si udivano “da lontano”. Ma, dopo alcuni anni, davanti allo zelo trasformatosi in indifferenza ed al rumore della gioia e del servizio trasformatosi nel silenzio dell’indolenza e della inattività, Dio inviò il profeta Aggeo per denunciare questa situazione con un messaggio che può essere così sintetizzato: “Sì, ho visto: avete costruito le fondamenta, ma poi? Vi siete fermati e le mura giacciono ancora in rovina! L’inizio è stato bello, ma… occorreva continuare!”
Lentamente la comunione di fede, di servizio, di obiettivi si era trasformata in convivenza: si continuava a vivere insieme nella città, ma “ognuno” si dava premura “solo per la propria casa” (Ag 1:9). In pratica: ognuno faceva i fatti suoi! Tutti presi dagli interessi legati alla propria persona ed alla propria esistenza, tutti vittime quindi di un evidente individualismo, non si erano più preoccupati di portare avanti e di realizzare gli obiettivi ben espressi dalla loro comunione di servizio iniziale. Il “solo uomo” si era trasformato in “tanti uomini”!
La Parola di Dio ci invita ad interrogarci, a spostarci da Gerusalemme alla nostra chiesa locale, dalle rovine del tempio di Salomone alle possibili rovine della nostra assemblea che ha cessato di innalzarsi “per essere un tempio santo nel Signore” (Ef 2:21). Il Signore ci ammonisce attraverso l’esempio negativo dei reduci da Babilonia. Infatti, non è forse vero che la stessa cosa è accaduta o sta accadendo anche oggi in tante chiese locali? Si sono costruite le fondamenta, nel senso che la chiesa ha il suo bagaglio dottrinale, il suo governo, i suoi ministeri, le sue riunioni settimanali… Ci si incontra quindi regolarmente, si è seduti vicini l’uno accanto all’altro, ma in realtà si è lontani. C’è convivenza, ma non c’è comunione! È bene allora che mi ricordi e che ci ricordiamo che la chiesa è organismo vivente, essendo “il corpo di Cristo”, e che il suo cammino è basato sulla partecipazione personale alla stessa vita (la vita di Cristo!), di ciascuno dei suoi membri, quella partecipazione che dovrebbe portarci ad essere di “un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento” (Fl 2:2)… ad essere insomma “un solo uomo”. Camminare l’uno accanto all’altro nella chiesa locale significa impegnarsi a conoscere l’altro e a farsi conoscere dall’altro; significa testimoniare concretamente con l’amore reciproco la realtà del nostro cammino con Cristo; significa condividere l’impegno nel servizio perché “il corpo” possa trarre “il proprio sviluppo nella misura del vigore di ogni singola parte, per edificare sé stesso nell’amore” (Ef 4:16). Quando lo sviluppo si ferma, quando la casa di Dio giace “in rovina”, ciò accade perché “ogni singola parte” si è preoccupata “solo per la propria casa”! Si sta insieme, ma non ci si ama, forse neppure ci si conosce; si sta insieme, ma ognuno rimane chiuso nel proprio guscio; si sta insieme, ma non si costruisce insieme. Più che per il “bene comune” siamo preoccupati per il nostro bene personale. Dovremmo da subito cominciare, come Gesù, ad essere davvero consumati dallo zelo per la sua Casa!