ùI problemi della comunicazione
Abbiamo, nel Nuovo Testamento, diversi esempi di come Gesù e gli apostoli abbiano saputo veramente comunicare, dove “comunicare” significa “essere capiti”, non necessariamente essere accettati.
Gesù, ad esempio, parla in un contesto giudaico ed impiega le “tecniche” che nel tempo erano recepite: i discorsi all’aperto, gli insegnamenti nella sinagoga, l’uso delle parabole, il linguaggio del popolo, i riferimenti agli insegnamenti dei rabbini del tempo.
Paolo mostra di saper parlare nella sinagoga, rifacendosi alla storia di Israele, o davanti ai sapienti Ateniesi, prendendo spunto dalle loro posizioni filosofiche e guardandosi bene dal fare alcun accenno all’Antico Testamento.
Pietro sa farsi comprendere da migliaia di uomini il giorno della Pentecoste e, dopo qualche giorno, presenta chiaramente l’Evangelo da-
vanti al Sinedrio.
Paolo, ancora, usa a piene mani esempi che provengono dallo sport per presentare verità eterne.
Uno studio accurato delle forme di comunicazione che ci propone il Nuovo Testamento è molto interessante e dovrebbe essere fatto proprio per appropriarsi della “creatività” dello Spirito Santo per essere compresi.
L’adattamento è una esigenza apostolica e consiste non solamente nell’apprendere il linguaggio culturale ma, anche, nel saper impiegare la grammatica di moda nella nostra generazione.
Le difficoltà del linguaggio
I credenti hanno l’irrefrenabile tendenza ad usare, quando parlano delle cose del Signore, un linguaggio e, quindi, dei termini che ritengono “spirituali” ma che non sono altro che termini che appartengono ad un bagaglio culturale che non è più quello attuale.
Così parole come “peccato”, “rigenerazione”, “nuova nascita”, “essere sotto la legge o sotto la grazia”, “comunione”, “la Parola” e altri non dicono più nulla, come tali, all’uomo di oggi e si rischia, non sforzandosi di tradurre i concetti corrispondenti in termini odierni, di non essere assolutamente capiti quando li usiamo.
Può essere che, quando il cristiano si avvicina alle persone, esse non comprendano il “patois de Canaan”, cioè il frasario comunemente in uso nel nostro ambiente, e pensino che la bevanda che gli viene offerta non abbia nulla a che fare con la loro sete concreta.
È quindi importante usare parole di oggi, che siano comprensibili e comprese.
Quelli che ascoltano avranno così l’impressione che noi abbiamo veramente qualcosa di attuale, di moderno da offrire, qualcosa che soddisfa i loro bisogni.
Ad esempio alcune parole chiave della nostra generazione sono: alienazione, contestazione, demitizzazione, strutturale, realizzarsi, funzionale, angoscia ecc… Si potrebbe continuare con l’elenco, ma questo basta come esempio.
Sicuramente lo Spirito Santo è quello che apre i cuori e che rende intellegibile il messaggio biblico. Ma come lo Spirito Santo ispirò Giovanni ad usare espressioni come “la Parola”, estremamente significativa nel primo secolo ed oggi quasi insignificante, pensiamo che vorrà ispirarci anche oggi le espressioni ed i termini di moda in questi tempi.
È chiaro che quanto detto può rischiare una confusione: quando si parla di adattare non si vuole dire di adattare il messaggio alla mentalità odierna ma, invece, di ritradurre il messaggio biblico nelle categorie di oggi.
La presentazione del peccato
Come già detto, la perdizione dell’uomo è un oggetto di fede da parte del cristiano ed è una verità che va comunicata alle persone di oggi.
Il problema che ci dobbiamo porre è “come” comunicare questa realtà ad un mondo che non ha più, nella sua cultura, questa categoria.
Il dovere di un cristiano, sia che abbia un dono specifico di evangelista o sia che voglia semplicemente comunicare l’Evangelo (compito di ogni figlio di Dio), è quello di aiutare l’uomo moderno, con un linguaggio moderno ed intellegibile, a scoprire il peccato nella sua vita.
E il peccato oggi è comprensibile attraverso altri nomi: alienazione, frustrazione, isolamento, ingiustizia, angoscia, ecc., come già detto. L’uomo conosce queste realtà ma non le identifica con la concezione biblica del peccato.
Ma, chiediamoci, è solo colpa sua o anche nostra se manca questa identificazione?
Dobbiamo temere fortemente che l’Evangelo sia rifiutato non per lo scandalo della croce ma per lo scandalo del nostro linguaggio non sempre comprensibile.
I modi della comunicazione
L’esempio di Gesù e degli apostoli, cui accennavo in precedenza, devono farci meditare sui modi in cui possiamo comunicare.
È chiaro che la Parola, o l’Evangelo di Dio, è lo strumento utilizzato dallo Spirito Santo. Di conseguenza dobbiamo predicare la Parola, proclamare l’Evangelo.
La Parola di Dio non cambia, ma il fatto che la Parola sia la Parola immutata e immutabile non significa, necessariamente, che la sua comunicazione debba essere solo verbale.
Poiché la Parola è stata fatta carne ed ha abitato visibilmente e tangibilmente sulla terra ( Gv 1/14) non dovremmo essere troppo lenti a riconoscere il ruolo di una comunicazione cristiana parzialmente o totalmente non-verbale.
Così una comunicazione verbale può essere scritta o parlata. Ciò comporta, nel contesto di quanto stiamo dicendo, da un lato la distribuzione della Bibbia, di giornali, di libri, di trattati e, dall’altra, la predicazione pubblica, gli studi di gruppo, la testimonianza personale, i messaggi radiodiffusi, i supporti magnetici.
Accanto a questi modi dobbiamo però indicare anche mezzi di comunicazione molto attuali, che passano anche per la comunicazione visiva e che possono essere libri illustrati, rappresentazioni teatrali, mimi, films, televisione, sketchboard, musica e canto.
Dobbiamo avere la libertà di usare, laddove il contesto culturale sia in grado di accogliere questo tipo di comunicazione, questi mezzi.
Possiamo ricordare che alcuni profeti ricorsero, per ordine divino, a vere e proprie rappresentazioni drammatiche per comunicare il messaggio (Ge 27-28; Ez 12) e che Gesù stesso, per comunicare agli altri, non disdegnò di partecipare a tutti gli aspetti della vita contemporanea e che usò, per trasmettere il messaggio, immagini e scene.
La nostra presenza individuale
Il nostro essere nella società vuol dire essere il sale della terra e la luce del mondo.
Questo significa, almeno, le seguenti cose:
a) La nostra vita nella società sarà della stessa “qualità” della nostra vita con la chiesa. Troppo spesso abbiamo la tendenza a separare la nostra vita cosiddetta “spirituale” da quella “materiale”.
b) La situazione nella quale viviamo (posto di lavoro, scuola, condominio, ecc.) dovrebbe esserecaratterizzata dalla nostra presenza cristiana ed essere diversa da come sarebbe se noi non ci fossimo. Questo fino alla “distanza” alla quale possiamo far sentire la nostra influenza.
c) In un mondo che non ha più alcun riferimento a Dio, che relativizza ogni cosa, che vive incentrato sull’uomo la nostra presenza dovrà mostrare che una vita centrata su Dio, regolata da valori assoluti, con una chiara distinzione fra il bene ed il male è una vita bella, serena, felice, sicura, degna di essere vissuta.
Singolarmente, come fidanzati, come coniugi, come famiglia saremo una presenza cristiana che parla se mostreremo questi valori cristiani.
La nostra presenza collettiva
È di fronte alla realtà del nostro tempo che dobbiamo proporci di vivere la nostra vita collettiva e di testimoniare come chiesa.
a) A fronte di una società che cerca solamente la soddisfazione ed il piacere ma che è, di contro, terribilmente sola ed angustiata, personalmente e come assemblea, dovremo essere capaci di parlare e di vivere un Cristo che è gioia e vita e che, con la sua risurrezione, ha dato una misura di quello che può divenire l’uomo attraverso delle esperienze “vere”. Mostreremo agli uomini un cristianesimo vivo, gioioso, dinamico che sia il contrario della morte, della solitudine, della noia; un cristianesimo che semina la speranza e la risurrezione nei cuori e nei corpi e che offre una “qualità di vita” che sorpassa le categorie umane di gioventù e vecchiaia.
Alle generazioni di oggi non possiamo proporre un vecchio legalismo- che del resto ha poco di biblico – ma una visione di vita in cui la nostra gioia, la voglia di vivere, il piacere ed il sesso siano situati sotto la sovrana direzione del Signore dal quale tutto riceve il suo senso e la sua legittimità.
b) La nostra presenza collettiva ed individuale sarà una presenza di carità, di amore verso i deboli, i diseredati, gli emarginati della nostra società. Oggi più che mai bisogna che il nostro cristianesimo sia rilevante per tutti i settori della società. Abbiamo problemi, appunto, di disadattati, di droga, di alcolismo, di persone del terzo mondo che vivono fra noi.
Credo che, in generale, abbiamo una forte insensibilità verso questi problemi e queste persone.
Coltiviamo mentalità piccolo borghese ed erigiamo barriere. Se un “diverso” comincia a frequentarci siamo subito a disagio perché turba il nostro ambiente che spesso più che cristiano è, appunto, piccolo borghese.
La Chiesa primitiva demolì ogni barriera fra gli uomini: Giudei e Greci, padroni e schiavi, ma-
schi e femmine.
Dal padrone Filemone invitato ad accogliere lo schiavo Onesimo, ai gentili orgogliosi per natura che mandarono aiuti materiali agli altrettanto orgogliosi Giudei, ai Giudei stessi, che chiamavano“cani” i gentili, ma che pure hanno portato loro l’Evangelo, la buona notizia: tutto fu travolto ed abbattuto dalla carità.
L’amore pratico e tangibile dei nostri giorni dovrebbe ugualmente abbattere tutte le barriere senza riserva alcuna: linguaggio e nazionalità, frontiere, giovani, vecchi, colore della pelle, educazione e condizione sociale, nascita, accento, sistemi di classi del nostro Paese, capelli lunghi o corti, ecc.
c) In relazione alla solitudine ed all’incomunicabilità della nostra generazione, la nostra sarà una presenza che coltiva le amicizie, gli incontri, il colloquio, le occasione per essere insieme.
Potremo incominciare aprendo le nostre case agli altri, ma è molto positiva anche la preoccupazione odierna di usare la sala di riunione, o qualche locale annesso, per avere agapi fraterne.
È una dimensione della comunione cristiana che parla particolarmente ai credenti di oggi, ma in questa linea andrebbero sviluppati programmi di incontri e di agapi che prevedano la presenza di amici, vicini di casa, colleghi di lavoro, compagni di studio.
Il vivere il nostro cristianesimo in questo modo parla profondamente agli altri.
d) Il punto precedente richiede inevitabilmente un collegamento, sul livello personale, con le persone non credenti in mezzo alle quali viviamo.
Ciò comporta il fatto che dobbiamo dare del tempo alle amicizie ed alle relazioni fuori dalla chiesa.
C’è del rischio, evidentemente, ma questa è la strada da percorrere se vogliamo che la nostra presenza singola e di comunità parli agli altri. È tanto più facile fare serie di riunioni fra credenti, è bello “giocare in casa”, ma non è il modo in cui il Signore ha voluto che fossimo chiesa in mezzo agli altri.
Una assemblea potrebbe pensare ad incontri nelle case, potrebbe incoraggiare i giovani ad organizzare attività sportive, gite, escursioni, o altre piacevoli attività ricreative, alle quali invitare gli amici.
Essere cristiani in mezzo agli altri per parlare loro significa favorire tutte le occasioni di incontro informali, al di fuori della sala e degli incontri di radunamento, al fine di portare capillarmente la nostra presenza e, con essa, l’Evangelo.
Conclusioni
Il nostro compito come credenti è arduo, come lo è sempre stato, ma anche affascinante e stimolante.
Siamo in tempi di cambiamenti rapidi di tutta la nostra società e della nostra cultura; conseguentemente siamo chiamati, come credenti, a mantenerci costantemente aggiornati in modo che la nostra presenza sia sempre anche una valida testimonianza.
In tutto questo non siamo soli: lo Spirito Santo promesso ci sostiene e ci aiuta, come sempre ha fatto con i figli di Dio.
Disponiamoci al suo intervento, alla sua potenza, alla sua saggezza e chiediamo al Signore di poter essere degli strumenti nella sua opera.