Una conclusione indebita
Una giustificazione che talvolta si sente in giro a proposito dei rapporti prematrimoniali tra fidanzati è che per la legge di Mosè il fidanzamento era come il matrimonio e quindi i fidanzati potrebbero “consumare” tranquillamente, l’importante è che siano sicuri della loro unione e certi che si sposeranno. Ma è proprio così?
Andiamo in fondo a questa idea. Anzitutto vediamo da dove nasce.
Nella legge di Mosè vengono disciplinati dei casi riguardanti le persone fidanzate, soprattutto la donna che in qualche modo finisce per essere parte lesa.
C’è un caso che in particolare interessa qui e se ne parla in Deuteronomio 22:23-24:
“Quando una fanciulla vergine è fidanzata e un uomo, trovandola in città, si corica con lei, condurrete tutti e due alla porta di quella città, e li lapiderete a morte: la fanciulla, perché, essendo in città, non ha gridato; e l’uomo, perché ha disonorato la donna del suo prossimo. Così toglierai via il male di mezzo a te”.
Dalle parole “la donna del suo prossimo”, si capisce che la fidanzata è già legata al promesso sposo e violare questo legame è equiparato all’adulterio e come tale punito con la pena di morte (cfr. v. 22).
Ecco perché nel Vangelo di Matteo si dice del padre putativo di Gesù: “Giuseppe, suo marito, che era uomo giusto e non voleva esporla a infamia…” (Mt 1:19), eppure Maria era solo “la sua promessa sposa” (v. 18).
Questo significa dunque che la legge di Mosè prevedeva che i fidanzati si comportassero in tutto e per tutto come delle persone sposate, rapporti coniugali compresi?
Questa è una conclusione indebita di ciò che la legge realmente dice! E pensiamo questo per le seguenti ragioni.
Il principio creazionale è normativo!
Anzitutto, non c’è nella legge nessuna deroga al principio costitutivo del matrimonio che leggiamo in Genesi 2:24:
“Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e saranno una stessa carne”. Secondo tale principio, il Creatore ha stabilito l’unione sessuale dopo il matrimonio: prima bisogna lasciare la casa paterna, poi unirsi alla propria moglie (non più fidanzata) in un nuovo focolare domestico e quindi essere una sola carne (unione sessuale).
Una “deroga”, forse l’unica che la legge porta a questo principio riguarda il “ripudio” (De 24:1-4), cioè la durata del matrimonio.
Ma come più tardi dirà Gesù: “Fu per la durezza dei vostri cuori che Mosè vi permise di mandare via le vostre mogli; ma da principio non era così” (Mt 19:9).
Questa era una permissione, una sorta di concessione in “deroga” al principio creazionale, istitutivo e costitutivo del matrimonio, che considerava il matrimonio qualcosa di definitivo e “per tutto il tempo della sua vita” (De 22:19,29).
Ed è quel principio che Gesù ribadisce con forza:
“Non avete letto che il Creatore, da principio, li creò maschio e femmina e che disse: «Perciò l’uomo lascerà il padre e la madre, e si unirà con sua moglie, e i due saranno una sola carne»? Così non sono più due, ma una sola carne; quello dunque che Dio ha unito, l’uomo non lo separi” (Mt.19:4-6). Quindi, come “un testamento che Dio ha stabilito anteriormente, non può essere annullato, in modo da render vana la promessa, dalla legge sopraggiunta quattrocentotrent’anni più tardi” (Ga 3:17), così per Gesù, neppure la “deroga” sul ripudio che la legge compie sull’istituto creazionale del matrimonio, può annullarne la validità.
Ma la domanda rilevante da porci è: quale deroga c’è stata nella legge al principio creazionale secondo cui “l’essere una stessa carne” deve seguire (e non precedere) il “lasciare padre e madre e l’unirsi con la propria moglie” (non più fidanzata)? È sufficiente l’equiparazione che la legge fa tra fidanzamento e matrimonio a giustificare una deroga di questo tipo? E se anche ci fosse stata, non dovremmo seguire l’inse-
gnamento di Gesù, il quale ha stabilito come normativo per i suoi discepoli il principio creazionale: lasciare i genitori… unirsi in matrimonio… unione sessuale?
La verginità: condizione normale
e normativa del fidanzamento
In secondo luogo, non è un caso che il nostro testo (De 22:23) parli di “una fanciulla vergine… fidanzata”. Se l’equiparazione tra fidanzamento e matrimonio era tale da consentire liberamente i rapporti prematrimoniali tra fidanzati ebrei, essendo considerata una cosa normale, perché parlare di “vergine fidanzata”?
Che sia solo una questione di linguaggio?
Che questa norma valga solo per quei fidanzati che avevano scelto di rimanere casti sino al giorno di nozze, mentre non valga per gli altri che invece si erano avvalsi della facoltà di avere rapporti?
Non è né l’uno né l’altro caso.
L’espressione “vergine fidanzata” sta ad indicare la condizione normale e normativa di un fidanzamento ebraico come previsto anche dalla legge.
Infatti, nello stesso capitolo del Deuteronomio che stiamo considerando si parla del caso “curioso” di un marito che arriva al giorno delle nozze e scopre che la moglie non è vergine e se la prende con i suoi genitori, i quali devono produrre in giudizio“le prove della verginità” della figlia: “un lenzuolo” che, secondo alcuni è il lenzuolo della prima notte di nozze, secondo altri il lenzuolo della giovane mentre era ancora nubile (De 22:13-21).
In realtà, l’elemento “curioso” si sgonfia se prendiamo in considerazione che a quel tempo, i genitori erano i custodi della verginità della figlia, una importante “dote” che la ragazza portava con sé e che garantiva “l’integrità della vita della famiglia quale unità fondamentale della comunità del patto”1.
Dal canto suo lo sposo o i suoi familiari davano ai genitori della sposa una “dote” (Es 22:17) che si aggirava intorno ai “cinquanta sicli d’argento” (De 22:29).
Ecco perché, se la dote fondamentale della verginità mancava, il marito (o i familiari) si sarebbero sentiti defraudati e si sarebbero rivalsi in giudizio contro i genitori della ragazza.
Ora il punto è: se la legge prevedeva i rapporti prematrimoniali tra fidanzati, perché aspettare al giorno delle nozze per verificare la verginità della propria donna?
Inoltre, perché la legge usa in questo caso espressioni del tipo: “Quando un uomo sposa una donna, entra da lei… quando mi sono accostato a lei, non l’ho trovata vergine… prenderanno le prove della verginità della giovane” (De 22:13-15)?
Perché la legge prevedeva la “consumazione” del matrimonio solo dopo le nozze!
Obblighi e non privilegi dalla
equiparazione fidanzamento-matrimonio
In terzo luogo, è evidente che lo scopo della legge nell’equiparare il fidanzamento al matrimonio, non era certo quello di fare delle concessioni in deroga al principio creazionale del matrimonio, ma quello di proteggere quel legame che era già in essere col fidanzamento e che si sarebbe perfezionato il giorno del matrimonio, con i suoi aspetti pubblici e formali e i suoi aspetti privati (essere una stessa carne).
Se ci riflettiamo, l’equiparazione che fa la legge tra fidanzamento e matrimonio non è tanto positiva, quanto negativa. Non dice: “Puoi fare da fidanzato tutto quello che faresti da sposato”.
Tutt’altro!
L’equiparazione che fa la legge tra fidanzamento e matrimonio ha più una valenza punitiva: “Se tradisci il tuo fidanzato, sarai punito con la morte, proprio come se tu fossi sposato”. Questo è ciò che dice la legge.
Si capisce dunque che da questa equiparazione ne nascono più obblighi che privilegi.
In particolare, l’obbligo per la parte più debole, ossia la donna, di conservarsi vergine e pura, evitando situazioni di pericolo nelle quali nessuno avrebbe potuto soccorrerla e nelle quali lei non avrebbe potuto provare di non essere stata consenziente in un eventuale rapporto carnale.
Esempi biblici di comportamento
in vista del matrimonio
In quarto luogo, è molto istruttivo vedere come in tutto l’Antico Testamento e oltre è stata intesa questa equiparazione tra fidanzamento e matrimonio.
Qual era la prassi normale per chi era fidanzato e prossimo al matrimonio? Vediamo vari esempi:
Isacco
L’esempio di Isacco:
“E Isacco menò Rebecca nella tenda di Sara sua madre, se la prese, ed ella divenne sua moglie, ed egli l’amò” (Ge 24:67).
Prima Rebecca “divenne sua moglie”, poi Isacco “l’amò”!
Giacobbe
L’esempio di Giacobbe:
“Giacobbe servì sette anni per Rachele; e gli parvero pochi giorni, a causa del suo amore per lei. Poi Giacobbe disse a Labano: «Dammi mia moglie, perché il mio tempo è compiuto, e io andrò da lei». Allora Labano radunò tutta la gente del luogo e fece un banchetto. Ma, la sera, prese sua figlia Lea e la condusse da Giacobbe, il quale si unì a lei” (Ge 29:20-23).
Malgrado l’impostura che Giacobbe subì dal futuro suocero Labano, il suo esempio indica chiaramente come un ebreo intendeva il fidanzamento e il matrimonio: prima si aspetta anche per un lungo periodo di ben “sette anni”; poi, e soltanto poi, c’è il resto.
Boaz e Rut
L’esempio di Boaz e Rut:
“Così Boaz prese Rut, che divenne sua moglie. Egli entrò da lei, e il Signore le diede la grazia di concepire; e quella partorì un figlio” (Ru 4:13 cfr. vv. 9-10).
Anche qui, prima “divenne sua moglie” e poi “entrò da lei”.
Sansone
L’esempio di Sansone:
“Al tempo della mietitura del grano, Sansone andò a visitare sua moglie, le portò un capretto e disse: «Voglio entrare in camera da mia moglie»” (Gd 15:1).
Sansone non aveva ancora “consumato” con la moglie, perché il giorno delle nozze successe qualcosa che lo irritò tanto e andò via, ma ora voleva ciò che era suo e aveva il diritto di poterlo prendere.
Maria, la madre di Gesù
L’illuminante esempio di Maria, la mamma di Gesù. Nella versione di Matteo si legge:
“La nascita di Gesù Cristo avvenne in questo modo. Maria, sua madre, era stata promessa sposa a Giuseppe e, prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe, suo marito, che era uomo giusto e non voleva esporla a infamia, si propose di lasciarla segretamente” (Mt 1:18-19).
Nella versione di Luca è ancora più chiaro:
“Al sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città di Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine fidanzata a un uomo chiamato Giuseppe, della casa di Davide; e il nome della vergine era Maria… Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, dal momento che non conosco uomo?» (Lu 1:26,27,34).
Qui è molto chiaro: Maria era una classica ragazza israelita, una “vergine fidanzata” che non aveva “conosciuto uomo”, anche se era “promessa sposa” ad un uomo che, benché venga già chiamato “suo marito”, non l’aveva conosciuta, perché ancora non erano “venuti a stare insieme”!
Tobia e Sara (dai testi apocrifi)
Riportiamo inoltre un brano dalla letteratura extra biblica, dal libro di Tobia, che, pur essendo un libro apocrifo, ha in questo caso un valore storico che conferma quanto detto finora.
Al capitolo 7:13-17 si parla del matrimonio tra Tobia e Sara e si legge:
“Raguele chiamò la figlia Sara e quando essa venne la prese per mano e l’affidò a Tobia con queste parole: «Prendila; secondo la legge e il decreto scritto nel libro di Mosè ti viene concessa in moglie. Tienila e sana e salva conducila da tuo padre. Il Dio del cielo vi assista con la sua pace». Chiamò poi la madre di lei e le disse di portare un foglio e stese il documento di matrimonio, secondo il quale concedeva in moglie a Tobia la propria figlia, in base al decreto della legge di Mosè. Dopo di ciò cominciarono a mangiare e a bere. Poi Raguele chiamò la moglie Edna e le disse: «Sorella mia, prepara l’altra camera e conducila dentro». Essa andò a preparare il letto della camera, come le aveva ordinato, e vi condusse la figlia. Pianse per lei, poi si asciugò le lacrime e disse: «Coraggio, figlia, il Signore del cielo cambi in gioia il tuo dolore. Coraggio, figlia!». E uscì”. Anche qui, prima c’è il “documento matrimoniale” (cfr. il “patto” in Ma 2:14), poi c’è il banchetto nuziale ed infine c’è “la camera da letto”.
L’insegnamento di Paolo
Infine abbiamo l’apostolo Paolo, “ebreo figlio di Ebrei; quanto alla legge, fariseo” (Fl 3:5).
È importante sapere come lui abbia inteso questa equiparazione della legge tra fidanzamento e matrimonio. Un passo molto esplicativo è il seguente:
“Or quanto alle cose di cui mi avete scritto, è bene per l’uomo non toccar donna; ma, per evitare le fornicazioni, ogni uomo abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito. Il marito renda alla moglie ciò che le è dovuto; lo stesso faccia la moglie verso il marito. La moglie non ha potere sul proprio corpo, ma il marito; e nello stesso modo il marito non ha potere sul proprio corpo, ma la moglie. Non privatevi l’uno dell’altro, se non di comune accordo, per un tempo, per dedicarvi alla preghiera; e poi ritornate insieme, perché Satana non vi tenti a motivo della vostra incontinenza” (1Co 7:1-5).
I Corinti avevano posto delle questioni a Paolo e lui risponde in proposito che “non è bene toccar donna” (v. 1), cioè avere rapporti sessuali con una “donna”.
Possiamo solo intuire a cosa Paolo si riferisse, ma ciò che dice dopo è chiaro e segue una logica precisa:
1. _le fornicazioni (porneia), cioè i rapporti sessuali di vario genere (incesto, prostituzione, omosessualità, sodomia ecc.), vanno “evitate”;
2. _il modo per evitarle è “non toccar donna”
(v. 1), cioè l’astinenza totale, oppure “ogni uomo abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito” (v. 2), cioè il matrimonio.
Paolo prosegue dicendo che l’attività sessuale (“renda alla moglie… lo stesso faccia la moglie… potere sul proprio corpo… non privatevi… incontinenza”) va esercitata all’interno del matrimonio.
È evidente che tutte queste attività (cfr. “toccar donna”) fatte al di fuori del matrimonio sono “fornicazione”. E poco più avanti conferma che l’alternativa per chi “non riesce a contenersi” e “arde”, non è la fornicazione, ma “sposarsi” (v. 9).
Quindi, il punto non è se i rapporti prematrimoniali fra fidanzati sono esclusi dal concetto di fornicazione. Il punto è che ogni rapporto sessuale al di fuori del legame coniugale (“propria moglie… proprio marito”) è fornicazione e quindi da “evitare”.
È evidente che per Paolo, ogni unione sessuale al di fuori del matrimonio è fornicazione, compresi i rapporti prematrimoniali tra fidanzati. Paolo dice chiaramente che la fornicazione è un peccato da evitare, perché ci espone al giudizio di Dio:
“Non sapete che gl’ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non v’illudete; né fornicatori, né idolatri, né adùlteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriachi, né oltraggiatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio… Le vivande sono per il ventre, e il ventre è per le vivande; ma Dio distruggerà queste e quello. Il corpo però non è per la fornicazione, ma è per il Signore, e il Signore è per il corpo… Fuggite la fornicazione. Ogni altro peccato che l’uomo commetta, è fuori del corpo; ma il fornicatore pecca contro il proprio corpo. Non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete ricevuto da Dio? Quindi non appartenete a voi stessi. Poiché siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo” (1Co 6:9-10,13,18-20).
E Paolo insiste parecchio su questo punto: vedi 1Co 5:1,11; 10:8; Ga 5:19; Ef 5:3,5; Cl 3:5; 1Te 4:3-5 cfr. Eb 13:4; Ap 21:8; 22:15.
Conclusioni
Per concludere “Dobbiamo affermare e testimoniare che l’unica alternativa al matrimonio è l’astinenza sessuale”2, e l’unica alternativa all’astinenza sessuale è il matrimonio. Altrimenti resta solo “l’alternativa” della fornicazione, del peccato e del giudizio! Questo è l’insegnamen-
to etico sia del Vecchio che del Nuovo Testamento sul matrimonio, il quale ribadisce il principio creazionale (Ge 2:24).
Vogliamo ora, contro ogni moralismo, abbandonare questo soggetto, con una nota di speranza, fondata sulla “vera grazia di Dio” (1P 5:12 cfr. 1:14-15). La fornicazione è un peccato dal quale si può essere lavati e perdonati:
“E tali eravate alcuni di voi; ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e mediante lo Spirito del nostro Dio” (1Co 6:11).
Tuttavia è necessario “fare cordoglio” per questo peccato (1Co 5:1,2), sia come individui coinvolti, che come chiesa, affinché “la frittata” non sia doppia.
È necessario non giustificarlo:
“Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi, e la verità non è in noi. Se diciamo di non aver peccato, lo facciamo bugiardo, e la sua parola non è in noi” (1Gv 1:8,10).
Bisogna perciò confessarlo, cioè chiamarlo per nome:
“Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità” (1Gv 1:9).
Bisogna infine abbandonarlo:
“Chi copre le sue colpe non prospererà, ma chi le confessa e le abbandona otterrà misericordia” (Pr 28:13).
“Se qualcuno ha peccato, noi abbiamo un av-
vocato presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto”
(1Gv 2:1).
Gesù ha detto un giorno:
“Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Io non sono venuto a chiamare dei giusti, ma dei peccatori” (Mr 2:17).
Questo non vale solo per quelli di fuori, ma anche per noi cristiani!