Per introdurre l’argomento delle Intese, è fondamentale chiarire prima di tutto i rapporti tra Stato e Chiesa nell’insegnamento biblico, il concetto biblico di autorità, il significato di “dare a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”, la Chiesa primitiva e lo Stato, l’ecclesiologia neotestamentaria sull’autonomia delle chiese locali dipendenti solo dalla Parola e sul rifiuto di strutture centralizzate e centralizzanti.
Rapporti tra Stato e Chiesa:
approccio all’insegnamento biblico
I rapporti della chiesa cristiana con le autorità di questo mondo non sono una questione secondaria; al contrario, sono un fatto di rilevantissima importanza spirituale, che mette alla prova l’ubbidienza a Dio nella concretezza del vivere e mette in gioco la dottrina, cioè la comprensione e l’insegnamento della verità rivelata da Dio nella Bibbia, e precisamente della verità riguardante la Chiesa di Gesù Cristo.
L’approccio biblico ci permetterà di conoscere quanto dice la Bibbia e ci consentirà anche di scoprire che il diverso modo di rapportarsi con lo Stato da parte delle diverse chiese “evangeliche” italiane (alcune hanno cercato e voluto le Intese, poche le rifiutano) non è il risultato di un diverso modo di valutare opportunità e strategie, ma piuttosto di un diverso modo d’intendere l’insieme biblico della rivelazione di Dio.
Come è noto, il termine “Fratelli”, applicato alle nostre Assemblee, non ha mai mancato di sollevare problemi. È stato accettato con riluttanza e usato con esitazione, anche a causa degli equivoci che può provocare. In un certo senso è inevitabile che sia così, proprio perché il termine si riferisce a chiese che non vogliono costituire né una struttura ecclesiastica sovralocale giuridicamente identificabile, né un recinto entro cui racchiudere tutti i cristiani fedeli. Ma, la voluta rinuncia a una struttura ecclesiastica costituisce già un elemento di vicinanza e uno stimolo alla comunione.
L’identità biblica delle Assemblee dei “Fratelli” si fonda sulla Bibbia, perché in essa si riconosce l’unica forma di autorità apostolica giunta fino a noi.
L’identità storica delle Assemblee dei “Fratelli” si fonda, invece, su una serie di fatti e abitudini che hanno costituito la loro storia.
Cosa insegna la Scrittura
in materia di autorità
Queste considerazioni che avremo insieme sono tratte da uno studio già sviluppato dal fratello Paolo Moretti e riportato sulle pagine de IL CRISTIANO n. 5/1995, dal titolo “Appunti per una riflessione sui rapporti tra Stato e Chiesa”, cui si rimanda per il suo contenuto integrale. Ad ogni modo, nel seguito vorrei riprendere alcune verità sviluppate in quest’articolo. Riporto seguendo la sua esposizione.
“È nella Bibbia che crediamo di poter trovare conoscenza del pensiero di Dio in merito a tanti aspetti della vita della Chiesa e di conseguenza, anche in merito alla sua relazione con lo Stato. Come vedremo, Dio non ci ha lasciato senza risposte. Siamo piuttosto noi che talvolta preferiamo privilegiare le nostre risposte, senza neppure preoccuparci di conoscere quelle di Dio.
Per cui considereremo quattro punti:
1. L’insegnamento e il comportamento di Gesù.
Come premessa occorre subito sottolineare che non dobbiamo cercare di agganciare Gesù al “nostro” carro, perché egli deve essere sempre lasciato davanti ad indicare la strada.
Il contenuto dei Vangeli ci offre tre momenti su cui riflettere:
a) Il contesto nel quale visse Gesù.
• In Israele, al tempo di Mosè, si andava strutturando una piena identificazione della dimensione politica e di quella religiosa; identificazione che sopravvisse anche durante la monarchia tanto è vero che, nei libri dei Re e delle Cronache, l’operato dei monarchi, sia di Israele che di Giuda, viene valutato in base alla loro sottomissione o ribellione all’Eterno (“Egli fece ciò che è giusto agli occhi del Signore…..” oppure “Egli fece ciò che è male agli occhi del Signore”).
• Ai tempi di Gesù, ogni scelta e comportamento di Israele erano dominati dal desiderio di liberarsi dell’autorità romana. Per cui molte persone che si interessavano a Gesù lo fecero per motivazioni politiche.
• I movimenti religiosi più autorevoli avevano rilevanza notevole anche sul piano delle scelte politiche: più diplomatici e concilianti i Sadducei, più rigidi e settari i Farisei, fieri nemici di Roma; più aggressivi e rivoluzionari gli Zeloti (potremmo definirli oggi “estrema sinistra” del tempo). Erano in sostanza tre partiti religiosi che si esprimevano in tre diversi modi nel rapportarsi con le autorità romane: “Liberali”, i Sadducei; “Difensori della più rigida tradizione religiosa”, i Farisei;_“Intolleranti nei confronti di qualsiasi sudditanza esterna”, gli Zeloti.
b) _I principi che determinarono il comportamento di Gesù.
• Al centro della predicazione di Gesù c’è l’avvento del Regno di Dio: chi, per la nuova nascita entra nel Regno deve lasciare che quest’appartenenza spirituale condizioni il suo comportamento in ogni aspetto della vita.
• Questo Regno ha origini e metodi di diffusione che contrastano con quelli dei regni umani (“Il mio regno non è di questo mondo, altrimenti i miei discepoli combatterebbero”, Gv 18:36).
• Questo Regno perciò non può venire da questo mondo, ma è instaurato da Dio. La sua presenza in questo mondo coinvolge non una dimensione spazio-temporale, ma una dimensione spirituale. Il Regno si rese visibile nella vita di Gesù e si rende visibile nella vita di coloro che hanno oggi questo Regno “nei loro cuori”.
c) Le conseguenze pratiche, per Gesù e per noi.
• Gesù non ha mai voluto identificarsi con i partiti politici del suo tempo: né con i Sadducei, né con i Farisei, né con gli Zeloti.
• Gesù non ha mai in nessuna occasione contestato il potere di Cesare né quello di Erode.
• Non si è mai schierato dalla parte delle autorità, non ne ha mai cercato il favore, considerando il potere una tentazione e indicando nell’identità governo-servizio il suo modello di autorità (“Chi governa sia come colui che serve”, Lu 22:26).
• Gesù ha affermato che Cesare e Dio non possono essere messi sullo stesso piano: “Date (=rendete) a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (Mt 22:21).
Infatti, l’apparente parallelismo fra Cesare e Dio è in realtà un’antitesi. Perché? Perché ciò che si deve dare a Cesare è ben diverso da ciò che si deve dare a Dio. Cesare ha a che fare con la dimensione materiale, terrena della nostra vita; Dio ha a che fare con ogni aspetto e con l’eternità. A Cesare il denaro e le tasse, a Dio tutto l’uomo.
• Gesù non divinizza, ma neppure diffama Cesare; gli indica semplicemente di cosa deve e di cosa non deve occuparsi. Se Dio nella sua sovranità concede a Cesare autorità, lo fa per un tempo limitato.
2. _La chiesa primitiva e lo Stato – alcuni brani del Nuovo Testamento.
Dal comportamento degli apostoli e da quello di tutta la Chiesa delle origini, così come presentataci da Luca nella narrazione storica riportata nel libro degli Atti degli Apostoli, emergono alcuni punti fondamentali da tenere presenti:
• La sottomissione alle autorità e allo Stato è secondaria rispetto alla sottomissione a Dio (At. 5:24 “Bisogna ubbidire a Dio anziché agli uomini”, laddove c’è il divieto di annunciare l’Evangelo);
• I cristiani non cercarono mai favori o aiuti dalle autorità, ma, come nel caso dell’appello di Paolo a Cesare, chiesero ciò che era legittimo chiedere senza abusare in privilegi e raccomandazioni;
• Non ci fu mai da parte della Chiesa nessuna affermazione di superiorità del potere spirituale su quello temporale né nella realtà locale della Palestina né in quella più ampia dell’Impero e questo, in un contesto di relazioni talvolta favorevole (basti considerare tutti l’episodio del proconsole di Acaia, Galione, che a Corinto non volle immischiarsi nelle dispute dei Giudei contro Paolo e se ne tenne al di fuori (At 18:12-17).
• Sembra quasi che la Chiesa primitiva non si ponesse neppure il problema di rapportarsi con lo Stato, intendendo il problema di questa relazione come una questione individuale piuttosto che collettiva (nell’incontro di Gerusalemme narrato in Atti 15 non c’è traccia di analisi da parte della Chiesa di un rapporto con le autorità, nonostante la recente grave diaspora da Gerusalemme).
Qual era infatti il significato della sottomissione alle autorità (Ro 13:1-7)?
“Ogni persona stia sottomessa alle autorità superiori; perché non vi è autorità se non da Dio; e le autorità che esistono sono stabilite da Dio. Perciò chi resiste all’autorità si oppone all’ordine di Dio; quelli che vi si oppongono si attireranno addosso una condanna; infatti i magistrati non sono da temere per le opere buone, ma per le cattive. Tu, non vuoi temere l’autorità? Fa’ il bene e avrai la sua approvazione, perché il magistrato è un ministro di Dio per il tuo bene; ma se fai il male, temi, perché egli non porta la spada invano; infatti è un ministro di Dio per infliggere una giusta punizione a chi fa il male. Perciò è necessario stare sottomessi, non soltanto per timore della punizione, ma anche per motivo di coscienza. È anche per questa ragione che voi pagate le imposte, perché essi, che sono costantemente dediti a questa funzione, sono ministri di Dio. Rendete a ciascuno quel che gli è dovuto: l’imposta a chi è dovuta l’imposta, la tassa a chi la tassa; il timore a chi il timore; l’onore a chi l’onore” (Ro 13:1-7).
Questo brano ci pone di fronte ad alcune considerazioni.
• Dio è fonte di ogni autorità, perché il principio stesso di autorità è indissolubilmente legato alla sua persona.
• Coloro che esercitano l’autorità sulla terra lo fanno per delega o concessione di Dio.
• Il governo umano, perciò l’esistenza stessa dello Stato, è frutto di un ordinamento divino.
• I poteri di coercizione e di concessione sono stati affidati da Dio agli Stati per reprimere il crimine, arginare il male e promuovere la giustizia.
• Di conseguenza, i cristiani devono distinguersi rispetto agli altri: nel pagare le tasse, nel rispettare le autorità, perché in fondo anche questo è un modo di servire Dio.
• Che fare, come cristiani, quando le autorità sono ingiuste? Quando Cesare oltre alle cose sue pretende anche quelle di Dio? La risposta la darà a Pietro già in tempi di persecuzione:
“Siate sottomessi, per amor del Signore, a ogni umana istituzione: al re, come al sovrano; ai governatori, come mandati da lui per punire i malfattori e per dare lode a quelli che fanno il bene. Perché questa è la volontà di Dio: che, facendo il bene, turiate la bocca all’ignoranza degli uomini stolti. Fate questo come uomini liberi, che non si servono della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servi di Dio. Onorate tutti. Amate i fratelli. Temete Dio. Onorate il re” (1P 2:13-17).
E più avanti nella stessa lettera:
“Nessuno di voi abbia a soffrire come omicida, o ladro, o malfattore, o perché si immischia nei fatti altrui; ma se uno soffre come cristiano, non se ne vergogni, anzi glorifichi Dio, portando questo nome” (1P 4:15-16).
In un certo senso, intendendo radicalmente la signoria di Dio sulla storia, si potrebbe affermare che anche l’Anticristo diventa “ministro di Dio”, come testimonianza delle aberrazioni cui l’uomo senza Dio può giungere nel suo interpretare il ruolo di autorità.
Infine, è chiaro che quando Cesare pretende per sé ciò che appartiene a Dio, i cristiani devono essere pronti a dire “NO”, come lo furono i tre amici di Daniele a Babilonia, davanti alla statua che rappresentò uno dei tanti tentativi della politica di asservire a sé la religione o di quest’ultima di dominare sulla politica.
Concludendo sugli insegnamenti del brano di Romani 13:1-7 è bene ricordare che:
• Il problema del rapporto con lo Stato è uno dei tanti affrontati nella Parola: non si compie quindi alcun abuso affrontandolo biblicamente.
• Lo Stato ha diritto di essere, per la legittima esistenza di un fondamento di ordine e di autorità che ha origine in Dio. È chiaro che il fondamento ne legittima l’esistenza, ma non i modi di essere.
• Più che la Chiesa nel suo insieme è il singolo credente chiamato ad esercitare la sua responsabilità nei confronti di questa realtà che non può e non deve ignorare. Infatti la Bibbia non parla affatto di un rapporto Chiesa-Stato, ma piuttosto del rapporto singoli cristiani-Stato. Non è la Chiesa, nel suo insieme, chiamata a prendere posizioni davanti allo Stato; lo sono i singoli credenti.
3. _Regno di Dio e Millennio: contrapposizione fra tesi post-costantiniana (“Il Regno è già qui” = Religione di Stato) e quella pre-millenarista (“Il Regno deve venire” = Lo Stato non ha, non può avere una sua religione).
a)_ Uno sguardo alla dottrina cattolica sulla identificazione Chiesa-Stato.
• Sulla base della dottrina esposta da Sant’Agostino ne “La città di Dio”, secondo la quale il millennio biblico indicherebbe il periodo che va dalla risurrezione di Gesù fino al suo ritorno e Cristo governerebbe già sul mondo attraverso la sua Chiesa, e in seguito alla proclamazione da parte di Costantino del cristianesimo come “religione dell’Impero”, si è fatta strada nella dottrina della Chiesa cattolica l’idea di un’attuazione immediata (non più escatologica) del Regno di Dio, anche nella sua dimensione spazio-temporale, quindi non soltanto in quella spirituale.
• Il regno è stato così identificato con la Chiesa che, da organismo vivente e invisibile, fu trasformata in Istituzione, fino al punto di far nascere addirittura uno “Stato della Chiesa”.
Da ciò la pretesa di ogni Papa di essere guida del mondo, come rappresentante di un Regno al quale tutti gli uomini dovrebbero sottoporsi.
b) _Uno sguardo alle posizioni nel mondo “evangelico”.
• La Riforma protestante non portò grossi cambiamenti in questa concezione del Regno; Lutero restò legato nella sostanza alle posizioni di S. Agostino, pur se affermò la distinzione fra due Regni che dovevano strettamente collaborare per il bene dei popoli.
• Calvino invece pensava che Cristo governasse già il mondo e che, di conseguenza, alla Chiesa fosse affidato anche il governo temporale delle nazioni (questa convinzione fu infelicemente applicata nel governo della città di Ginevra)
• Le chiese riformate sono ancora oggi sostanzialmente legate a questo tipo di approccio: da qui la loro volontà di ratificare Intese con lo Stato Italiano (Valdo-Metodisti, Battisti, Luterani; pur se non riformati anche gli Avventisti, gli Apostolici ed i Pentecostali delle ADI).
c) Per una posizione biblica.
• Alla luce delle Scritture, il Regno, oggi esistente in una dimensione spirituale e invisibile (è “nel cuore” dei credenti), deve ancora venire sulla base delle indicazioni escatologiche proprie del premillenarismo.
• I cristiani sono testimoni del Regno che è nei cuori e del Regno che viene, ma non sono certo uomini e donne che devono cercare d’imporre il loro credo.
• Proprio perché la Chiesa è in attesa del Regno e del suo Re non può avere mire impositive in questo mondo, ma solo mire propositive.
• I cristani sono “forestieri e pellegrini”; che idealmente sono “cittadini dei cieli”, non cittadini di questo mondo.
Questa convinzione ha prodotto purtroppo in molti casi un pressoché totale estraniarsi dal mondo e dalla sua vita. Ma il fatto che sia stata mal praticata non inficia affatto la sua validità attuale.
• No a qualsiasi forma di Statuto o di confessione di fede.
• Impossibilità pratica e giuridica di accordi- Intese, discussi e ratificati come “blocco ecclesiale o denominazionale” con lo Stato.
• Rifiuto di strutture e persone che rappresentino le chiese locali, o peggio ancora, una chiesa nazionale che non esiste.
• Di conseguenza no alla creazione di figure giuridiche da indicare come “ministri di culto” perché in qualche modo frutto di un accordo o di un’ingerenza non legittimabili biblicamente”.
La naturale conclusione cui giunge il fratello Paolo Moretti, è:
“Dobbiamo convincerci che la reale applicazione e lo scrupoloso rispetto della Costituzione della Repubblica Italiana sarebbero più che sufficienti a garantirci quella libertà di fede, di pensiero, di testimonianza di cui sentiamo il bisogno. Concordati, Intese, trattati di vario genere finiscono sempre per risultare accordi fonti di favori e di privilegi, attraverso i quali si finisce per «dare a Dio» anche quello che di diritto appartiene «a Cesare»”.
Conclusioni
Alla luce di quanto sinora detto, chiediamoci:
Sono possibili nostre Intese con lo Stato?
Le nostre Assemblee credono nel principio neotestamentario dell’autonomia delle chiese locali e riconoscono come unico loro statuto la Parola di Dio, in tutta la sua varietà e ricchezza d’insegnamenti. Sono due principi ai quali non si deve rinunciare per ragioni di comodo o di convenienza, perché così verrebbe meno la nostra fedeltà a Dio.
Come abbiamo visto, la prima affermazione fondamentale che ci viene dalle Scritture è che le autorità sono da Dio. Questo non è mai stato un fatto ovvio e scontato, e non lo è neppure oggi. Anzi, se non ci fossero nella Bibbia affermazioni così chiare, forse molti di noi avrebbero già concluso che le autorità sono dal diavolo.
Ora ai credenti si chiede la sottomissione al Signore, anche nella sottomissione alle autorità umane che Dio ha stabilito. Infatti, la Bibbia parla di autorità solo per sottolineare i doveri dei credenti. Ai cristiani si chiede: sottomissione, onore e preghiere. Alle autorità non si chiede nulla. E soprattutto, non si chiede nulla che riguardi la Chiesa.
Per cui, nei suoi rapporti con lo Stato, la Chiesa deve avere un equilibrio. Non deve cadere nell’errore dello “spiritualismo”, come non deve cadere nell’errore del “clericalismo”.
Lo “spiritualismo” riguarda coloro che, volendo dare molta importanza alla nuova nascita, tendono a trascurare e svalutare tutto ciò che fa ancora parte della vecchia creazione. Per cui, essendo le autorità facenti parte della vecchia creazione, il primo impulso degli spiritualisti è quello di rifiutarle.
Il “clericalismo” invece, fa l’errore opposto. Ritiene che le autorità sono da Dio e poiché la maggiore esperta in fatto di cose di Dio è la Chiesa, le autorità devono stare a sentire quello che dice la Chiesa.
Questa deviazione assume la sua forma più evidente nella chiesa cattolica che nei secoli passati ha realizzato concretamente il suo clericalismo riuscendo a conquistare, in una società cristianizzata, una superiorità giuridicamente riconosciuta nei confronti dello Stato.
Questa forma di “clericalismo” è presente anche nelle chiese riformate, pur se in forme diverse. Anche per i riformati la Chiesa può parlare ai re e trattare con i potenti della terra, in forza della sua autorità spirituale.
Pertanto, il clericalismo protestante trova espressione in quel desiderio intenso di entrare in concorrenza con la chiesa cattolica in fatto di autorità morale sul mondo.
Ma nell’insegnamento neotestamentario la Chiesa è presentata come un “organismo vivente” e, a ragion veduta, deve rifiutare una sua connotazione istituzionalizzata, con i suoi ordinamenti, statuti e rappresentanze. Così come deve rifiutare la connotazione di “confessione (o denominazione) religiosa”.
Quest’organismo vivente non conosce altro Capo che Cristo, altra Autorità che la sua Parola, altra Comunione che non quella prodotta e donata dallo Spirito Santo. Trasformare questa Chiesa in istituzione con statuti, regolamenti, ordinamenti, organi interni…equivale a rinnegare la sua natura, la sua posizione, i suoi scopi.
Nella Chiesa e attraverso la Chiesa, gli uomini, ma con loro anche “i principati e le potenze nei luoghi celesti” sono guidati a conoscere la “infinitamente varia sapienza di Dio” (Ef. 3:11). Una Chiesa che diventa istituzione fa conoscere solo una sapienza umana magari ammantata di “spiritualità”, ma pur sempre non proveniente “dall’Alto”.
Per cui, se qualcuno vuol far credere che le Intese sono il primo passo verso la libertà religiosa, un’opportunità per annunciare l’Evangelo a ogni creatura, inganna sé stesso, perché per annunciare l’Evangelo non è certo necessaria alcuna Intesa con lo Stato.
Negli Atti e nelle Epistole, l’annuncio del Vangelo fu solo il frutto della potenza dello Spirito Santo nella vita dei discepoli di Cristo, una “potenza” che nessun Stato potrà ingabbiare.
Il fratello Paolo Moretti, nel suo editoriale dal titolo “abbraccio mortale” (IL CRISTIANO n. 3/1998), riporta a conclusione della sua breve riflessione:
“… ogni volta in cui dei cristiani hanno rinunciato alla sofferenza di essere «forestieri e pellegrini», in cui hanno coltivato il desiderio di regnare subito senza attendere il Regno ed in cui hanno pensato che il loro esser «chiesa» potesse essere istituzionalizzato per scendere a patti con lo Stato, si è sempre trattato di un abbraccio mortale: «mortale« per la loro ubbidienza alla Parola, per la loro spiritualità, per la loro testimonianza”.
Pertanto, tenendo presenti questi due principi neotestamentari dell’autonomia delle chiese locali e del riconoscere come unico loro statuto la Parola di Dio e confrontandoli con l’esigenza di “propri statuti” e di “rappresentanze” posti dall’art. 8 della Costituzione, non possiamo che dire un convinto “NO” alle Intese. Rileggiamo l’art. 8 della Costituzione che le prevede:
“Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”.
Cerchiamo di fare un’analisi più nel dettaglio.
La prima Intesa fu firmata il 21 febbraio 1984, a soli tre giorni di distanza dalla firma del Concordato (avvenuta a Villa Madama il 18 febbraio 1984), tra il Governo Italiano e le “chiese valdo–metodiste” attraverso la Tavola valdese, un ente morale che le ha giuridicamente rappresentate. Questa Intesa era pronta dal 1978, ma, evidentemente era stata subordinata all’arrivo in porto del nuovo Concordato.
La cosa sconcertante è che il Concordato e la prima Intesa con le confessioni non cattoliche sono stati presentati insieme, come se si trattasse di documenti paralleli o quanto meno simili, di cui il secondo potesse segnare una specie di contrappeso al primo. La realtà è che, mentre l’Intesa cancella una situazione di discriminazione, il nuovo Concordato continua a far mantenere una posizione di privilegio alla Chiesa cattolica e rinnova, in veste democratica, il suo potere confessionale sulla vita pubblica italiana.
E questo è un altro elemento di sconcerto, perché dal 21 febbraio 1984 i Valdo-Metodisti, mentre si sono visti riconoscere un sacrosanto diritto costituzionale, si sono paradossalmente trovati in una posizione di “privilegio” rispetto ad altre minoranze religiose, per altro numericamente più consistenti, per le quali valgono sempre le leggi sui “culti ammessi”.
Leggiamo uno stralcio di questa Intesa del 21.02.1984, cercando di pensare se è applicabile all’ecclesiologia delle nostre assemblee.
“La Repubblica italiana dà atto dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordinamento valdese. La Repubblica italiana, richiamandosi ai diritti di libertà garantiti dalla Costituzione, riconosce che le nomine dei ministri di culto, la organizzazione ecclesiastica e la giurisdizione in materia ecclesiastica, nell’ambito dell’ordinamento valdese, si svolgono senza alcuna ingerenza statale…” (Art. 2).
Se come Assemblee non vogliamo avere altro “ordinamento” che non sia la Parola di Dio, quale Stato sarebbe disposto a riconoscere a questa Parola un valore giuridico?
Ancora: se volessimo stipulare anche noi un’Intesa, dovremmo redigere un nostro “ordinamento” che definisca la nostra “organizzazione ecclesiastica”. Ma non sarebbe un venir meno a ciò che crediamo?
Sicuramente qualcuno potrà osservare che noi abbiamo un ente morale che ha uno statuto accettato dallo Stato, ma si tratta di uno strumento che vogliamo sia esclusivamente amministrativo. Sarebbe chiaramente cosa ben diversa avere uno statuto che definisse la nostra “organizzazione ecclesiastica”.
Quale organismo potrebbe rappresentare le nostre Assemblee e stipulare per loro conto delle Intese con lo Stato?
Sarebbe legittimo un organismo che avesse la pretesa di rappresentare delle chiese locali che, proprio nel principio dell’autonomia, trovano una ragione di fedeltà agli insegnamenti del Nuovo Testamento?
Pertanto, le osservazioni ci fanno capire come “la ricerca di Intese con lo Stato” e “la ricerca di una piena fedeltà alla Parola di Dio” siano due atteggiamenti del tutto inconciliabili.
Ecco perché è necessario rivolgere la nostra preghiera al Signore affinché possano essere abrogate le precedenti leggi discriminatorie del 1929-1930, piuttosto che stipulare un’Intesa con lo Stato.