Sotto i nostri occhi sono passate ancora una volta le immagini dei cosiddetti “leaders” religiosi di tutto il mondo riuniti ad Assisi con lo scopo di “pregare” insieme per la pace: un rituale che si ripete ormai ogni anno da trent’anni a questa parte. Quest’anno il clamore mediatico è stato più accentuato sia per la presenza di “ben 510 personalità fra religiosi e politici” sia per il drammatico momento che sta vivendo il nostro mondo, a causa della crisi economica, dell’ininterrotto flusso di profughi verso l’Europa e delle migliaia di morti che sta mietendo la guerra in Siria. Un momento quindi difficile nel quale è comprensibile che l’umanità, imbarcata su una nave sballottata dalle onde del mare in tempesta, non trovando al suo interno strategie di salvezza e di pace, guardi verso l’Alto. Ma quale “Alto”? Ad Assisi i capi religioni si sono comportati proprio come i marinai della nave sulla quale si era imbarcato Giona, che “ebbero paura e invocarono ciascuno il proprio dio” (Gn 1:5). Ma con quale risultato? Il racconto biblico ci informa che “il mare si faceva sempre più tempestoso e minaccioso”. “La furia del mare si calmò” soltanto quando fu risolto il problema che aveva provocato la tempesta: il giudizio di Dio sulla disubbidienza di Giona.
La mia motivata simpatia non va certo ai leaders religiosi di oggi ma ai marinai della nave diretta verso Tarsis. Hanno, è vero, il denominatore comune di un’invocazione rivolta “ciascuno al proprio dio”, ma, mentre i religiosi di oggi sono rimasti ancorati alla loro confusa diversità, quei marinai si diedero da fare per comprendere il problema e risolverlo e, soprattutto, si unirono insieme per rivolgersi all’unico Signore (Gn 1:14), quando capirono che i loro dèi fasulli non avrebbero potuto nulla. In una parola: sulla nave di Giona è accaduto qualcosa che ad Assisi non è mai accaduto in trent’anni; purtroppo neppure quest’anno. Non vi è stata infatti la convergenza verso l’unico vero Dio; anzi “ciascuno” è tornato a casa con “il proprio dio”: ognuno con il suo dio, ognuno con la sua religione: immagine evidente di Babilonia (=confusione) non certo di Gerusalemme. Rattrista vedere fra questi personaggi anche coloro che si dicono “cristiani” e “evangelici”, ma sono ben lontani dal testimoniare e vivere le parole suggerite a Paolo dallo Spirito Santo: “Poiché, sebbene vi siano cosiddetti dèi, sia in cielo sia in terra, come infatti ci sono molti dèi e signori, tuttavia per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale sono tutte le cose, e noi viviamo per lui, e un solo Signore, Gesù Cristo, mediante il quale sono tutte le cose, e mediante il quale anche noi siamo” (1Co 8:5-6). Un solo Dio (“il Padre”!!) e un solo Signore (“Gesù Cristo”!!): questo è il messaggio che ci viene da Gerusalemme, ben diverso da quello che arriva da Assisi-Babilonia! Nel Mediterraneo in tempesta, fu “il sacrificio” di Giona a far calmare la furia del mare, a riportare la bonaccia e la pace. Essere oggi operatori di pace significa annunciare al mondo che non vi è alcuna possibilità di pace al di fuori del sacrificio di Cristo. Lui è “la nostra pace” perché sulla Croce ha fatto “morire la causa dell’inimicizia” fra gli uomini, ha abbattuto “il muro di separazione”, ha riconciliato gli uomini con Dio e fra di loro. La pace non è un bene che dobbiamo conquistare e per il cui conseguimento dobbiamo lottare e combattere. La vera pace è un dono: “Io vi lascio pace; io non do come il mondo dà” (Gv 14:27). Da Assisi-Babilonia viene la pace effimera che “il mondo dà”, quella che gli uomini hanno la pretesa di conquistare; da Gerusalemme-Golgota viene la vera pace, quella che dobbiamo accettare come un dono. Il nostro impegno di testimonianza e di vita, come uomini e donne di pace, non può prescindere da questa verità fondamentale: la pace ci viene da Cristo ed è solo “per mezzo di lui che gli uni e gli altri abbiamo accesso al Padre”, superando le inimicizie e diventando così davvero fratelli.