Personaggi sgradevoli
Chissà come mai a volte vengono in mente (ovviamente anche a me) delle stranezze che si pensavano o si facevano nel passato.
Una di queste stranezze è un ‘detto’ che a volte noi giovanissimi dell’epoca usavamo dire fra noi a bassa voce quando avevamo a che fare con qualcuno che un po’ tutti sopportavamo a stento.
Il detto in questione – ripeto: sussurrato solo a bassa voce in modo da non essere uditi dall’interessato, ma comunque quando l’interessato era nei paraggi – era il seguente:
Bisogna pregare per le
persone moleste e sperare che «se ne vadano» leste!
e poi ci facevamo una risatina alle spalle del destinatario della nostra battutina. Non nascondo che quando penso a quelle ‘innocenti battutine’, mi vergogno di averle pensate e anche condivise con altri miei giovanissimi amici dell’epoca.
Dato che però mi piace essere anche alquanto analizzatore dei fatti che mi circondano o che mi hanno visto partecipe, a distanza di tanti anni mi son chiesto: “Ma perché facevamo quella battutina non proprio simpatica?”.
A dire il vero il motivo c’era, eccome. Chi era oggetto di quelle ‘frecciatine’, era sempre una persona particolarmente difficile da sopportare. Si trattava di qualcuno che non sapevi mai come prendere e quando stavi con lui – e prima o poi capitava – ti sembrava di stare vicino a un porcospino. Facilmente ‘pungeva’, perciò non vedevi l’ora di liberarti della sua compagnia sbuffando in te stesso come una vecchia vaporiera, e quando ciò avveniva, tiravi un grossissimo sospiro di sollievo.
Certo, ricordare, con una punta di tristezza, queste cose mi riporta comunque indietro di tantissimi anni, alla mia prima gioventù, quando c’era ovviamente una bella dose di immaturità sia nel sottoscritto che nei miei coetanei, immaturità dovuta alla giovanissima età. Però, ciò nonostante, c’è una domanda che mi frulla nella testa:
Perché alcune persone, incluso qualche fratello in Cristo, sono state il bersaglio di «antipatiche battutine» di quel tipo?
Una parte di risposta/giustificazione che mi son dato, è che si trattava di gente tipo ‘porcospino’, di quelle che ti fanno sbuffare appena le vedi. Un’altra parte della risposta/giustificazione era nella mia adolescenza e si sa che spesso l’adolescenza fa vedere tante cose in un’ottica sovente esagerata e distorta.
Ma una terza parte della risposta sta nel fatto che spesso le persone, anche i credenti, non si rendono conto che con il loro modo di fare e di dire, è come se lasciassero dietro di loro una sorta di scia, e la scia che viene lasciata – e ciò vale anche per i credenti – purtroppo non sempre è piacevolmente profumata, e i ‘cattivi odori’, si sa, fanno storcere il naso…
Lasciare la scia di un “buon profumo”
Tutto ciò mi fa ricordare una ‘certa discepola’, Tabita, che – col suo modo di vivere – lasciò dietro di sé una scia stupenda, una scia che emanava
un delicato e meraviglioso profumo, di quelli che ti fanno respirare a pieni polmoni inondandoti di un profumo che potremmo definire di odor soave.
La sua storia la troviamo descritta nel libro degli Atti (9:36-42):
“A Ioppe c’era una [certa] discepola, di nome Tabita, che tradotto vuol dire «Gazzella»; ella faceva molte opere buone ed elemosine. Proprio in quei giorni si ammalò e morì. E, dopo averla lavata, la deposero in una stanza di sopra. Poiché Lidda era vicina a Ioppe, i discepoli, udito che Pietro era là, mandarono due uomini per pregarlo: «Non esitare a venire da noi». Pietro allora si alzò e partì con loro. Appena arrivato, lo condussero nella stanza di sopra; e tutte le vedove si presentarono a lui piangendo, mostrandogli tutte le tuniche e i vestiti che Gazzella faceva mentre era con loro. Ma Pietro, fatti uscire tutti, si mise in ginocchio e pregò; e, voltatosi verso il corpo, disse: «Tabita, alzati». Ella aprì gli occhi; e, visto Pietro, si mise seduta. Egli le diede la mano e la fece alzare; e, chiamati i santi e le vedove, la presentò loro in vita. Ciò fu risaputo in tutta Ioppe, e molti credettero nel Signore”.
Anche da una semplice lettura di questo testo biblico si evince subito che Tabita era molto amata, e lo era non tanto per la profondità dei suoi studi biblici che condivideva con le sorelle (magari facendo conferenze riservate a donne e a sorelle in Cristo) o perché sapeva dare con molta umiltà dei saggi consigli alle varie donne che andavano da lei per essere incoraggiate o consigliate sulle varie problematiche familiari. Non ci risulta neanche che insegnasse in una clas se nella scuola domenicale dell’epoca o qualcosa di simile. Insomma, non ci risulta che Tabita svolgesse qualcuna di queste pur importantissime e lodevolissime attività svolte oggi efficacemente alla gloria di Dio da diverse sorelle in Cristo, e che risultano in benedizione per tante donne.
Ciò nonostante, questo non vuol dire – aprioristicamente – che Tabita non svolgesse qualcuna di queste, ripeto, lodevolissime attività di servizio cristiano, ma quello che mi colpisce di più è che Tabita ha lasciato dietro di sé una scia profumata di odor soave adoperando che cosa? Un semplice ago e del filo, ago e filo per fare che cosa? Per cucire delle ordinarie “tuniche e i vestiti” da donare alle “vedove” (v. 39).
A noi oggi questo dettaglio, cioè il mettersi a cucire per della gente che non ha quasi niente da indossare, potrebbe dir poco o niente, perché siamo tanto abituati ad andare a comprare facilmente nei negozi cose già belle e fatte, ma all’epoca non c’erano quei grandissimi e numerosi centri commerciali che conosciamo oggi ove si vendono – anche per pochi soldi – tanti abiti già confezionati. Ecco perché – fra l’altro – molti di noi abbiamo gli armadi che scoppiano di vestiti, pantaloni, camice ecc. Ma al tempo di Tabita non era così. Inoltre, se la vedovanza oggi può essere dura per le donne della nostra generazione, all’epoca lo era molto di più, perché non esistevano quelle provvidenze sociali che – bene o male – vengono adottate oggi dai nostri governi a favore delle vedove e di altre categorie di persone svantaggiate.
Inoltre, a volte mi son chiesto: “Ma Tabita, che sarà stata pure un’ottima sarta, si sarà mai punta le dita mentre cuciva per gli altri?”.
Sapete, quando ci si “punge” per se stessi è un conto, ma è diverso quando ci si “punge” per gli altri e senza guadagnarci niente. In questi casi ti vien voglia di dire: “Ma chi me lo fa fare?…”. Credo però che Tabita fosse di un’altra “stoffa” e dubito molto che abbia fatto una riflessione così egoistica.
Non mi meraviglierei neanche se Tabita la stoffa per cucire tuniche e vestiti da donare alle vedove ce l’abbia rimessa lei, di tasca sua. Infatti il v. 36 dice che Tabita “faceva molte opere buone ed elemosine”.
Tabita era indubbiamente una discepola mossa dall’amore per il Signore innanzitutto e, di riflesso, per gli altri, e lo dimostrava con i fatti, in maniera semplice: tagliando, cucendo e sicuramente pungendosi anche le dita.
Evidentemente il fare (e sicuramente anche il dire) di questa discepola di Gesù avevano fatto tanto di quel bene nella vita dei suoi concittadini che – quando avvenne il miracolo operato da Dio della sua resurrezione – quel fatto “fu risaputo in tutta Ioppe, e molti credettero nel Signore” (v. 42).
Vien proprio di pensare: “Ma che potenti strumenti di salvezza possono essere un semplice ago e del modestissimo filo quando li adoperiamo per amore del Signore, per servire il Signore e – in definitiva – per la sua gloria!”.
Del resto, l’apostolo Paolo scrivendo ai Colossesi (3:17) aveva detto:
“Qualunque cosa facciate, in parole o in opere, [cucire, cucinare, predicare, ecc.] fate ogni cosa nel nome del Signore Gesù, ringraziando [per quello che stiamo facendo] Dio Padre per mezzo di lui”.