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“Poi Gesù, giunto nei dintorni di Cesarea di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «Chi dice la gente che sia il Figlio dell’uomo?». Essi risposero: «Alcuni dicono Giovanni il battista; altri, Elia; altri, Geremia o uno dei profeti». Ed egli disse loro: «E voi, chi dite che io sia?»”

(Mt 16:13-15)

 Introduzione


L’episodio di Cesarea di Filippo viene presentato dai tre vangeli sinottici (oltre al nostro testo anche in Mr 8:27-30 e Lu 9:18-22).
Marco colloca la conversazione “verso i villaggi di Cesarea di Filippo; strada facendo”, (8:27). Luca invece riporta che Gesù era in preghiera e “i discepoli erano con lui” (9:18). Matteo infine colloca l’episodio più genericamente “nei dintorni di Cesarea di Filippo” (16:13).

Matteo però è l’unico che riferisce alcuni episodi che non appaiono altrove. Il passo più importante, sul quale è sorta un’immensa produzione letteraria, riguarda l’aggiunta da lui introdotta dopo la confessione di Pietro a Cesarea:

“Tu sei beato, Simone, figlio di Giona, perché non la carne e il sangue ti hanno rivelato questo, ma il Padre mio che è nei cieli. E anch’io ti dico: tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa, e le porte dell’Ades non la potranno vincere. Io ti darò le chiavi del regno dei cieli; tutto ciò che legherai in terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai in terra sarà sciolto nei cieli”

(Mt 16:17-19).

Solo Matteo dunque riporta il brano “Tu sei Pietro…”, benché anche Marco e Luca narrino la medesima scena e Giovanni ne faccia un accenno (Gv 6:68-70). Questo è molto significativo. Tre su quattro evangelisti non riferiscono le parole che sarebbero la base di tutta la costruzione della dottrina romana sul papato. È evidente che non le avevano interpretate nel senso poi dato dalla chiesa cattolica.

Ekklesia

Analizzando una concordanza greca[1] si scopre che il termine ekklesía, nei vangeli, si trova tre volte e solo in quello di Matteo, in 16:18 nell’episodio di Cesarea, e in 18:17 (due volte) in relazione alla disciplina nella chiesa “Se rifiuta d’ascoltarli, dillo alla chiesa; e, se rifiuta d’ascoltare anche la chiesa, sia per te come il pagano e il pubblicano”. L’estrema sobrietà dei vangeli contrasta con la relativa abbondanza di comparsa del termine chiesa che si trova nelle lettere paoline, negli Atti degli Apostoli e anche nei primi tre capitoli dell’Apocalisse. Nei testi evangelici è Gesù stesso, quindi, che definisce la chiesa come la comunità di coloro che confessano la loro fede in lui come il Messia promesso e il Figlio di Dio. Fede simile a quella di Tommaso: “Signor mio e Dio mio!” (Gv 20:28).

Gesù non dice semplicemente “chiesa”, ma “la mia chiesa, quindi, è una comunità di persone che nasce e vive per sovrana iniziativa di Gesù. È necessario allora capire cosa Gesù intende per chiesa e su quale pietra viene edificata. In un prospetto generale diciamo che nei Vangeli la chiesa è istituita, negli Atti degli apostoli nasce e si espande, nelle Lettere viene edificata e nell’Apocalisse è glorificata.

Il significato di chiesa

Il termine chiesa deriva dal greco ekklesìa e significa “assemblea, riunione della popolazione”.

L’idea di un popolo “chiamato fuori” ha le sue radici nell’Antico Testamento, dove Israele è il popolo chiamato da Dio, liberato dall’Egitto per servire Dio. Il sostantivo ebraico “qu-hal” ha nell’originale il significato di assemblea convocata per volere di Dio. È Dio che dispone una “adunanza di popolo” ed è lui a prescrivere che essa è “santa” (De 23:1-8) e non è né sporadica, né casuale, ma solennemente legata alle feste giudaiche.

La “santa convocazione” assume, quindi, due caratteristiche: quella di assemblea di popolo in sé e per sé e quella di assemblea cultuale, promossa per un fine di carattere rituale e spirituale.

Ekklesìa nella cultura e nella concezione greca, designa un’assemblea eletta, sovrana, deliberante. Il termine ha quindi un significato politico e non religioso e potrebbe tradursi, secondo l’etimologia, con convocazione.

I cittadini che formano l’ekklesìa (convocazione) sono gli ekklètoi (convocati). Infatti in Atti 19 questo termine è usato per descrivere la riunione dei cittadini di Efeso: “Intanto, chi gridava una cosa, chi un’altra; infatti l’assemblea (ekklesìa) era confusa; e i più non sapevano per quale motivo si fossero riuniti (v. 32) …Se poi volete ottenere qualcos’altro, la questione si risolverà in un’assemblea (ekklesìa) regolare (v. 39)… Detto questo, sciolse l’assemblea (ekklesìa)” (v. 41). È il famoso episodio del tumulto di Efeso, dove un certo Demetrio, orefice che faceva tempietti di Diana in argento, considerata la crisi provocata dalla nuova Via (At 19:23), raduna i suoi artigiani insieme a quanti lavoravano in questo genere di oggetti, e tiene loro un convincente discorso.

Chiesa” quindi significa “riunione, assemblea, convocazione”. La radice del termine greco però ci dà un ulteriore significato.

Ekklesìa deriva da ek kalèo: “chiamare fuori, eleggere o scegliere”. La chiesa quindi è un popolo chiamato fuori dal mondo, inoltre è un’assemblea investita della piena legittimazione che le deriva dal fatto stesso di essere stata “eletta”.

Nel Nuovo Testamento assume due diversi significati:

1)  In senso universale abbraccia tutti i chiamati al servizio di Dio (Mt 16:18; Ef 5:23-25).

2)  In senso locale abbraccia solo i chiamati di una determinata località (1Co 1:2; 1Te 1:1).

L’adozione di questo termine per definire ciò che si intende per chiesa in senso teologico chiarisce alcune caratteristiche contingenti della chiesa:

  • È un’assemblea e quindi un insieme non solo logico, ma costitutivo di una realtà che ha in sé la propria ragione d’essere.
  • È un’assemblea eletta e quindi voluta e scelta da Dio attraverso Cristo. È lui infatti che la costituisce in quanto espressione attuale di Dio, eleggendola dal mondo e facendone un popolo “santo”.
  • È un’assemblea finalizzata alla sperimentazione quotidiana della propria liberazione, della propria Pasqua (Cristo) e della propria Pentecoste (carisma al servizio degli altri).
  • È un’assemblea finalizzata alla testimonianza, all’assunzione del ruolo di essere garante di una presenza attuale e reale dello Spirito Santo.

Partendo da queste considerazioni dobbiamo escludere i concetti errati di chiesa. La chiesa non è un’organizzazione clericale regolata da gerarchie, magisteri, sinodi, confessioni, dogmi o liturgie particolari e non è nemmeno un edificio adibito al culto.

La chiesa è un insieme di persone, rigenerate e salvate da Dio per mezzo di Cristo, che si radunano attorno al nome di Cristo, dal momento che questo avviene si genera la chiesa locale. Gesù è stato chiaro nel dire che: “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”
(Mt 18:20), e Stefano nella sua apologia dice che: “L’Altissimo non abita in edifici fatti da mano d’uomo” (At 7:48), riferendosi al tempio di Salomone.

È indubbio che come cristiani, in forza di queste nozioni, dobbiamo modificare il nostro linguaggio evangelico, “andare in chiesa” non rispecchia il linguaggio degli Atti degli apostoli e rivela una tradizione molto ancorata al cattolicesimo, dove chiesa è sinonimo di edificio, cattedrale. “Infine pensare che alla chiesa si va e dalla chiesa si esce, suggerisce l’idea che la chiesa sia qualcosa piuttosto che qualcuno”[2].

C’è molta discussione tra gli studiosi sul rapporto tra Israele e la Chiesa, alcuni evidenziano somiglianze considerandole un unico popolo di Dio sebbene in epoche diverse, altri ritengono Israele e la Chiesa due entità distinte, ma entrambe sono popolo di Dio. Non è scopo di questo studio entrare nel merito della discussione, ma diciamo solamente che la Chiesa non è un piano di Dio per rimpiazzare il fallimento di Israele, ma egli l’ha programmata fin dall’eternità e l’ha realizzata attraverso l’avvento, il ministero, la morte e la risurrezione di Cristo.

Quale chiesa?

Abbiamo evidenziato che Gesù non parla solo di chiesa, ma di “MIA chiesa”. Questo aggettivo possessivo aggiunto da Matteo e suggerito dallo Spirito Santo non è di poco conto. Oggi c’è molta confusione circa la natura e la funzione della chiesa. Ci sono, infatti, chiese locali che sono centrate sull’uomo, basate sul pragmatismo, legalismo, tradizioni e pratiche non bibliche. Ci sono chiese che cercano di riprodurre il modello della sinagoga e quindi la chiesa deve vivere e riscoprire la sua radice ebraica. La “mia chiesa” di Gesù non è l’assemblea dell’Antico Testamento, non è l’assemblea del popolo, non è un edificio in cui le persone si incontrano, non è l’insieme di persone che semplicemente sono interessate a Dio e non è nemmeno la sinagoga.

Il termine chiesa non è nuovo nell’Antico Testamento, infatti nella Septuaginta (traduzione greca dell’Antico Testamento) il termine ekklesia si trova più di 70 volte. Questo per dire che la chiesa non è una novità del Nuovo Testamento. Ma l’ekklesia dell’Antico Testamento non è l’ekklesia del Nuovo Testamento. Gesù non dice: “Edificherò la sinagoga” o “Edificherò la chiesa”, non avrebbe avuto senso visto che le due realtà erano già presenti nel popolo di Dio e anche nella realtà sociale del suo tempo. Ma aggiunge a “ekklesia” l’aggettivo possessivo “mia”. La “MIA chiesa” non è la sinagoga, non è l’assemblea del popolo dell’antico patto e nemmeno la riunione nella città, ma è il corpo di Cristo, questa è la novità (se così si può dire) di Cristo e riportata da Matteo nel suo vangelo.

Perciò dagli Atti in poi si sviluppa l’insegnamento di questo mistero svelato da Cristo.

La Chiesa è l’insieme dei credenti nati da Dio, salvati esclusivamente per grazia, unicamente mediante la fede nella persona e nell’opera di Cristo. La Chiesa è costituita da coloro che sono eletti da Dio secondo il disegno benevolo della sua volontà e per la sua gloria (Ef 1:4-6; Ro 8:28-30), acquistati da Dio con il proprio sangue (At 20:28; 1P 2:9). La chiesa è chiamata “corpo di Gesù Cristo” (Ef 1:23; 4:12), che è il suo capo (Ef 1:22-23; 5:23) ed inoltre la sua fonte di vitalità. Ciò implica che i credenti che appartengono alla Chiesa debbano essere membra di Cristo, ovvero resi vivi in Cristo e risorti con lui (Ef 2:5-6).

Inoltre coloro che appartengono al corpo di Cristo sono battezzati in un unico Spirito: “per formare un unico corpo, Giudei e Greci, schiavi e liberi; e tutti siamo stati abbeverati di un solo Spirito” (1Co 12:13) e sono quindi identificati dalla presenza in loro dello Spirito Santo (Ro 8:9-11). Con l’istituzione della “mia chiesa” cessa ogni diatriba tra Giudei e Greci, chiunque vuole far parte del corpo di Cristo deve abbandonare il suo vecchio modello di essere chiesa ed entrare nel nuovo mistero “spirituale” proposto da Gesù.

E voi chi dite che io sia?

Dopo le parabole del regno, la moltiplicazione dei pani e la confutazione dei farisei, Gesù giunge a Cesarea di Filippo. Aveva già messo in guardia i suoi discepoli dal “lievito dei farisei”, cioè dalla loro mentalità e dottrina, e per essere sicuro che i suoi discepoli fossero lontani da questo influsso nefasto, li porta in territorio pagano. Essi hanno appena terminato un periodo di circa tre anni nella compagnia intima con Gesù. Ormai avranno certo maturato un’opinione in merito alla sua vera identità, essi saranno i futuri missionari, ma Gesù sa bene che i discepoli non possono concepire la croce incombente, sa quanto sia difficile per loro accettarla.

Perciò vuole prima sondare il loro impegno verso di lui, in modo che essi rivelino fino a che punto sono disposti a identificarlo come il Messia e Figlio di Dio. Quale procedura seguire? Domandò ai suoi discepoli: “Chi dice la gente che sia il Figlio dell’uomo?”. Una domanda provocatoria, perché credo che a Gesù non interessasse tanto il giudizio della gente quanto quello dei suoi discepoli.

Il giudizio della gente è sommario e riduttivo come si addice a delle persone distaccate e non interessate pienamente. È facile rispondere a Gesù quando chiede cosa gli altri pensano di lui: “Alcuni dicono Giovanni il battista; altri, Elia; altri, Geremia o uno dei profeti” (Mt 16:14). I discepoli citano solo opinioni buone, ma ce n’erano altre non buone come “bestemmiatore” (Mt 9:3), “Belzebù” (Mt 10:25), “mangione e beone” (Mt 11:19). I compaesani a Nazaret lo svalutavano considerandolo né più né meno come il “figlio del falegname” (Mt 13:55) e si “scandalizzavano di lui” (Mt 13:57), anche se non riuscivano a spiegarsi da dove gli venissero “tanta sapienza e opere potenti” (Mt 13:54) Per i familiari addirittura era “fuori di sé” (Mr 3:21).

Le speculazioni, passate in rivista dai dodici, rispecchiavano assai vividamente la confusione regnante in Galilea durante questo periodo. Non era una domanda personale, ma di gruppo, quindi c’era una confusione totale. Non dimentichiamo che Gesù aveva mandato i discepoli a predicare (Mr 3:15), essi poco hanno capito, peggio hanno predicato e fatto una grande confusione. Le risposte confuse che adesso loro danno a Gesù hanno la loro responsabilità nella predicazione confusa e quindi quello che viene fuori è una serie di accostamenti di personaggi biblici.

Una cosa è certa, sebbene ci fosse qualcosa in Gesù che richiamasse le qualità di ciascuno dei profeti menzionati, tuttavia c’era qualcosa nella gente stessa che bloccava la sua comprensione perché non potesse andare oltre. Le opinioni elencate sono nobili e riguardose. Eppure, per quanto rispettosa ognuna di queste teorie, dire qualsiasi cosa di Gesù che non confessa la sua vera identità come Figlio di Dio, il Messia, significa disonorarlo e non dargli la posizione che si merita.

È per questo che formulando la domanda, Gesù spinge i suoi discepoli ad affrontare dure realtà, il giudizio pronunciato da altri su Gesù non deve avere alcuna influenza sulla decisione dei discepoli. La loro scelta sarà strettamente e forse anche dolorosamente personale. Non ci si può fidare dell’opinione pubblica già divisa, per dare una risposa univoca su questa questione vitale. Perciò invita i discepoli a confessare la loro idea personale: “E voi, chi dite che io sia?” (Mt 16:15). Avendo dato spazio ai discepoli per pesare alternative e formare una conclusione matura, indirizza loro la domanda cruciale.

Sebbene tutte le altre confessioni precedenti fossero la reazione spontanea di qualche discepolo colpito da qualche evidenza della grandezza o potenza di Gesù, è arrivato per loro il solenne momento di dare risposta ad una domanda che Gesù non ha mai fatto prima. Ma è una domanda verso la cui risposta sono state dirette tutte le sue attività.

È evidente in Gesù l’intenzione di avere non una risposta descrittiva (“Tu sei”) ma esperienziale (“Tu per me sei”). Diventa quindi una domanda che non finisce mai di essere riproposta, considerando spesso le nostre scelte di vita e il comportamento, non si può mai dire che finalmente Gesù Cristo sia tutta l’esperienza che ci prende la vita. I discepoli sono stati uomini che hanno avuto l’opportunità di conoscerlo perché sono stati i suoi compagni più intimi per molto tempo. Hanno mangiato, dormito e servito con lui. A causa del loro attaccamento a lui come Mae-
stro itinerante, hanno dovuto sacrificare famiglia, casa e affari per essere i suoi discepoli.

Saranno in grado di dare la giusta risposta?

Noi che abbiamo conosciuto Gesù da molto tempo siamo in grado di dare la giusta risposta e non convenzionale?

Per una risposta vera, infatti, bisogna prendere le distanze da ogni “ragnatela” di ipocrisia e porsi in luce di sincerità. Solo chi ha definito per se stesso la propria esperienza di Cristo in termini di una convinzione chiara e intelligente, sarà in grado di proclamarla con coraggio ed entusiasmo.    

[1] W.F. Moulton – A.S. Geden – H.K. Moulton, Concordance to the Greek Testament, 5a edizione, T. & T. Clark Ltd, Edimburgo 1978, pp. 316-317.

[2] Paolo Moretti, Il Cristiano n. 2/febbraio 1986.

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