A chi non è capitato di dover affrontare prove e difficoltà nella propria vita? Non sto pensando a quelle provocate dalle nostre cadute, dalla nostra disubbidienza, a quelle cioè che in qualche modo noi stessi siamo andati a cercare, ma a quelle che ci capitano fra capo e collo a volte inaspettatamente e in modo del tutto indipendente dalla nostra volontà.
L’autore della lettera agli Ebrei ha sviluppato una serie di riflessioni con lo scopo di mettere in evidenza la relazione che esiste fra la sofferenza e l’essere figli di Dio. Egli parte da una realtà di fatto: Dio in Cristo è diventato nostro Padre e, se davvero lo riconosciamo come tale, dobbiamo anche riconoscergli il diritto-dovere di disciplinarci. Non dobbiamo pensare alla disciplina soltanto nella prospettiva del castigo, ma anche in quella dell’insegnamento, della formazione, dell’istruzione e dell’avvertimento, anche se nelle parole che leggiamo l’autore, citando il testo di Proverbi 3:11-12, fa esplicito riferimento alla riprensione, alla correzione ed alla punizione, sostenendo anche che l’eventuale assenza di questi interventi da parte di Dio ci configurerebbero come “bastardi” e non come “figli” (Eb 12:8): “Essi (i genitori) ci correggevano per pochi giorni come sembrava loro opportuno; ma egli (Dio) lo fa per il nostro bene, affinché siamo partecipi della sua santità” (Ebrei 12:10).
Sta a noi comprendere, in modo assolutamente personale, quando le prove che irrompono nella nostra vita sono permesse da Dio con l’obiettivo di correggerci. Così come sta a noi comprendere quando esse hanno valore istruttivo e formativo per la nostra fede. In ogni modo deve rimanere fermo e ben presente nella nostra mente la causa di questo intervento divino: “Il Signore corregge quelli che egli ama”. È l’amore di Dio che dobbiamo vedere e del quale dobbiamo essere certi anche nei momenti di difficoltà e nell’intima realtà della nostra relazione con lui dobbiamo ricordare che egli corregge tutti coloro che riconosce come figli.
Le “punizioni” di Dio quindi, ben diversamente da quello che possiamo supporre e pensare, sono frutto del suo amore per noi e della realtà del suo rapporto di Padre nei nostri confronti.
Questi interventi divini nella nostra vita che indubbiamente, come lo stesso autore della lettera obiettivamente riconosce, possono “sul momento” non recarci “gioia, ma tristezza” (v. 11), hanno anche due obiettivi per la nostra vita. Oltre a produrre “un frutto di pace e di giustizia” le correzioni divine hanno infatti lo scopo di renderci “partecipi della sua santità”. La partecipazione alla santità di Dio è l’obiettivo dichiarato dei suoi interventi correttivi nella nostra vita. È evidente allora che attraverso le prove che Dio permette nella nostra vita egli desidera separarci dal peccato per unirci sempre più e sempre più intimamente a lui, per rafforzare la nostra relazione di figli.
La partecipazione alla sua santità, quindi la nostra santificazione, dipende anche dal modo in cui affrontiamo e viviamo “le svariate prove” della vita. In questo l’autore della lettera agli Ebrei è in piena sintonia con Giacomo il quale ricorda che proprio attraverso le prove possiamo diventare “perfetti, completi, di nulla mancanti” (Gm 1:3). Le prove possono essere considerate “una grande gioia” (Gm 1:2) soltanto se comprendiamo che esse sono manifestazioni della Grazia di Dio che vuole renderci sempre più simili a Cristo. Ogni pianta ha bisogno di essere potata: per crescere armoniosamente, per produrre maggior frutto e per eliminare rami ed escrescenze inutili. La potatura è un’azione dolorosa per la pianta, ma utile e necessaria per la sua vitalità. Le prove della nostra vita sono come una potatura da parte di Dio. I suoi tagli possono farci soffrire, possono farci sanguinare ma, se li accogliamo con riconoscenza e con gioia guardando all’obiettivo divino, la nostra vita crescerà più armoniosa, porterà maggior frutto e si libererà di inutili pesi e zavorre che rendono fiacca la sua vitalità.