Introduzione
In tanti seguirono Gesù: i vangeli parlano di folle che lo videro fare dei miracoli, che ascoltarono le sue parole pronunciate con inusuale autorità, che conobbero la sua bontà e il suo senso di giustizia (una giustizia sempre immersa nella misericordia). In tanti lo seguirono. In tanti usufruirono del suo potere miracoloso. In tanti lo esaltarono come il Re-Messia atteso. Ma nei momenti cruciali furono ben pochi al suo fianco, persino i suoi stretti collaboratori si addormentarono mentre, nell’agonia del Getsemani, sudava sangue, si erano nascosti quando fu arrestato, processato, flagellato e crocifisso (solo poche donne e il più giovane dei discepoli, Giovanni, erano con Lui sul Golgota).
Fra i tanti discepoli c’era un gruppetto che, nonostante la loro fragilità, erano veri discepoli, ma una grossa parte erano “discepoli della pagnotta”. Prenderemo in esame un episodio della vita di Gesù nel quale troviamo la presenza di questi “discepoli”.
“Dopo queste cose Gesù se ne andò all’altra riva del mare di Galilea, cioè il mare di Tiberiade. Una gran folla lo seguiva, perché vedeva i miracoli che egli faceva sugli infermi. Ma Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Or la Pasqua, la festa dei Giudei, era vicina. Gesù dunque, alzati gli occhi e vedendo che una gran folla veniva verso di lui, disse a Filippo: «Dove compreremo del pane perché questa gente abbia da mangiare?» Diceva così per metterlo alla prova; perché sapeva bene quello che stava per fare. Filippo gli rispose: «Duecento denari di pani non bastano perché ciascuno ne riceva un pezzetto». Uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro, gli disse: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cosa sono per tanta gente?». Gesù disse: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. La gente dunque si sedette, ed erano circa cinquemila uomini. Gesù, quindi, prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì alla gente seduta; lo stesso fece dei pesci, quanti ne vollero. Quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché niente si perda». Essi quindi li raccolsero e riempirono dodici ceste di pezzi che di quei cinque pani d’orzo erano avanzati a quelli che avevano mangiato. La gente dunque, avendo visto il miracolo che Gesù aveva fatto, disse: «Questi è certo il profeta che deve venire nel mondo». Gesù, quindi, sapendo che stavano per venire a rapirlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, tutto solo”.
(Giovanni 6:1-15)
Questo capitolo del vangelo di Giovanni è lungo (71 versetti) e ricco di preziosi insegnamenti non sempre facili da capire e da spiegare. In esso troviamo due miracoli: la moltiplicazione dei pani e Gesù che cammina sul mare.
Il secondo miracolo è raccontato in modo molto sintetico, sembra solo per riportare la sequenza dei fatti; gli altri evangelisti che lo ricordano, Matteo e Marco, lo trattano più dettagliatamente. Ciò che interessa a Giovanni è il primo miracolo, perché ad esso è associato un lungo insegnamento (sembra che il miracolo sia stato fatto in vista del discorso a esso collegato). Ricordo che Giovanni dichiara apertamente di aver fatto una scelta nel raccontare i fatti riguardanti Gesù e questa sua scelta ha una precisa motivazione: presentare Gesù quale Figlio di Dio.
A questo miracolo è associato il primo dei sette “Io sono”:
- Il pane della vita (moltiplicazione dei pani).
- La luce del mondo (guarigione del cieco).
- Il buon pastore (metafora).
- La porta dell’ovile (metafora).
- La risurrezione e la vita (risurrezione di Lazzaro).
- La via la verità e la vita (discorso con Filippo).
- La vite (metafora).
L’«Io sono» legato al numero sette è altamente significativo. «Io sono» ricorda l’ineffabile nome del Padre, e il numero sette ricorda la totalità. Questo basterebbe per arrivare alla conclusione circa la natura divina del Cristo. Il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci è l’unico miracolo – oltre la risurrezione di Gesù – a essere ricordato da tutti gli evangelisti.
Il miracolo
Nei confronti della società in cui siamo chiamati a testimoniare di Cristo, abbiamo ben poche possibilità. Dobbiamo perciò imparare l’arte di moltiplicare queste nostre risorse. Come? L’episodio della moltiplicazione dei pani può darci dei suggerimenti preziosi.
L’occasione per il miracolo, e per il meraviglioso messaggio di Gesù che segue, è una motivazione molto umana (v. 2). Potremmo chiederci: come può una motivazione, che non rientra nella categoria delle cose “spirituali”, dare l’occasione per un miracolo? Quando questo accade la grazia di Dio risponde positivamente per aiutare a capire. Infatti dopo il miracolo c’è uno dei più lunghi sermoni di Gesù sulla sua natura. Il miracolo ha anche una funzione propedeutica: introduce un tema che esso, in qualche modo, evoca e prepara le persone all’ascolto. Non dobbiamo perciò aspettare di essere perfetti per vedere Cristo all’opera, per veder moltiplicare le nostre poche risorse. Questo è il primo dato che dobbiamo tener presente.
Una domanda coinvolgente
Gesù vede il bisogno delle persone e sa anche come risolvere il problema; ma fa una domanda a un suo discepolo. Perché? La risposta, anche se da leggere tra le righe, è ovvia: Gesù desidera coinvolgere nella sua opera anche i suoi. Gesù conosceva bene la situazione finanziaria in cui versava il gruppo, ma non chiede se c’è il denaro occorrente, ma solo dove comprare il pane.
La Bibbia è piena di domande che Dio rivolge all’uomo: “Adamo, dove sei?”; ad Isaia “Chi manderò, chi andrà per noi?” ecc. Colui che sa tutto, domanda! Domande che stanano, che coinvolgono, che fanno pensare. Qualcuno ha detto che noi iniziamo con l’interrogare la Scrittura e finiamo con l’essere interrogati da essa. Se non siamo più in grado di vedere le domande che Dio ci rivolge, qualcosa deve essere cambiato in noi. Una chiesa che non sente più le domande che il suo Signore le rivolge, è una chiesa malata.
Due risposte diverse
Alla domanda di Gesù troviamo due risposte: una di Filippo e l’altra di Andrea.
La risposta di Filippo: “Non abbiamo soldi” che significa in sostanza “Anche se avessimo duecento denari (una bella somma: sono l’equivalente di duecento giorni lavorativi!) non basterebbero a risolvere veramente il nostro problema. Ognuno dei presenti potrebbe ricevere solo un pezzetto di pane”. Filippo è il pragmatico realista: con i piedi ben piantati in terra risponde in maniera sicura e categorica. Non abbiamo le possibilità di rispondere alle esigenze del momento! Egli è una persona abituata alla concretezza. Ma ha un grosso limite: non sa guardare di là dalle apparenze. Infatti non si chiede il motivo della domanda di Gesù, non cerca di sondare il pensiero del Maestro; si ferma a ciò che vede intorno a sé. Egli lascia cadere la domanda di Gesù come inutile, superflua. Sicuramente sottovaluta Gesù. Anche questa è una tentazione: sottovalutare le effettive possibilità del nostro Signore; in teoria diciamo che il Signore può tutto (e mettiamo una certa enfasi nel dire questo), ma in pratica spesso viviamo appoggiandoci unicamente sulle nostre forze, sulle nostre capacità e risorse.
La risposta di Andrea: “Abbiamo qualcosa (5 pani e 2 pesci), ma cosa sono per così tanta gente?” come a dire: “Qualcosa abbiamo, ma è assolutamente insufficiente; le nostre risorse sono bene lontane dalle necessità”.
Due grosse differenze tra le risposte di Filippo e Andrea:
- Filippo parte da ciò che occorre avere ma che non si ha.
- Andrea parte da ciò che si ha, anche se lo ritiene insufficiente.
Filippo è categorico nella sua risposta e non lascia a Gesù nessuna possibilità.
Andrea, con la sua domanda, lascia spazio al Maestro. Egli risponde a Gesù, ma gli pone un altro interrogativo, lasciando spazio perciò a un ulteriore dialogo. Lui vuole approfondire la questione; forse intravede in Gesù la possibilità di una risposta. In qualche modo Andrea rischia il ridicolo, si espone all’ironia degli altri: cinque pani per 5000 persone… Andrea, taci che è meglio! Questa è l’ingenuità, la follia che piace al Maestro.
Quel pizzico di follia che spinge Abramo a lasciare Ur, che “costringe” Mosè a lasciare la corte di Faraone con tutti suoi fasti: per che cosa? (vedi Eb 11:24-27), che fece decidere Saulo di passare dalla parte di coloro che prima perseguitava. Senza questa “follia” non ci sarebbe stata la storia delle missioni, i vari Hudson Taylor, William Carey, ecc. e la Chiesa avrebbe concluso la sua storia da tempo. Anche a livello locale occorre qualcuno “pazzo” per Cristo per portare avanti il programma divino.
La risposta di Gesù non tarda ad arrivare, ed è un miracolo. La mia curiosità, però, mi porta a fare un’altra domanda: “Perché Gesù non ha fatto apparire i duecento o più denari che servivano?”. Nel caso del denaro che serviva per pagare le tasse lo ha fatto.
Gesù vuole coinvolgerci nella sua opera e ci chiede di portare a lui quel poco che abbiamo; questo sarà moltiplicato dalla sua grazia. Cinque pani e due pesci… Ognuno di noi li ha e a ognuno di noi Dio li chiede. Egli, per la sua opera, vuol partire da quel poco che abbiamo per moltiplicarlo.
Noi siamo chiamati “collaboratori di Dio” (2Co 5:14-21). Dio vuole coinvolgere ciascuno di noi nella sua opera. Potrebbe fare tutto da solo? Sicuramente! Non dimentichiamo che egli è capace di far parlare anche asini e pietre… Ma il suo amore per noi lo ha portato a coinvolgerci: noi pasticcioni, noi con le nostre lacune e deficienze, con i nostri scoraggiamenti e con i nostri piagnistei, con le nostre ansie e le nostre paure, noi con i nostri limiti e con i nostri sogni e speranze. Come un padre che, per far felice i suoi figli piccoli, li coinvolge nel dipingere la casa.
Il risultato? È duplice: la gente viene sfamata e si avanza del pane. Perché questa abbondanza? Gesù si è forse sbagliato nel fare i conti o ha voluto strafare? Cosa si nasconde dietro a questo pane avanzato? Perché proprio dodici ceste? Perché ordina di raccoglierlo? In tre passi della Bibbia (Ef 3:20; Gv 10:10; Cl 2:9,10) è indicato che Dio vuole portarci da una situazione d’indigenza a una situazione di abbondanza.
Dio è capace di moltiplicare le nostre poche risorse e desidera coinvolgerci in questa sua opera. Ma vuole la nostra risposta, vuole il nostro coinvolgimento.
Il discorso di Gesù
Da sottolineare la parte finale del lungo discorso di Gesù pronunciato dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani (Gv 6:67): “Non ve ne volete andare anche voi?”.
La domanda è scaturita dal fatto che, dopo il discorso di Gesù, molti se ne sono andati (v. 66). Ma perché se ne sono andati? Perché considerarono duro il discorso di Gesù? Questa loro reazione è legata soltanto alla difficoltà di comprendere il senso del discorso? In questo caso avrebbero dovuto dire “è troppo difficile”. Perché allora duro?
Andiamo per gradi e lasciamo le domande in sospeso.
Nel libro del Levitico è più volte ripetuto il comandamento di non mangiare la carne con il sangue (tanto meno bere il sangue), perché il sangue era visto come la sede della vita e il sangue versato era simbolo di espiazione. Perché Gesù usa un linguaggio così ripugnante per i suoi ascoltatori? Voleva suscitare questa reazione da parte loro? Perché, per un tema così importante (si sta parlando di vita eterna) usa una metafora? La risposta la troviamo in questi passi di questo capitolo (2, 14, 26). Seguire Gesù per il proprio tornaconto non è una cosa rara (c’erano anche al tempo di Paolo:
“… persone corrotte di mente e prive della verità le quali considerano la pietà come fonte di guadagno”, 1Ti 6:5)).
Certo, nessuno di noi segue Gesù per la pagnotta, o per aumentare il conto in banca. Ma proviamo a pensare a questo: togliamo dalla nostra esperienza cristiana tutti i benefici che essa comporta, seguiremo ancora Gesù? Saremo al suo servizio? Lo adoreremo ancora? Quanto pesano i benefici che riceviamo, che così spesso evidenziamo, nel nostro rapporto con Dio? Se seguirlo equivalesse a un’esperienza di “lacrime sudore e sangue”, lo seguiremmo ancora? Certo, abbiamo un bisogno estremo di lui, del suo amore, della sua grazia, della sua protezione, del suo aiuto, ma che posto occupa tutto questo nella scala delle priorità? Nella nostra adorazione diciamo: “Ti adoriamo, perché tu ne sei degno”, ma siamo certi che non lo adoriamo (che non lo facciamo re, Gv 6:15) perché soddisfa ai nostri bisogni? Quando non risponde alle nostre preghiere, nel modo da noi desiderato, lo adoriamo ancora?
Gesù si nasconde da chi lo cerca per questo motivo; Gesù si nasconde da una Chiesa che lo serve per il proprio vanto e gloria; Gesù si nasconde da chi considera Dio, il Signore, una specie di mago della lampada sempre pronto a soddisfare i propri bisogni e capricci.
C’è qualcuno che è in crisi perché è deluso di Gesù? Sì, è possibile essere delusi da Gesù (anche se non lo diciamo apertamente) e la delusione nasce dal fatto che cercavamo da lui del “pane”. Gesù si è nascosto, non lo sentiamo più vicino come un tempo, non sentiamo vibrare le corde del nostro cuore quando ascoltiamo la sua Parola… Gesù si è nascosto per chiederci se abbiamo ancora voglia e forza di cercarlo (v. 27). Forse cercavamo quello che lui poteva donarci, lui ci risponde: “Non cercate ciò che io posso darvi, cercate me”.
Il discorso che segue, che risulta duro alla stragrande maggioranza delle persone, indica una strada diversa che non è quella del tornaconto personale, ma quella del servizio.
Nota: Mangiare la “carne e il sangue del Figlio dell’uomo”, cosa significa?
Prima di tutto diciamo cosa non significa. I teologi cattolici prendono questo passo per avvalorare la tesi della transustanziazione (così chiamano quell’evento che renderebbe l’ostia vero corpo e vero sangue di Cristo). Gesù – è vero – parla di mangiare il suo corpo e bere il suo sangue. Ma Gesù in questo passo parla di sé in maniera simbolica, spirituale, non dell’eucarestia; non c’è nulla in questo passo che faccia riferimento alla Cena del Signore. Sono da sottolineare queste frasi:
- Gesù “è un pane disceso dal cielo” (vv. 33-35, 38, 50).
- Gesù “è un pane vivente” (v. 51).
- “… è lo Spirito che vivifica; la carne non è di alcuna utilità” (63).
È evidente che la “carne non è di alcuna utilità”; quindi il suo discorso va inteso in senso spirituale. La Cena è un simbolo per ricordare e proclamare la morte di Cristo, il discorso di Gesù è una metafora di se stesso.
In che modo possiamo “mangiare Cristo”?
Vorrei collegare due passi (vv. 38 con 4:31-34): mangiare Cristo, fare la sua volontà. Assimilando la sua Parola (quante volte la sua parola è paragonata al cibo!) noi mangiamo la sua “carne”. Ma assimilare non significa solo imparare, anzi la Scrittura non contempla neanche la possibilità di imparare senza operare; si assimila la Parola quando la facciamo nostra tramite l’esperienza. La predicazione e l’insegnamento della Parola equivale ad imbandire la tavola, non a mangiare.
Le persone che prima avevano detto: “Dacci questo pane” (v. 34) ora se ne vanno: se ne vanno perché Gesù aveva pronto un pane che non interessava loro: se stesso.
Che il “pane disceso dal cielo” sia Gesù è evidente: 35 volte, in questo brano troviamo il pronome io o me. Gesù parla di sé e offre se stesso. Mangiarlo significa identificarsi con la sua esperienza, che è di umiliazione, sofferenza, servizio e morte: tutto nella prospettiva della risurrezione (Fl 3:8-14).
“A chi ce ne andremmo noi…?”. Vorrei ricordare a questo punto, la gelosia di Dio, che è anche quella di Cristo e dello Spirito Santo: Dio non ama condividere la sua gloria e signoria con nessun altro. Noi non possiamo porre sul trono dei nostri pensieri e sentimenti nessun altro vicino a Dio. Se lo facciamo Gesù si nasconde, si mette in un angolino e… aspetta.
“Tu solo ha parole di vita eterna”: le sue parole sono cibo che nutrono l’anima e che durano in eterno.