Introduzione
Luca ha stabilito la transizione fra il tempo di Gesù e il tempo della Chiesa.
Le apparizioni del Risorto sono terminate con l’ascensione, a Gerusalemme si è riunito il primo nucleo comunitario, tutto è pronto per la discesa dello Spirito Santo.
L’insegnamento di Luca riguardo allo Spirito è molto semplice: non è solamente una forza attiva, ma soprattutto una persona che agisce e prende in possesso delle comunità.
Egli è il regista di tutti gli eventi che si susseguono: lo Spirito investe i discepoli dando pienezza (At 2:4), dona potenza di parola (At 2:14-36), convince di peccato (At 2:37), rivela le menzogne (At 5:3), guida i servitori (At 8:29), sceglie i missionari (At 13:2), manda in missione (At 13:4), vieta di predicare in alcuni luoghi (At 16:6), costituisce gli anziani-vescovi delle chiese locali (At 20:28), prepara la testimonianza di Paolo davanti ai pagani (At 21:11).
Paolo argomenta l’azione dello Spirito con la crisi carismatica di Corinto (1Co 12-13), mentre Giovanni esplicita in forma discorsiva il rapporto che lo lega al Paracleto (Gv 14:15-26).
Luca invece non discute dello Spirito, ma racconta. Non espone alcuna dottrina dello Spirito, lo mostra all’opera ed è ricorso all’unico mezzo a disposizione di un narratore che voglia tratteggiare un ruolo: fa dello Spirito Santo un personaggio del suo racconto, allo stesso titolo di Paolo, Pietro, Stefano…, anche se gli accorda un posto eminente.
La presenza dello Spirito è imponente nel dittico di Luca Vangelo-Atti, 106 ricorrenze di pneuma per i 52 capitoli dell’opera rivolta a Teofilo, di cui 70 negli Atti. E l’insegnamento è abbastanza chiaro: Lo Spirito non raggiunge che i credenti e agisce nella e per la comunità, almeno per il momento.
Una comunità in attesa
“Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori” (Sl 127:1).
Nessuno può ignorare che la Chiesa non nasce dall’uomo, ma dal soffio di Dio, perciò troviamo i discepoli, alcune donne e Maria con i suoi figli, nella sala di sopra (At 1:13-14), in ubbidienza alle parole di Gesù di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere la realizzazione della promessa del Padre che avevano udita da lui (At 1:4). La comunità, invece di prendere l’iniziativa, di organizzarsi e di avventurarsi nel mondo con le bandiere al vento, si è ritirata ad aspettare e pregare. La prossima mossa tocca a Dio: al Cristo risorto mantenere la sua promessa di concedere lo Spirito e di ristabilire il regno a Israele. In un certo senso la preghiera è appunto questo: “l’audace, quasi arrogante sforzo della comunità di costringere Dio a mantenere le sue promesse”. Nel pregare:
“Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà” (Mt 6:10)
noi chiediamo che Dio sia coerente con se stesso e ci dia ciò che è stato promesso.
Così la preghiera è il coraggio nato dalla fiducia nella fedeltà di Dio alle promesse che egli stesso fa, fiducia che egli sarà fedele a se stesso. Ciò che può sembrare un’insolente preghiera da parte della Chiesa, che chiede di ricevere lo Spirito, il regno, la potenza e la restaurazione, è in realtà la più profonda umiltà: significa, infatti, che la Chiesa si rende conto umilmente che soltanto Dio può darle ciò di cui ha disperatamente bisogno.
Narrando la storia di Cristo, Luca, più di ogni altro Vangelo, dedica molta attenzione ai particolari della nascita di Gesù, questo perché ci sarà molta affinità con la discesa dello Spirito. Un paragone tra la nascita di Gesù in Luca e quella della Chiesa negli Atti mostra infatti dei parallelismi avvincenti: Lo Spirito scende su Maria (Lu 1:35) e sulla Chiesa (At 2:3-4), Giovanni Battista sarà pieno di Spirito Santo (Lu 1:15), lo stesso sarà per la prima comunità (At 2:4), Zaccaria sarà muto fino al compimento della promessa (Lu 1:20), la Chiesa sarà in attesa senza parlare fino al compimento della promessa (At 2:4), Zaccaria pieno di Spirito Santo profetizzò (Lu 1:67), la Chiesa piena di Spirito Santo parla in lingue, come lo Spirito dava di esprimersi (At 2:4).
Solitamente ci si riferisce alla Pentecoste come al giorno della nascita della Chiesa e in ciò vi è molta verità. Ma è assai più esatto parlare di Pasqua anziché di Pentecoste, come giorno della nascita. Quando colloca l’irruzione dello Spirito all’inizio della storia della Chiesa, Luca ripropone una convinzione comune a tutto il cristianesimo primitivo: l’effusione dello Spirito fu una realtà post-pasquale, essa non è il risultato del Cristo terreno, ma del Cristo innalzato (Mt 28:19s; Gv 15:26; 16:7; 20:22; Ga 4:6; 2Co 3:17). Infatti la Pasqua e l’elevazione di Gesù instaurano un cambiamento. La storia passa sotto il regime dell’assenza di Gesù (At 1:11) e lo Spirito viene sui credenti. Come dice Pietro che commenta per il popolo di Gerusalemme l’evento della Pentecoste:
“Egli dunque, essendo stato esaltato dalla destra di Dio e avendo ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, ha sparso quello che ora vedete e udite” (At 2:33).
La storia di Pentecoste deve essere letta nel contesto di Luca 24: il Signore risorto fu “da loro riconosciuto nello spezzare il pane” (v. 35); egli “ci spiegava le Scritture” (v. 32), e promise di dar loro lo stesso potere che lo aveva mosso, dicendo loro “ma voi rimanete in questa città, finché siate rivestiti di potenza dall’alto” (v. 49). Luca dunque fa sua la convinzione dei primi cristiani: Cristo è il mediatore dello Spirito. Ma egli attribuisce allo Spirito una funzione precisa:
“Ma riceverete potenza quando lo Spirito Santo verrà su di voi, e mi sarete testimoni in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all’estremità della terra” (At 1:8).
Lo Spirito darà potenza e abiliterà i discepoli ad essere testimoni di Gesù, da Gerusalemme fino ai confini del mondo.
Ed erano insieme
“Quando il giorno della Pentecoste giunse, tutti erano insieme nello stesso luogo” (At 2:1).
Si tratta del cinquantesimo giorno a partire dall’indomani del sabato di Pasqua (Le 23:15-16). Luca ha voluto datare l’avvenimento e specificare i destinatari della promessa. La costruzione della frase nel testo originale appare con la preposizione “Nel” seguita da un verbo infinito: “completarsi il giorno della Pentecoste”. L’uso della stessa formula si trova nel suo vangelo: “Nel completarsi il giorno della sua ascensione” (Lu 9:51), e notifica la fine di un’attesa e l’inizio di un nuovo periodo. L’attesa di cui parla è stata più volte ripetuta: è la promessa di ricevere una potenza dall’alto.
L’avvento dello Spirito viene a coincidere con la festa giudaica di Pentecoste che già esisteva, chiamata “Festa delle sette settimane” (Le 23:15-16) o “Festa della mietitura” (Es 23:16; 34:22; De 16:10), perché concludeva il tempo del raccolto. Aveva assunto il nome di Pentecoste in relazione al cinquantesimo giorno dalla Pasqua. La Pentecoste era una festa più modesta rispetto alla Pasqua e alla festa delle Capanne, ma riuniva, secondo Filone e Flavio Giuseppe, un gran numero di pellegrini a Gerusalemme, provenienti sia dalle campagne palestinesi sia dalla diaspora.[1]
Ma che rapporto c’è fra il significato teologico della Pentecoste e la venuta dello Spirito? Dal fatto che questa festa venisse celebrata fin dal primo giudaismo il 50° giorno dopo la Pasqua quale sua conclusione solenne, Luca può aver tratto l’idea di presentare l’evento della discesa dello Spirito anche come l’inizio della testimonianza universale dei discepoli, quando alla Chiesa fu donato il primo raccolto: “circa tremila persone” (At 2:41). La presentazione della discesa dello Spirito come inizio storico-salvifico era tanto più plausibile per Luca, poiché già ai suoi tempi la festa giudaica di Pentecoste veniva celebrata anche come solennità che commemorava la promulgazione della legge sul Sinai. Non fu perciò casualmente che il momento inaugurale della Chiesa universale, come popolo di Dio nella nuova alleanza, abbia coinciso con questa festività.
Il luogo degli avvenimenti non viene indicato o descritto con precisione, e questo concorda con il modo in cui Luca apre il suo racconto. Il lettore viene a sapere solo nel v. 2 che la scena si svolge in una casa, può essere la casa dove, nella stanza superiore, si tratteneva la comunità dei discepoli (At 1:13). Luca non dà informazioni precise e si limita a dire che erano nello stesso luogo. Gli avvenimenti di Pentecoste sono così fin dall’inizio un evento legato alla comunità. Essi riguardano in particolare la comunità dei discepoli di Gesù, i quali non si trattengono esteriormente nello stesso luogo, ma formano anche un tutt’uno.
Lo stesso vale per l’indicazione delle persone, Luca dice semplicemente che tutti erano nello stesso luogo (Lett: sulla stessa cosa). Questa espressione greca ha un sapore biblico, la sua traduzione varia fra il significato locale come qui (nello stesso luogo) e il significato sociale (erano insieme). La Settanta traduce l’ebraico yahad con “insieme” (Sl 2:2) che è l’avverbio della vita comunitaria.
Ma chi sono questi tutti? Atti 1:13-14 ci dà una mano per capire chi sono: gli apostoli, le donne, Maria, i fratelli di Gesù e forse altre persone. Alcuni ritengono che questo “tutti” comprenda anche le centoventi persone che presero poi parte alla elezione di Mattia (At 1:15), forse, ma una cosa è certa: la comunità non è fatta di soli apostoli anche se Luca pone l’accento sul loro ruolo di guida, li mostra come il nucleo di una comunità più ampia.
A Luca non sta a cuore il luogo, ma il motivo per cui tutti erano insieme: l’attesa dell’adempimento della promessa. Questo è lo stile di vita di una vera comunità del Signore: prega aspettando, aspetta pregando: “Erano tutti perseveranti e concordi nella preghiera”. L’unanimità dei primi cristiani è molto cara a Luca che la sottolinea nei primi capitoli (At 1:14; 2:44-46; 4:24,32; 5:12). Ognuno non pregava per se stesso. Tutti pregavano con un cuore solo ed un’anima sola. La perseveranza e la concordia sono l’essenza, la verità della preghiera e sono molto raccomandate da Cristo Gesù nel Vangelo.
La promessa realizzata
La venuta dello Spirito si presenta dunque come il portare a termine un lungo tempo di attesa e insieme come il punto di partenza di un tempo nuovo. Si viene così ad inaugurare l’ultima fase della storia della salvezza, quella della signoria di Cristo esercitata per mezzo dello Spirito. Prima dell’ascensione Gesù aveva detto che il battesimo in Spirito Santo sarebbe avvenuto fra non molti giorni (At 1:5), quel giorno finalmente è giunto.
Il nuovo giorno comincia con un’esplosione di suoni dal cielo e di vento. L’evento è presentato in tre doppie frasi parallele che iniziano con un e: “E venne dal cielo – e riempì la casa” (v. 2), “e apparvero delle lingue – e una si posò su ciascuno di loro” (v. 3), “e furono pieni di Spirito – e parlavano in lingue” (v. 4). I tre soggetti sono: Il rumore, le lingue e tutti. L’irruzione dello Spirito viene descritta come un fenomeno audiovisivo. Prima di tutto si afferma la sua totale sovranità: è inaspettato (all’improvviso)[2] e viene dal cielo.
Aspetto uditivo: un rumore (fragore, frastuono, rimbombo, eco) che al v. 6 è chiamato “suono o voce”. Questo fragore che si produce “improvvisamente”, proviene “dal cielo”, come la voce di Dio che risuonò sul Sinai (Es 19:3) o che si udì al momento del battesimo di Gesù (Lu 3:22), o che Pietro sentì a Giaffa (At 11:9) o ancora che sentì Giovanni al momento di sigillare le cose che i sette tuoni avevano dette (Ap 10:4). Questo rumore è poi paragonato ad un “vento impetuoso”, simbolo della potenza misteriosa vivificatrice e creatrice di Dio (Ge 1:1; Gv 3:8) e riempie tutta la casa dove il gruppo era riunito. È bene precisare che lo Spirito non è ancora stato nominato, ma vengono presentati i segni annunciatori della sua presenza. Fra poco irromperà sui presenti come un avvenimento che dipende totalmente dall’iniziativa di Dio e, come Gesù aveva annunciato, che discende come “potenza dall’alto” (Lu 24:49).
Dopo il fenomeno sonoro, ecco l’aspetto visivo: delle lingue come di fuoco, viste dai presenti nell’atto di dividersi e posarsi su ciascuno di loro, marcando così l’individualizzazione della sede dello Spirito. Giovanni Battista lo aveva annunciato:
“Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco” (Lu 3:16)
Il paragone con il “fuoco” riporta al contesto delle teofanie ed è segno del manifestarsi del divino.
Le rivelazioni di Dio sono spesso messe in relazione con l’immagine del fuoco che diviene simbolo di “santità”, in particolare lo è quella del Sinai
(Es 19:18; 24:17), ma anche quella della manifestazione di Dio a Mosè nel pruno ardente, dove il fuoco arde ma non consuma (Es 3:1-6).
Le lingue viste nell’atto di dividersi (il participio greco vuol dire non che le lingue erano scisse, ma che erano distinte) vanno poi a posarsi su ciascuno dei presenti. Con questa immagine Luca vuole dire che lo Spirito Santo è presenza divina, è come fuoco che purifica e che avvolge, e con la sua azione unica e singolare, prende possesso di ogni persona, si adagia per poi rimanere su ciascuno dei presenti, come lo Spirito “discese e si fermò” su Gesù al momento del battesimo (Gv 1:32-33). Tutti sono toccati da questo miracoloso evento: la separazione delle lingue conferisce un’identità particolare a ogni discepolo, legata a un dono che gli è proprio, ma senza essere separato dagli altri.
Tutto quello che è avvenuto, trova la sua spiegazione: l’intrusione celeste che investe la casa e prende possesso di ciascuno è la pienezza dello Spirito: “Tutti furono riempiti di Spirito Santo” (At 2:4). Avviene su tutti un’effusione interiore che li riempie fino a traboccare; Pietro infatti, nel successivo discorso apostolico dirà che Gesù, salito al cielo lo ha ricevuto dal Padre per “riversarlo” sui suoi discepoli (At 2:33).
Nel tempo della promessa lo Spirito era stato donato ai profeti e ad alcuni grandi uomini dell’Antico Testamento, poi a pochi eletti i cui nomi vengono ricordati dallo stesso Luca: Giovanni Battista quando ancora stava nel seno materno (Lu 1:15), Elisabetta e Zaccaria (Lu 1:41,67), Simeone (Lu 2:26), Maria (Lu 1:35). Egli poi si era concentrato unicamente in pienezza sulla persona di Gesù (Lu 1:35; 3:22; 4:1,18). Ora questo dono raggiunge “tutti”: così il gruppo dei discepoli viene definitivamente costituito e intimamente trasformato. Successivamente molte altre persone verranno designate nel libro degli Atti come “riempite di Spirito Santo”: Pietro (4:8), la comunità cristiana (4:31), Paolo (9:17; 13:9), Stefano (6:5; 7:55), Barnaba (11:24), i discepoli di Antiochia di Pisidia (13:52). Lo Spirito resterà da ora in poi sempre all’opera nella Chiesa come il protagonista principale.
Il dono delle lingue
“E cominciarono a parlare in altre lingue” (At 2:4b).
Il primo dono che lo Spirito dona alla Chiesa è quello della parola, ma questo dono viene definito in modo curioso “parlare altre lingue”. L’aggettivo “altre” è molto importante perché indica che gli apostoli si mettono a parlare in lingue diverse dalla propria. Luca, poi, sottolinea come questo dono sia frutto della irruzione dello Spirito: “come lo Spirito dava di esprimersi”. Questo verbo il cui significato nel testo originale è “enunciare, dichiarare ad alta voce” è il verbo della dichiarazione pubblica (At 2:14; 26:25). Attraverso i servitori parla in un certo senso lo stesso Spirito Santo.
Come comprendere questo fenomeno? Si tratta forse del dono della “glossolalia” (1Co 12:28) che consiste in un parlare estatico, misterioso, con suoni che non corrispondono a nessun idioma? Il “parlare in lingue” dopo l’evento di Pentecoste appare soltanto due volte: in casa di Cornelio (At 10:45-46) e a Efeso (At 19:6), dunque non è un evento importante se non come compimento della promessa. Gli effetti dello Spirito post-Pentecoste, come vedremo, non riguardano tanto il parlare in lingue, ma la testimonianza e la predicazione. Dunque la prima cosa che Luca vuole evidenziare che il fenomeno non era diffuso in tutta la cristianità del primo secolo, ma circoscritto ad alcune comunità soltanto. Questo significa che non dappertutto e non sempre l’azione dello Spirito Santo si è manifestata nella forma del “parlare in lingue”. Pertanto non sminuisce il fenomeno, ma gli dà l’importanza che merita.
A Pentecoste infatti il “parlare in altre lingue” degli apostoli suscitò immediata e piena comprensione da parte di tutti i presenti i quali, pur parlando lingue diverse, dicevano, pieni di stupore:
“Li udiamo parlare ciascuno nella nostra propria lingua natia” (At 2:8).
Nella chiesa di Corinto, invece, succedeva il contrario: nessuno capiva quel che diceva colui che parlava in lingue, perciò l’apostolo Paolo raccomandò che ogni discorso “in lingua” venisse anche interpretato e tradotto in parole comprensibili, perché solo così la chiesa sarebbe stata edificata (1Co 14:12-17).
È anche vero che lo stesso apostolo distingue tra “doni maggiori” da desiderare “ardentemente” (1Co 12:31), perché costitutivi della fede e della vita cristiana, e i doni che, pur importanti, non sono “maggiori”, cioè non indispensabili per la chiesa. Il “parlare in lingue” non è, secondo Paolo, un “dono maggiore”. L’apostolo lo apprezza e, come ho già detto, occasionalmente lo pratica. Ma aggiunge: “Chi parla in altra lingua edifica se stesso; ma chi profetizza edifica la chiesa”. Come sappiamo a Pentecoste il dono delle lingue non fu dato per l’edificazione della Chiesa ma per la predicazione agli uomini religiosi di ogni nazione che è sotto il cielo (At 14:5). Poi aggiunge ancora:
“Vorrei che tutti parlaste in altre lingue, ma molto più che profetaste; chi profetizza è superiore a chi parla in altre lingue, a meno che egli interpreti, perché la chiesa ne riceva edificazione” (1Co 14:4-5).
Come sappiamo a Pentecoste non ci fu bisogno né di traduzione né di interpretazione, visto che tutti i Giudei comprendevano il messaggio.
Conclusione
Luca quindi subordina “il parlare altre lingue” all’annuncio del Vangelo. Lo Spirito abilita a quella testimonianza universale che in Atti 1:8 è promessa e affidata a tutti i discepoli. Perciò Pietro d’ora in avanti non si vergognerà di Gesù come ha fatto in precedenza (Mt 26:69-75) e può svolgere un tale servizio di testimonianza, il che prima della Pentecoste non era possibile. Anche Paolo, come Luca, subordina il dono dello Spirito ai ministeri della Parola, quando dirà ai Corinzi che amavano la glossolalia:
“Dio ha posto nella chiesa in primo luogo degli apostoli, in secondo luogo dei profeti, in terzo luogo dei dottori” (1Co 12:28).
I primi tre doni sono proprio doni di parola. Ci pare dunque di poter affermare, da questi primi dati, che il prodigio della Pentecoste consista nel dono che gli apostoli ricevono di “parlare” con le lingue stesse degli uditori, essi proclamano una parola che, proprio perché tutti capiscono, ha una valenza universale. Il dono dello Spirito è il potere di testimoniare Gesù, tutti i partecipanti all’evento diventano il primo nucleo della Chiesa che è stabilità in una città per anticipare le meraviglie di Dio a tutta la terra.
[1] Filone, De speciali bus legibus 1, 69; Flavio Giuseppe, Guerra Giudaica 1, 252; Antichità giudaiche, 14, 337; 17, 254.
[2] L’avverbio ricorre anche in Atti 16:26 riferito al terremoto, e in Atti 28:6 nel senso di “immediatamente”.