C’è un episodio, avvenuto durante la terribile tempesta che provocò il naufragio della nave sulla quale l’apostolo Paolo viaggiava prigioniero verso Roma, che mi ha colpito in modo particolare. Da quattordici giorni i passeggeri della nave stavano vivendo un vero e proprio incubo, quando, nel buio della notte, avvenne qualcosa che sfuggì agli occhi di gran parte delle persone che si trovavano a bordo, ma anche a quelli dei soldati che custodivano Paolo e degli altri prigionieri. I marinai avevano capito che la costa era vicina, ma temevano che il movimento delle onde avrebbe finito per scuotere la nave in modo assai pericoloso fino a farla affondare. Quindi fecero finta di completare il tentativo di mantenere in qualche modo ferma l’imbarcazione. Finsero cioè di gettare in mare anche da prua delle àncore, così come avevano già fatto da poppa. In questo modo forse la nave si sarebbe stabilizzata. Ma a prua era stata issata la scialuppa di salvataggio e, in realtà, le vere intenzioni dei marinai erano di impossessarsene per provare a scappare e a salvare la pelle (At 27:30). Speravano evidentemente che la vicinanza della terra avrebbe reso meno rischioso il loro tentativo di fuga.
Il loro comportamento rivela che non avevano dato alcun credito alle parole con le quali Paolo aveva rivelato che nessuno sarebbe morto, ma soprattutto rivela che stavano venendo meno al loro dovere di impegnarsi fino all’ultimo per la salvezza della nave. Avevano deciso di pensare solo a sé stessi, pur consapevoli che quella loro scelta avrebbe messo in serio pericolo la vita dei passeggeri. Quindi stavano compiendo un reato: stavano venendo meno al dovere e ai compiti imposti dalla loro professione. Paolo comprese quali erano le vere intenzioni dei marinai nel loro armeggiare a prua: il loro obiettivo non erano certo le àncore, ma la scialuppa. Così non esitò a denunciarli alle persone che, per il loro compito di sorvegliare lui e gli altri prigionieri, gli erano in quel momento più vicine. La sua denuncia contribuì in modo determinante a fermare la fuga dei marinai. Le funi con cui la scialuppa era stata issata a bordo furono subito tagliate dai soldati, così che venne a mancare l’unico mezzo con il quale sarebbe stato possibile per loro fuggire.
Anche noi, quando dovessimo trovarci davanti a un comportamento malvagio le cui conseguenze potrebbero avere ripercussioni negative sulla vita degli altri, come figli di Dio dovremmo sempre sentire il dovere di denunciarlo: “Non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre, piuttosto denunciatele” (Ef 5:11). Ma denunciare come?!? Paolo non si mise ad urlare ai quattro venti quanto stava succedendo. Non allertò tutti gli altri passeggeri della nave. Se lo avesse fatto, sicuramente tutti si sarebbero gettati addosso ai marinai con conseguenze ben immaginabili. Paolo denunciò il comportamento dei marinai solo al centurione e ai soldati e lo fece con evidenti discrezione e riservatezza. Si rivolse a chi, in quel momento aveva sia l’autorità che la possibilità di intervenire per fermare i marinai. Il suo esempio ci insegna che, quando denunciamo il peccato, non dobbiamo preoccuparci soltanto di proteggere le nostre vite e quelle di chi può subirne delle conseguenze negative. Dobbiamo, per quanto possibile, avere in vista anche il bene di coloro che compiono il male. La nostra denuncia del peccato non dovrebbe avere come obiettivo la rovina dei peccatori. Paolo rivelò il reato che stavano per compiere i marinai, ma con la discrezione della sua denuncia rivelò anche la sua preoccupazione per loro e per la loro sorte, evitando un sicuro linciaggio da parte dei passeggeri. Non è facile denunciare il peccato e, nello stesso tempo, mostrare amore verso chi lo compie e desiderare il suo bene. Ma è, questo, un principio che non ci insegna soltanto Paolo. Gesù accolse e amò i peccatori, pur non mostrando mai compiacenza verso il loro peccato. Facciamo allora attenzione quando parliamo e quando scriviamo! Le mie parole devono rivelare sempre che, pur odiando il loro peccato, i peccatori io li amo come li amò Gesù. Inoltre devo sempre condividere con Paolo la convinzione che, dei peccatori, “io sono il primo” (1Ti 1:15).