Ha fatto scalpore nelle settimane scorse il discorso di un ministro della nostra Repubblica che ha utilizzato un linguaggio talmente incomprensibile da suscitare i più svariati commenti ironici. A volte può accadere di ricorrere a parole di uso non comune per fare sfoggio della propria cultura e delle proprie conoscenze e capacità linguistiche, venendo però meno, in questo modo, all’obiettivo per il quale Dio ci ha donato il linguaggio: quello di comunicare. Infatti come è possibile comunicare un pensiero, un’idea, un progetto o qualsiasi altro messaggio se utilizziamo parole che le persone, alle quale ci stiamo rivolgendo, non comprendono?
Un acuto giornalista ha commentato il discorso del ministro, affermando che chi parla o chi scrive dovrebbe sempre immaginare di parlare o di scrivere a un bambino di cinque anni. Dobbiamo infatti tenere sempre presente che il linguaggio che utilizziamo per una comunicazione si rivela efficace soltanto quando il destinatario che riceve il messaggio lo comprende pienamente. È evidente, cioè, che se usiamo un linguaggio pieno di parole di cui pochi o nessuno conoscono il significato, la nostra comunicazione si rivelerà come un vero e proprio fallimento, perché non avremo di fatto trasmesso alcun messaggio a chi ci sta ascoltando o leggendo.
È vero che l’obiettivo di esprimerci con un linguaggio totalmente comprensibile può essere non realistico, ma il nostro impegno deve essere sempre quello di parlare e scrivere in modo così semplice e chiaro da ottenere la massima comprensibilità possibile.
L’apostolo Paolo ricordò con una domanda, che interpella anche noi oggi, la relazione di causa ed effetto che dovrebbe sempre esserci nei nostri discorsi: “Così, anche voi, se con la lingua proferite un discorso comprensibile, come si capirà quello che dite? Parlerete al vento” (1Co 14:9).
Tutto quello che diciamo o scriviamo deve avere come effetto la piena comprensione da parte di chi ci ascolta o ci legge. Altrimenti il nostro sarà un “parlare al vento”, come se le nostre parole, non raggiungendo lo scopo della comunicazione, fossero portate via dal vento.
Purtroppo dobbiamo riconoscere che, come in alcuni ambiti relazionali, si utilizza con disinvoltura un linguaggio tecnico specifico (il burocratese, il politichese, il filosofese…) senza preoccuparsi della sua efficacia comunicativa, anche noi, nella nostra testimonianza del Vangelo, usiamo spesso un non facilmente comprensibile evangelichese e, peggio ancora sul piano della incomprensibilità, il teologhese. Tanto per fare un esempio, banale ma efficace: alcuni anni fa una persona mi chiese se la Bibbia fosse stata scritta tutta in poesia, dal momento che aveva sentito usare spesso le parole “verso” o “versetto”.
Ovviamente non dobbiamo snaturare il contenuto del Vangelo, evitando parole oggi più che mai di difficile comprensione (peccato, perdizione, ravvedimento, conversione, salvezza, nuova nascita…), ma sarà utile assicurarsi che il nostro sia un linguaggio semplice e comprensibile e, in quanto tale, comunicativo.
È possibile che la reazione dei destinatari del messaggio ci trasmetta una scoraggiante sensazione di fallimento, ma purtroppo nella maggior parte delle relazioni accade che il problema non sia costituito dalla incomunicabilità ma dalla indisponibilità ad ascoltare, simile a quella conosciuta da Gesù quando “molti dei suoi discepoli, dopo aver udito, dissero: «Questo parlare è duro; chi può ascoltarlo?»” (Gv 6:60).
È giusto preoccuparsi dei destinatari del nostro messaggio e della loro possibile reazione, ma la prima nostra preoccupazione deve essere quella di trasmettere i contenuti dell’Evangelo “fedelmente” (2Ti 4:5b) e con parole semplici e comprensibili: “Il vostro parlare sia sempre con grazia, condito con sale” (Cl 4:6).