La morte: esperienza che coinvolge tutti gli uomini
A causa del peccato tutti gli uomini sono sotto la terribile condanna di Dio: “Sei polvere e polvere diventerai” disse Dio ad Adamo (Genesi 3:19). Ogni giorno, ogni istante le anime nostre si avvicinano all’eternità.
Nessuna esperienza è così universale come il morire: anche l’ombra della vigilia è fitta di interrogativi e timori. È questo che accadde a Betania (piccolo villaggio sul pendio orientale del Monte Uliveto, a circa 3 Km da Gerusalemme), nella casa di due sorelle di nome Marta e Maria. L’atmosfera è turbata dall’inquietudine dei discepoli, dal pianto delle due sorelle. All’apostolo Giovanni non sfugge il clima che sta sotto il potere dolente della morte.
Il fatto di Betania si colloca tra il racconto dei “segni” (quello dei miracoli) e quello della gloria (quello della passione). I discepoli vengono attrezzati per varcare la soglia della “ora terribile”, l’ora in cui “il Figlio dell’uomo è dato nelle mani dei peccatori” (Mt 26:45) e sono invitati a uno sguardo sul mistero della vita oltre la morte.
Ma come Gesù affronta la morte?
Gesù sconfigge la morte
Il racconto di Giovanni procede con ritmo semplice e vivace, composto e preciso. Inizia con un antefatto. Gesù informato da Maria e Marta della malattia del loro fratello Lazzaro, indugiò un paio di giorni prima di recarsi al suo capezzale, dicendo:
“Questa malattia non è per la morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio sia glorificato” (v. 4).
È nella morte dell’amico che egli vuol far risplendere la gloria di Dio, mediante una nuova manifestazione della sua potenza, bontà e divinità nel miracolo che stava per compiere (ultimo miracolo raccontato da Giovanni, il solo aricordarlo).
Trascorsi i due giorni Gesù disse ai discepoli: “Torniamo in Giudea” (v. 7). Preoccupati dalle parole del loro Maestro, essi cercarono di dissuaderlo dal farvi ritorno, sapendo che lì gli erano tese delle insidie (10:3139). Temevano per la sua morte. Non capivano il linguaggio di Gesù, né tanto– meno il suo modo d’agire.
Gesù li rassicurò, li confortò con una frase alquanto enigmatica:
“Non vi sono dodici ore nel giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se uno cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui” (vv. 9 e 10). Con un linguaggio figurato egli mostrò di non avere nulla da temere perché il tempo assegnatogli dal Padre, per compiere la sua opera non era ancora giunto alla fine: la notte (l’ora della morte) non era ancora arrivata.
Dopo una breve pausa, il Signore Gesù con parole di incomparabile bellezza e affetto disse:
“Il nostro amico Lazzaro si è addormentato (eufemismo che significa: è morto); ma vado a svegliarlo” (v. 11). I discepoli scrollarono il capo, non capivano. Per l’uomo la morte è solo la morte. Solo enigma. E pensano: se Lazzaro dorme, vuol dire che sta meglio e pertanto è inutile fare un viaggio così pericoloso, unicamente per andare a fargli visita.
A questo punto il Signor Gesù si rallegrò di non essersi trovato a Betania, poiché sicuramente la fede dei suoi discepoli sarebbe stata fortificata dal “segno” (risurrezione di Lazzaro) che avrebbe rivelato la potenza di Dio nel Figlio. Tommaso, detto Didimo (= gemello), non comprendendo le parole del Maestro, ma pieno d’amore per lui, disse: “Andiamo anche noi, per morire con lui!” (v. 16).
L’incontro con Marta
Ora la scena cambia. Gesù incontrò Marta alla periferia di Betania e parlò con lei. Qui si va al centro di tutto il racconto giovanneo. I versetti 25 e 26 sono la punta più alta, un vertice. Paradossalmente, di fronte alla morte, il crocevia più drammatico e più ineludibile dell’esistenza, si rivela il tratto più inaudito dell’identità di Gesù; e, insieme, il vero destino dell’uomo. Gesù si presentò come “la risurrezione e la vita” ed affermò che ogni uomo che avesse creduto in lui non sarebbe mai morto.
Tra le sette autorivelazioni di Gesù presenti nel quarto vangelo, nessuna è così vertiginosa e tale da coinvolgere lo stesso destino umano.
Gesù è la resurrezione, è la vita: di Lazzaro e di coloro che a lui sono uniti per vera fede.
Questa è la fede cristologica a cui è sollecitata Marta, che forse un po’ insoddisfatta, risponde:
“Lo so che resusciterà, nella risurrezione, nell’ultimo giorno” (v. 24).
Gesù corregge subito la troppa ristretta opinione di Marta, affermando di essere lui l’autore di ogni risurrezione e di ogni vita. La donna reagisce con una stupenda professione di fede:
“Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che doveva venire nel mondo” (v. 27).
L’incontro con Maria
Si entra così nel secondo atto con l’altra sorella: Maria. Il tono, già intriso di commozione, si fa più intenso. Un fremito di caldissima umanità passò nelle persone, Gesù fece chiamare di nascosto Maria, le voleva parlare. La notizia le arrivò come raggi di luce nel suo chiuso dolore: “Il maestro è qui, e ti chiama” (v. 28).
A differenza dell’incontro con Marta, quello con Maria fu senza parole, il dialogo si pose a livello di sentimenti: al dolore cupo di Maria e al suo gesto implorante, Gesù “fremette nello spirito, si turbò… pianse” (vv. 33-35).
Egli entrò così in sintonia profonda con il dolore umano, Gesù si commosse, si turbò e, perfino, venne contagiato dalle lacrime, che mentre sono una prova della realtà della sua natura umana, mostrano pure l’immensa tenerezza del suo cuore.
Quello che né le sofferenze fisiche né le prove morali poterono su lui, lo poté invece il suo infinito, profondo, divino amore per gli uomini. Per sé stesso l’indifferenza; per noi l’amore che va fino alla commozione più viva e si traduce con le lacrime. Oh! Gesù, Salvatore mio, quanto mi amasti!
Gesù alla tomba di Lazzaro
Il racconto della resurrezione dell’amico scorre via rapido. Gesù urlò, gridò ad alta voce: “Lazzaro vieni fuori” (v. 43). Un grido solenne, imperativo. L’espressione è tipica di Giovanni: esprime il potere di Gesù sulla morte.
Il comando scaturì da un contesto di preghiera, Gesù diede lode al Padre per il segno che stava per compiere perché il mondo credesse nella sua missione. Subito il morto “uscì, con i piedi e le mani avvolti da fasce e il viso coperto da un sudario”. Gesù disse loro: “Scioglietelo e lasciatelo andare” (v. 44), Gesù avrebbe senz’altro potuto liberare lui stesso Lazzaro dalle fasce che l’avvolgevano ma diede quest’ordine affinché i Giudei toccandolo con le loro mani, si rendessero bene conto dell’avvenuto miracolo.
Da notare che, prima di compiere questo straordinario miracolo, il Signore Gesù, per rendere manifesta a tutti, la sua comunione intima col Padre suo, lo ringraziò anticipatamente di averlo esaudito.
Di fronte alla morte egli vince con la resurrezione. L’ultima parola autorevole e sua.
Come il Verbo fu principio della creazione (Gv 1: 1-4), così la Parola vince sulla morte. Il ritorno alla vita di Lazzaro è un “segno” della morte e della resurrezione di Gesù; ma insieme anche un segno dell’ultima parola di Dio sullastoria: una parola di vita.
“La morte è una falce e gli uomini sono fili d’erba” (proverbio ebraico). Ogni potere umano, per quanto spavaldo, soccombe davanti alla morte.
Le filosofie hanno usato molte parole per ammansire la morte, per interpretarla. Talora ne hanno aggravato il mistero. Quando si parla di essa come puro fatto biologico, o come “assurdo”, non restano forse le domande più struggenti? Che ci sarà dietro la porta?
Gesù ci offre uno squarcio luminosissimo, confortante: è lui stesso la porta di ogni morte.
“Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore vivrà; e chiunque vive e crede in me, non morirà mai” (Gv 11: 25-26).
Gesù promette a coloro che credono in lui una vita immortale di gioia e felicità. Egli possiede il bene più prezioso che si possa desiderare: la vita, quella vita che non muore.
Gesù ha pure detto:
“Come il Padre ha vita in sé stesso, così ha dato anche al Figlio di avere vita in sé stesso” (Gv 5:26). Poiché Egli ha la vita, la può comunicare. Gesù risorto è la massima verità su Dio, come ci si rende conto nella fede:
“Quando lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli pose la sua mano destra su di me, dicendo: «Non temere, io sono il primo e l’ultimo, e il vivente»” (Ap 1:17).
Nell’Apocalisse, “Vivente” diventa la definizione propria dei cristiani (4: 6-9; 5: 6-14; 19: 4). Sin da ora, nel presente, egli è per tutti i credenti, quella vita divina, ineffabile, eterna che non morirà mai. Se Gesù è in loro, se egli è in te, in me, non moriremo mai.
Questa vita del credente è della stessa natura di quella di Gesù risorto e quindi ben diversa dalla condizione umana in cui si trova.
Questa straordinaria vita, si manifesterà pienamente al ritorno di Cristo per rapire la sua Chiesa:
“Il Signore stesso, con un ordine, con voce d’arcangelo e con la tromba di Dio, scenderà dal cielo, e prima risusciteranno i morti in Cristo, poi noi viventi, che saremo rimasti, verremo rapiti insieme con loro, sulle nuvole a incontrare il Signore nell’aria; e così saremo sempre con il Signore” (1Te 4: 17-17).
Soltanto dopo il ritorno di Cristo e il rapimento della Chiesa, dopo il giudizio dei cristiani davanti al tribunale di Cristo stesso, il rinnovamento di tutte le cose sarà decretato e gli eletti entreranno finalmente nel cielo propriamente detto e nel compimento del loro destino eterno.
“Io sono la resurrezione e la vita”
Certamente Gesù con queste parole non nega che ci sia la morte fisica, conseguenza di una terribile, inguaribile malattia: il peccato. Ma essa non implicherà la perdita della Vita vera. La morte resta per l’uomo un’esperienza unica, fortissima, temuta. È umano aver paura della morte. La terribile visitatrice non ha riguardo all’età, né alla bellezza, né alla ricchezza, né all’intelligenza!
Tutti sono uguali davanti a lei, nulla decide la vita come la morte, e nulla decide la morte come la vita, nulla è irripetibile come la morte. Ma per il credente non significherà più l’assurdo, il fallimento della vita, la fine. Per lui essanon ha più “pungiglione”. Quando un’ape ha punto qualcuno, l’insetto diventa inoffensivo; non ha più arma. Così la morte per il credente ha perduto il suo pungiglione nella morte del suo Redentore, quando soffrì e morì sulla croce al posto suo.
L’ultima parola autorevole è sua.
Come il verbo (Gv 1:1) fu il principio della creazione, così la Parola vince la morte. Come ho già ricordato, il ritorno alla vita di Lazzaro è segno dell’ultima Parola di Dio sulla storia: una parola di vita. Qualcuno ha detto che per il cristiano “la morte è come uno spostarsi da una stanza all’altra della stessa casa”, è un’entrata tranquilla nel riposo celeste nell’attesa della resurrezione in gloria alla venuta del Signore.
In questo l’apostolo Paolo poteva dire:
“La morte è stata sommersa nella vittoria. O morte, dov’è la tua vittoria? O morte dov’è il tuo dardo (o il tuo pungiglione) ?” (1Co 15:54-55).
Estasiato da una così grande vittoria, Paolo, citando alcune parole del profeta Osea (13:4), che annunziava la restaurazione d’Israele, intonò questo meraviglioso inno di trionfo. Se viviamo nella fede della resurrezione, che sostiene le nostre speranze, dobbiamo cercare le cose di lassù, cioè impostare la nostra vita secondo il messaggio evangelico di pace, di verità, di amore e giustizia, e iniziare anche a gustare le cose di lassù, cioè dar valore, nel tempo, alla prospettiva eterna che ci attende e non ingolfarci nella ricerca spasmodica delle cose effimere di quaggiù.
“Che gioverà a un uomo, se dopo aver guadagnato tutto il mondo, perde poi l’anima sua?”
(Mt 16:26).
Inno:
Gesù, noi ti lodiamo! Dall’alma in te rapita, sicura e ferma speme e l’agognato albor del giorno in cui, disciolti e avvolti di splendor saremo al ciel portati, nel regno della vita.
La morte: esperienza che coinvolge tutti gli uomini
A causa del peccato tutti gli uomini sono sotto la terribile condanna di Dio: “Sei polvere e polvere diventerai” disse Dio ad Adamo (Genesi 3:19). Ogni giorno, ogni istante le anime nostre si avvicinano all’eternità.
Nessuna esperienza è così universale come il morire: anche l’ombra della vigilia è fitta di interrogativi e timori. È questo che accadde a Betania (piccolo villaggio sul pendio orientale del Monte Uliveto, a circa 3 Km da Gerusalemme), nella casa di due sorelle di nome Marta e Maria. L’atmosfera è turbata dall’inquietudine dei discepoli, dal pianto delle due sorelle. All’apostolo Giovanni non sfugge il clima che sta sotto il potere dolente della morte.
Il fatto di Betania si colloca tra il racconto dei “segni” (quello dei miracoli) e quello della gloria (quello della passione). I discepoli vengono attrezzati per varcare la soglia della “ora terribile”, l’ora in cui “il Figlio dell’uomo è dato nelle mani dei peccatori” (Mt 26:45) e sono invitati a uno sguardo sul mistero della vita oltre la morte.
Ma come Gesù affronta la morte?
Gesù sconfigge la morte
Il racconto di Giovanni procede con ritmo semplice e vivace, composto e preciso. Inizia con un antefatto. Gesù informato da Maria e Marta della malattia del loro fratello Lazzaro, indugiò un paio di giorni prima di recarsi al suo capezzale, dicendo:
“Questa malattia non è per la morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio sia glorificato” (v. 4).
È nella morte dell’amico che egli vuol far risplendere la gloria di Dio, mediante una nuova manifestazione della sua potenza, bontà e divinità nel miracolo che stava per compiere (ultimo miracolo raccontato da Giovanni, il solo aricordarlo).
Trascorsi i due giorni Gesù disse ai discepoli: “Torniamo in Giudea” (v. 7). Preoccupati dalle parole del loro Maestro, essi cercarono di dissuaderlo dal farvi ritorno, sapendo che lì gli erano tese delle insidie (10:3139). Temevano per la sua morte. Non capivano il linguaggio di Gesù, né tanto– meno il suo modo d’agire.
Gesù li rassicurò, li confortò con una frase alquanto enigmatica:
“Non vi sono dodici ore nel giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se uno cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui” (vv. 9 e 10). Con un linguaggio figurato egli mostrò di non avere nulla da temere perché il tempo assegnatogli dal Padre, per compiere la sua opera non era ancora giunto alla fine: la notte (l’ora della morte) non era ancora arrivata.
Dopo una breve pausa, il Signore Gesù con parole di incomparabile bellezza e affetto disse:
“Il nostro amico Lazzaro si è addormentato (eufemismo che significa: è morto); ma vado a svegliarlo” (v. 11). I discepoli scrollarono il capo, non capivano. Per l’uomo la morte è solo la morte. Solo enigma. E pensano: se Lazzaro dorme, vuol dire che sta meglio e pertanto è inutile fare un viaggio così pericoloso, unicamente per andare a fargli visita.
A questo punto il Signor Gesù si rallegrò di non essersi trovato a Betania, poiché sicuramente la fede dei suoi discepoli sarebbe stata fortificata dal “segno” (risurrezione di Lazzaro) che avrebbe rivelato la potenza di Dio nel Figlio. Tommaso, detto Didimo (= gemello), non comprendendo le parole del Maestro, ma pieno d’amore per lui, disse: “Andiamo anche noi, per morire con lui!” (v. 16).
L’incontro con Marta
Ora la scena cambia. Gesù incontrò Marta alla periferia di Betania e parlò con lei. Qui si va al centro di tutto il racconto giovanneo. I versetti 25 e 26 sono la punta più alta, un vertice. Paradossalmente, di fronte alla morte, il crocevia più drammatico e più ineludibile dell’esistenza, si rivela il tratto più inaudito dell’identità di Gesù; e, insieme, il vero destino dell’uomo. Gesù si presentò come “la risurrezione e la vita” ed affermò che ogni uomo che avesse creduto in lui non sarebbe mai morto.
Tra le sette autorivelazioni di Gesù presenti nel quarto vangelo, nessuna è così vertiginosa e tale da coinvolgere lo stesso destino umano.
Gesù è la resurrezione, è la vita: di Lazzaro e di coloro che a lui sono uniti per vera fede.
Questa è la fede cristologica a cui è sollecitata Marta, che forse un po’ insoddisfatta, risponde:
“Lo so che resusciterà, nella risurrezione, nell’ultimo giorno” (v. 24).
Gesù corregge subito la troppa ristretta opinione di Marta, affermando di essere lui l’autore di ogni risurrezione e di ogni vita. La donna reagisce con una stupenda professione di fede:
“Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che doveva venire nel mondo” (v. 27).
L’incontro con Maria
Si entra così nel secondo atto con l’altra sorella: Maria. Il tono, già intriso di commozione, si fa più intenso. Un fremito di caldissima umanità passò nelle persone, Gesù fece chiamare di nascosto Maria, le voleva parlare. La notizia le arrivò come raggi di luce nel suo chiuso dolore: “Il maestro è qui, e ti chiama” (v. 28).
A differenza dell’incontro con Marta, quello con Maria fu senza parole, il dialogo si pose a livello di sentimenti: al dolore cupo di Maria e al suo gesto implorante, Gesù “fremette nello spirito, si turbò… pianse” (vv. 33-35).
Egli entrò così in sintonia profonda con il dolore umano, Gesù si commosse, si turbò e, perfino, venne contagiato dalle lacrime, che mentre sono una prova della realtà della sua natura umana, mostrano pure l’immensa tenerezza del suo cuore.
Quello che né le sofferenze fisiche né le prove morali poterono su lui, lo poté invece il suo infinito, profondo, divino amore per gli uomini. Per sé stesso l’indifferenza; per noi l’amore che va fino alla commozione più viva e si traduce con le lacrime. Oh! Gesù, Salvatore mio, quanto mi amasti!
Gesù alla tomba di Lazzaro
Il racconto della resurrezione dell’amico scorre via rapido. Gesù urlò, gridò ad alta voce: “Lazzaro vieni fuori” (v. 43). Un grido solenne, imperativo. L’espressione è tipica di Giovanni: esprime il potere di Gesù sulla morte.
Il comando scaturì da un contesto di preghiera, Gesù diede lode al Padre per il segno che stava per compiere perché il mondo credesse nella sua missione. Subito il morto “uscì, con i piedi e le mani avvolti da fasce e il viso coperto da un sudario”. Gesù disse loro: “Scioglietelo e lasciatelo andare” (v. 44), Gesù avrebbe senz’altro potuto liberare lui stesso Lazzaro dalle fasce che l’avvolgevano ma diede quest’ordine affinché i Giudei toccandolo con le loro mani, si rendessero bene conto dell’avvenuto miracolo.
Da notare che, prima di compiere questo straordinario miracolo, il Signore Gesù, per rendere manifesta a tutti, la sua comunione intima col Padre suo, lo ringraziò anticipatamente di averlo esaudito.
Di fronte alla morte egli vince con la resurrezione. L’ultima parola autorevole e sua.
Come il Verbo fu principio della creazione (Gv 1: 1-4), così la Parola vince sulla morte. Il ritorno alla vita di Lazzaro è un “segno” della morte e della resurrezione di Gesù; ma insieme anche un segno dell’ultima parola di Dio sullastoria: una parola di vita.
“La morte è una falce e gli uomini sono fili d’erba” (proverbio ebraico). Ogni potere umano, per quanto spavaldo, soccombe davanti alla morte.
Le filosofie hanno usato molte parole per ammansire la morte, per interpretarla. Talora ne hanno aggravato il mistero. Quando si parla di essa come puro fatto biologico, o come “assurdo”, non restano forse le domande più struggenti? Che ci sarà dietro la porta?
Gesù ci offre uno squarcio luminosissimo, confortante: è lui stesso la porta di ogni morte.
“Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore vivrà; e chiunque vive e crede in me, non morirà mai” (Gv 11: 25-26).
Gesù promette a coloro che credono in lui una vita immortale di gioia e felicità. Egli possiede il bene più prezioso che si possa desiderare: la vita, quella vita che non muore.
Gesù ha pure detto:
“Come il Padre ha vita in sé stesso, così ha dato anche al Figlio di avere vita in sé stesso” (Gv 5:26). Poiché Egli ha la vita, la può comunicare. Gesù risorto è la massima verità su Dio, come ci si rende conto nella fede:
“Quando lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli pose la sua mano destra su di me, dicendo: «Non temere, io sono il primo e l’ultimo, e il vivente»” (Ap 1:17).
Nell’Apocalisse, “Vivente” diventa la definizione propria dei cristiani (4: 6-9; 5: 6-14; 19: 4). Sin da ora, nel presente, egli è per tutti i credenti, quella vita divina, ineffabile, eterna che non morirà mai. Se Gesù è in loro, se egli è in te, in me, non moriremo mai.
Questa vita del credente è della stessa natura di quella di Gesù risorto e quindi ben diversa dalla condizione umana in cui si trova.
Questa straordinaria vita, si manifesterà pienamente al ritorno di Cristo per rapire la sua Chiesa:
“Il Signore stesso, con un ordine, con voce d’arcangelo e con la tromba di Dio, scenderà dal cielo, e prima risusciteranno i morti in Cristo, poi noi viventi, che saremo rimasti, verremo rapiti insieme con loro, sulle nuvole a incontrare il Signore nell’aria; e così saremo sempre con il Signore” (1Te 4: 17-17).
Soltanto dopo il ritorno di Cristo e il rapimento della Chiesa, dopo il giudizio dei cristiani davanti al tribunale di Cristo stesso, il rinnovamento di tutte le cose sarà decretato e gli eletti entreranno finalmente nel cielo propriamente detto e nel compimento del loro destino eterno.
“Io sono la resurrezione e la vita”
Certamente Gesù con queste parole non nega che ci sia la morte fisica, conseguenza di una terribile, inguaribile malattia: il peccato. Ma essa non implicherà la perdita della Vita vera. La morte resta per l’uomo un’esperienza unica, fortissima, temuta. È umano aver paura della morte. La terribile visitatrice non ha riguardo all’età, né alla bellezza, né alla ricchezza, né all’intelligenza!
Tutti sono uguali davanti a lei, nulla decide la vita come la morte, e nulla decide la morte come la vita, nulla è irripetibile come la morte. Ma per il credente non significherà più l’assurdo, il fallimento della vita, la fine. Per lui essanon ha più “pungiglione”. Quando un’ape ha punto qualcuno, l’insetto diventa inoffensivo; non ha più arma. Così la morte per il credente ha perduto il suo pungiglione nella morte del suo Redentore, quando soffrì e morì sulla croce al posto suo.
L’ultima parola autorevole è sua.
Come il verbo (Gv 1:1) fu il principio della creazione, così la Parola vince la morte. Come ho già ricordato, il ritorno alla vita di Lazzaro è segno dell’ultima Parola di Dio sulla storia: una parola di vita. Qualcuno ha detto che per il cristiano “la morte è come uno spostarsi da una stanza all’altra della stessa casa”, è un’entrata tranquilla nel riposo celeste nell’attesa della resurrezione in gloria alla venuta del Signore.
In questo l’apostolo Paolo poteva dire:
“La morte è stata sommersa nella vittoria. O morte, dov’è la tua vittoria? O morte dov’è il tuo dardo (o il tuo pungiglione) ?” (1Co 15:54-55).
Estasiato da una così grande vittoria, Paolo, citando alcune parole del profeta Osea (13:4), che annunziava la restaurazione d’Israele, intonò questo meraviglioso inno di trionfo. Se viviamo nella fede della resurrezione, che sostiene le nostre speranze, dobbiamo cercare le cose di lassù, cioè impostare la nostra vita secondo il messaggio evangelico di pace, di verità, di amore e giustizia, e iniziare anche a gustare le cose di lassù, cioè dar valore, nel tempo, alla prospettiva eterna che ci attende e non ingolfarci nella ricerca spasmodica delle cose effimere di quaggiù.
“Che gioverà a un uomo, se dopo aver guadagnato tutto il mondo, perde poi l’anima sua?”
(Mt 16:26).
Inno:
Gesù, noi ti lodiamo! Dall’alma in te rapita, sicura e ferma speme e l’agognato albor del giorno in cui, disciolti e avvolti di splendor saremo al ciel portati, nel regno della vita.
La morte: esperienza che coinvolge tutti gli uomini
A causa del peccato tutti gli uomini sono sotto la terribile condanna di Dio: “Sei polvere e polvere diventerai” disse Dio ad Adamo (Genesi 3:19). Ogni giorno, ogni istante le anime nostre si avvicinano all’eternità.
Nessuna esperienza è così universale come il morire: anche l’ombra della vigilia è fitta di interrogativi e timori. È questo che accadde a Betania (piccolo villaggio sul pendio orientale del Monte Uliveto, a circa 3 Km da Gerusalemme), nella casa di due sorelle di nome Marta e Maria. L’atmosfera è turbata dall’inquietudine dei discepoli, dal pianto delle due sorelle. All’apostolo Giovanni non sfugge il clima che sta sotto il potere dolente della morte.
Il fatto di Betania si colloca tra il racconto dei “segni” (quello dei miracoli) e quello della gloria (quello della passione). I discepoli vengono attrezzati per varcare la soglia della “ora terribile”, l’ora in cui “il Figlio dell’uomo è dato nelle mani dei peccatori” (Mt 26:45) e sono invitati a uno sguardo sul mistero della vita oltre la morte.
Ma come Gesù affronta la morte?
Gesù sconfigge la morte
Il racconto di Giovanni procede con ritmo semplice e vivace, composto e preciso. Inizia con un antefatto. Gesù informato da Maria e Marta della malattia del loro fratello Lazzaro, indugiò un paio di giorni prima di recarsi al suo capezzale, dicendo:
“Questa malattia non è per la morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio sia glorificato” (v. 4).
È nella morte dell’amico che egli vuol far risplendere la gloria di Dio, mediante una nuova manifestazione della sua potenza, bontà e divinità nel miracolo che stava per compiere (ultimo miracolo raccontato da Giovanni, il solo aricordarlo).
Trascorsi i due giorni Gesù disse ai discepoli: “Torniamo in Giudea” (v. 7). Preoccupati dalle parole del loro Maestro, essi cercarono di dissuaderlo dal farvi ritorno, sapendo che lì gli erano tese delle insidie (10:3139). Temevano per la sua morte. Non capivano il linguaggio di Gesù, né tanto– meno il suo modo d’agire.
Gesù li rassicurò, li confortò con una frase alquanto enigmatica:
“Non vi sono dodici ore nel giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se uno cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui” (vv. 9 e 10). Con un linguaggio figurato egli mostrò di non avere nulla da temere perché il tempo assegnatogli dal Padre, per compiere la sua opera non era ancora giunto alla fine: la notte (l’ora della morte) non era ancora arrivata.
Dopo una breve pausa, il Signore Gesù con parole di incomparabile bellezza e affetto disse:
“Il nostro amico Lazzaro si è addormentato (eufemismo che significa: è morto); ma vado a svegliarlo” (v. 11). I discepoli scrollarono il capo, non capivano. Per l’uomo la morte è solo la morte. Solo enigma. E pensano: se Lazzaro dorme, vuol dire che sta meglio e pertanto è inutile fare un viaggio così pericoloso, unicamente per andare a fargli visita.
A questo punto il Signor Gesù si rallegrò di non essersi trovato a Betania, poiché sicuramente la fede dei suoi discepoli sarebbe stata fortificata dal “segno” (risurrezione di Lazzaro) che avrebbe rivelato la potenza di Dio nel Figlio. Tommaso, detto Didimo (= gemello), non comprendendo le parole del Maestro, ma pieno d’amore per lui, disse: “Andiamo anche noi, per morire con lui!” (v. 16).
L’incontro con Marta
Ora la scena cambia. Gesù incontrò Marta alla periferia di Betania e parlò con lei. Qui si va al centro di tutto il racconto giovanneo. I versetti 25 e 26 sono la punta più alta, un vertice. Paradossalmente, di fronte alla morte, il crocevia più drammatico e più ineludibile dell’esistenza, si rivela il tratto più inaudito dell’identità di Gesù; e, insieme, il vero destino dell’uomo. Gesù si presentò come “la risurrezione e la vita” ed affermò che ogni uomo che avesse creduto in lui non sarebbe mai morto.
Tra le sette autorivelazioni di Gesù presenti nel quarto vangelo, nessuna è così vertiginosa e tale da coinvolgere lo stesso destino umano.
Gesù è la resurrezione, è la vita: di Lazzaro e di coloro che a lui sono uniti per vera fede.
Questa è la fede cristologica a cui è sollecitata Marta, che forse un po’ insoddisfatta, risponde:
“Lo so che resusciterà, nella risurrezione, nell’ultimo giorno” (v. 24).
Gesù corregge subito la troppa ristretta opinione di Marta, affermando di essere lui l’autore di ogni risurrezione e di ogni vita. La donna reagisce con una stupenda professione di fede:
“Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che doveva venire nel mondo” (v. 27).
L’incontro con Maria
Si entra così nel secondo atto con l’altra sorella: Maria. Il tono, già intriso di commozione, si fa più intenso. Un fremito di caldissima umanità passò nelle persone, Gesù fece chiamare di nascosto Maria, le voleva parlare. La notizia le arrivò come raggi di luce nel suo chiuso dolore: “Il maestro è qui, e ti chiama” (v. 28).
A differenza dell’incontro con Marta, quello con Maria fu senza parole, il dialogo si pose a livello di sentimenti: al dolore cupo di Maria e al suo gesto implorante, Gesù “fremette nello spirito, si turbò… pianse” (vv. 33-35).
Egli entrò così in sintonia profonda con il dolore umano, Gesù si commosse, si turbò e, perfino, venne contagiato dalle lacrime, che mentre sono una prova della realtà della sua natura umana, mostrano pure l’immensa tenerezza del suo cuore.
Quello che né le sofferenze fisiche né le prove morali poterono su lui, lo poté invece il suo infinito, profondo, divino amore per gli uomini. Per sé stesso l’indifferenza; per noi l’amore che va fino alla commozione più viva e si traduce con le lacrime. Oh! Gesù, Salvatore mio, quanto mi amasti!
Gesù alla tomba di Lazzaro
Il racconto della resurrezione dell’amico scorre via rapido. Gesù urlò, gridò ad alta voce: “Lazzaro vieni fuori” (v. 43). Un grido solenne, imperativo. L’espressione è tipica di Giovanni: esprime il potere di Gesù sulla morte.
Il comando scaturì da un contesto di preghiera, Gesù diede lode al Padre per il segno che stava per compiere perché il mondo credesse nella sua missione. Subito il morto “uscì, con i piedi e le mani avvolti da fasce e il viso coperto da un sudario”. Gesù disse loro: “Scioglietelo e lasciatelo andare” (v. 44), Gesù avrebbe senz’altro potuto liberare lui stesso Lazzaro dalle fasce che l’avvolgevano ma diede quest’ordine affinché i Giudei toccandolo con le loro mani, si rendessero bene conto dell’avvenuto miracolo.
Da notare che, prima di compiere questo straordinario miracolo, il Signore Gesù, per rendere manifesta a tutti, la sua comunione intima col Padre suo, lo ringraziò anticipatamente di averlo esaudito.
Di fronte alla morte egli vince con la resurrezione. L’ultima parola autorevole e sua.
Come il Verbo fu principio della creazione (Gv 1: 1-4), così la Parola vince sulla morte. Il ritorno alla vita di Lazzaro è un “segno” della morte e della resurrezione di Gesù; ma insieme anche un segno dell’ultima parola di Dio sullastoria: una parola di vita.
“La morte è una falce e gli uomini sono fili d’erba” (proverbio ebraico). Ogni potere umano, per quanto spavaldo, soccombe davanti alla morte.
Le filosofie hanno usato molte parole per ammansire la morte, per interpretarla. Talora ne hanno aggravato il mistero. Quando si parla di essa come puro fatto biologico, o come “assurdo”, non restano forse le domande più struggenti? Che ci sarà dietro la porta?
Gesù ci offre uno squarcio luminosissimo, confortante: è lui stesso la porta di ogni morte.
“Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore vivrà; e chiunque vive e crede in me, non morirà mai” (Gv 11: 25-26).
Gesù promette a coloro che credono in lui una vita immortale di gioia e felicità. Egli possiede il bene più prezioso che si possa desiderare: la vita, quella vita che non muore.
Gesù ha pure detto:
“Come il Padre ha vita in sé stesso, così ha dato anche al Figlio di avere vita in sé stesso” (Gv 5:26). Poiché Egli ha la vita, la può comunicare. Gesù risorto è la massima verità su Dio, come ci si rende conto nella fede:
“Quando lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli pose la sua mano destra su di me, dicendo: «Non temere, io sono il primo e l’ultimo, e il vivente»” (Ap 1:17).
Nell’Apocalisse, “Vivente” diventa la definizione propria dei cristiani (4: 6-9; 5: 6-14; 19: 4). Sin da ora, nel presente, egli è per tutti i credenti, quella vita divina, ineffabile, eterna che non morirà mai. Se Gesù è in loro, se egli è in te, in me, non moriremo mai.
Questa vita del credente è della stessa natura di quella di Gesù risorto e quindi ben diversa dalla condizione umana in cui si trova.
Questa straordinaria vita, si manifesterà pienamente al ritorno di Cristo per rapire la sua Chiesa:
“Il Signore stesso, con un ordine, con voce d’arcangelo e con la tromba di Dio, scenderà dal cielo, e prima risusciteranno i morti in Cristo, poi noi viventi, che saremo rimasti, verremo rapiti insieme con loro, sulle nuvole a incontrare il Signore nell’aria; e così saremo sempre con il Signore” (1Te 4: 17-17).
Soltanto dopo il ritorno di Cristo e il rapimento della Chiesa, dopo il giudizio dei cristiani davanti al tribunale di Cristo stesso, il rinnovamento di tutte le cose sarà decretato e gli eletti entreranno finalmente nel cielo propriamente detto e nel compimento del loro destino eterno.
“Io sono la resurrezione e la vita”
Certamente Gesù con queste parole non nega che ci sia la morte fisica, conseguenza di una terribile, inguaribile malattia: il peccato. Ma essa non implicherà la perdita della Vita vera. La morte resta per l’uomo un’esperienza unica, fortissima, temuta. È umano aver paura della morte. La terribile visitatrice non ha riguardo all’età, né alla bellezza, né alla ricchezza, né all’intelligenza!
Tutti sono uguali davanti a lei, nulla decide la vita come la morte, e nulla decide la morte come la vita, nulla è irripetibile come la morte. Ma per il credente non significherà più l’assurdo, il fallimento della vita, la fine. Per lui essanon ha più “pungiglione”. Quando un’ape ha punto qualcuno, l’insetto diventa inoffensivo; non ha più arma. Così la morte per il credente ha perduto il suo pungiglione nella morte del suo Redentore, quando soffrì e morì sulla croce al posto suo.
L’ultima parola autorevole è sua.
Come il verbo (Gv 1:1) fu il principio della creazione, così la Parola vince la morte. Come ho già ricordato, il ritorno alla vita di Lazzaro è segno dell’ultima Parola di Dio sulla storia: una parola di vita. Qualcuno ha detto che per il cristiano “la morte è come uno spostarsi da una stanza all’altra della stessa casa”, è un’entrata tranquilla nel riposo celeste nell’attesa della resurrezione in gloria alla venuta del Signore.
In questo l’apostolo Paolo poteva dire:
“La morte è stata sommersa nella vittoria. O morte, dov’è la tua vittoria? O morte dov’è il tuo dardo (o il tuo pungiglione) ?” (1Co 15:54-55).
Estasiato da una così grande vittoria, Paolo, citando alcune parole del profeta Osea (13:4), che annunziava la restaurazione d’Israele, intonò questo meraviglioso inno di trionfo. Se viviamo nella fede della resurrezione, che sostiene le nostre speranze, dobbiamo cercare le cose di lassù, cioè impostare la nostra vita secondo il messaggio evangelico di pace, di verità, di amore e giustizia, e iniziare anche a gustare le cose di lassù, cioè dar valore, nel tempo, alla prospettiva eterna che ci attende e non ingolfarci nella ricerca spasmodica delle cose effimere di quaggiù.
“Che gioverà a un uomo, se dopo aver guadagnato tutto il mondo, perde poi l’anima sua?”
(Mt 16:26).
Inno:
Gesù, noi ti lodiamo! Dall’alma in te rapita, sicura e ferma speme e l’agognato albor del giorno in cui, disciolti e avvolti di splendor saremo al ciel portati, nel regno della vita.