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Giunto ormai alle porte della Terra Promessa, il popolo d’Israele pensò
bene di esprimersi nella più devastante delle sue ribellioni al Dio che lo
aveva liberato dalla schiavitù d’Egitto, operando “miracoli e prodigi” (Sl
105:27), e che, donandogli una Legge ed un territorio (come promesso al
patriarca Abramo), lo stava elevando alla dignità di nazione. A quale popolo
era mai accaduto  di ritrovarsi
trasformato, nel giro di breve di tempo, da un’accozzaglia di schiavi sbandati
senza legge e senza patria ad una vera e propria nazione? Ma tutto questo non
bastò per convincere Israele ad avere fiducia nel suo Dio anche nei momenti di
difficoltà. Così, quando i dodici esploratori, inviati da Mosè per prendere
conoscenza diretta della Terra che Dio stava loro donando, tornarono a riferire
quanto avevano visto, il popolo si lasciò condizionare dai dieci di loro che,
pur apprezzando le bellezze e le ricchezze naturali di quella Terra, valutarono
come impossibile la sua conquista. Nessuno diede ascolto agli unici due, Giosuè
e Caleb, che, pur riconoscendo le difficoltà oggettive di entrare in possesso
di una Terra già abitata da altri, proclamarono la loro piena fiducia nella
guida sovrana di Dio: “Se il Signore ci è favorevole, ci farà entrare in quel
paese e ce lo darà… non vi ribellate al Signore e non abbiate paura…” (Nu
14:8). L’ennesima ribellione del popolo provocò il giusto giudizio di Dio:
“Fino a quando mi disprezzerà questo popolo? Fino a quando non avranno fede in
me dopo tutti i miracoli che ho fatto in mezzo a loro? Io lo colpirò con la
peste e lo distruggerò…” (Nu 14:11-12). Quel giudizio avrebbe poi portato
Israele indietro, nel deserto e un viaggio potenzialmente breve si sarebbe
trasformato in una sofferta peregrinazione durata ben quarant’anni.

Come era accaduto altre volte in passato, udendo il decreto della
giustizia divina (“Io lo colpirò e lo distruggerò”), Mosè non esitò un solo
istante a prostrarsi davanti a Dio per intercedere in favore del popolo. Dopo
aver ricordato “la potenza” (prodigi, miracoli, opere potenti) con la quale Dio
aveva fatto uscire Israele dall’Egitto, Mosè rivolge la sua supplica: “Ora si mostri, ti prego, la potenza del
Signore nella sua grandezza
” (Nu 14:17).

A quale “potenza del Signore” ed a quale “grandezza” si riferiva Mosè
nella sua invocazione? La nostra mente suggestionata da tutto ciò che è
spettacolare, è portata subito a pensare alla grandezza della potenza di Dio
nell’operare miracoli, nel “mostrarsi” con azioni ed eventi prodigiosi. Anche
al tempo di Gesù gli uomini erano attratti soprattutto dai suoi miracoli ed
ancora oggi è da questa potenza che gli uomini sono attratti, basti pensare
alle folle raccolte da chi privilegia nel suo annuncio di Cristo le promesse di
guarigione fisica. Ma non è questa
potenza che Mosè invocava
! Non è di questa “potenza” che il popolo aveva
bisogno, così come non è di questa “potenza” che gli uomini hanno bisogno oggi!
Leggendo il seguito del racconto e della preghiera, scopriamo che la potenza
che Mosè invoca è la potenza di
“perdonare l’iniquità e il peccato”
e che “la grandezza” di questa potenza
è relativa alla “bontà” di Dio. Gesù
ricordò quale è la potenza di Dio di cui
abbiamo maggior bisogno
, quando, al paralitico portato davanti a lui dai
suoi quattro amici, disse prima di ogni altra cosa: “Figliolo, i tuoi peccati
ti sono perdonati!” (Mr 2:7). Il nostro
maggior bisogno
è ancora oggi
conoscere nella nostra vita la potenza di Dio di perdonare l’iniquità e il
peccato
, quella potenza che si rivela a noi oggi attravero la croce. E
infatti la potenza di Dio che dobbiamo
proclamare è “la predicazione della croce”
(1Co 1:18). Le malattie
dell’uomo che lo fanno soffrire di più, nelle dimensioni personale, familiare e
sociale della sua vita, sono le malattie interiori provocate dalla sua condizione
di peccato. Sono queste malattie che Dio nella sua potenza vuole guarire!