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I primi due versetti che desideriamo esaminare sono i vv. 6-8 del capitolo secondo della lettera dell’apostolo Paolo ai Filippesi, nei quali vengono magistralmente delineati i tratti essenziali dell’umiltà e dell’ubbidienza di Gesù Cristo, vissuta a partire dalla sua preesistenza fino alla sua morte cruenta sul­­la croce…

Rileggiamoli ancora una volta:

 

(Cristo Gesù) il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma svuotò sé stesso,prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini; trovato esteriormente come un uomo, umiliò sé stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce…”

 

Il testo parla dell’ubbidienza di Gesù nel passato, sotto due profili che ne rappresentano altrettanti stadi progressivi: il suo annichilimento e il suo abbassamento. Di essi tratteremo qui di seguito: evidenzieremo i singoli punti della progressione “inversa” trattata in questi versetti, e che va dalla perfetta gloria alla profonda umiliazione di Gesù Cristo.

 

Per sommi capi, possiamo anticipare questi punti: il Signore non si aggrappò gelosamente al fatto di essere uguale a Dio, per natura ed essenza (v. 6), ma anzi svuotò, annullò ed annichilì sé stesso (v. 7a), prese forma di servo e divenne simile agli uomini (v. 7b), fino ad abbassarsi completamente e a farsi ubbidiente fino alla morte della croce (v. 8).

 

 

LO “SVUOTAMENTO” DI GESÚ

 

Il primo stadio, nel processo d’ubbidienza di Gesù nel passato, è senz’altro quello dell’annichilimento, narrato nei vv. 6-8a, in cui vengono esposti, succintamente e meravigliosamente, tre temi generali cari alla cristologia:

• la preesistenza e la deità di Cristo,

• la sua incarnazione,

• la perdita della sua gloria nel progetto redentivo di Dio.

 

Esaminiamo, qui di seguito, le singole espressioni contenute in questi versetti, cercando di evidenziare i punti salienti dell’esegesi del testo originale.

 

 

“Essendo in forma di Dio…”

 

In pochissime parole l’apostolo Paolo, ispirato dallo Spirito Santo, sintetizza splendidamente le verità fondamentali concernenti la preesistenza e la deità di Gesù Cristo: egli esisteva ancor prima che il mondo fosse creato per il semplice motivo che egli non è una creatura ma è il Creatore e sin dall’inizio era Dio per natura e per essenza intrinseca.

Molti altri brani del Nuovo Testamento confermano questi importantissimi assunti, relativi alla preesistenza e alla deità del Figlio eterno di Dio, e fra i tanti citiamo qui di seguito i principali, che si trovano in Gv 1:1-2; Gv 17:5; Cl 1:15; Eb 1:3; e 1 Gv 1:1-2:

 

• “Nel principio era la Parola, la Parola era con Dio e la Parola era Dio; essa era nel principio con Dio…”

• “ ‹Ora, o Padre, glorificami presso di te della gloria che avevo presso di te prima che il mondo esistesse…»”

• “(Gesù Cristo) è l’immagine del Dio invisibile…Egli è prima di ogni cosa e tutte le cose sussistono in lui…”

• “(Gesù Cristo) è lo splendore della sua gloria

e l’impronta della sua essenza…”

• “Quel che era dal principio, quel che abbiamo udito…vi annunziamo la vita eterna che era presso il Padre e che ci fu manifestata…”.

 

L’esegesi dell’espressione di Fl 2:6 al nostro esame deve iniziare dal gerundio “essendo”, che rende il senso del verbo “esistere” più che del verbo “essere”.

È significativo notare che nell’originale il verbo greco si trova qui al tempo presente: ciò indica, infatti, “la continua condizione del Cristo: egli era Dio e lo è ancora, per sua stessa essenza”. Può essere condivisa, allora, la traduzione della King James Version (KJV), che legge l’inciso con: “essendo originariamente”, a indicare che siamo di fronte ad una forte dichiarazione in merito alla preesistenza o all’esistenza pre-temporale del Cristo.

 

Il vocabolo più importante del nostro inciso di Fl 2:6, è senz’altro individuabile nella parola “forma”, che regge il complemento di specificazione “di Dio” e che rivela in quale modo la persona di Gesù Cristo sia associabile a quella di Dio stesso.

Il vocabolo “forma”, in particolare, traduce il sostantivo greco μορφή (= morfè), che rende l’idea generale della forma organica di un essere, nella quale si rinviene la sua essenza ovvero la sua natura permanente. In altre parole, questo termine denota la forma o la caratteristica speciale e tipica di una cosa o di una persona, la sua reale sostanza, che non dev’essere necessariamente visibile ma che senz’altro sussiste in essa fin dall’inizio e ne è componente inseparabile e indispensabile.

Nella letteratura greca e nelle opere extrabibliche prevale l’accezione di μορφή con riferimento all’apparenza esteriore, anche in rapporto alle visioni e alle apparizioni: in tal senso, peraltro, i LXX hanno tradotto il testo ebraico di Giobbe 4:16. Negli unici tre versetti del Nuovo Testamento in cui ricorre questa parola, invece, si alternano forme esteriori e transeunti (Mr 16:12) a caratteristiche intrinseche e permanenti (Fl 2:6, 7), in un’apparente contrapposizione che viene ridimensionata dal fatto che il brano di Marco 16:12 (“Gesù apparve in altra forma a due di loro” – versione Luzzi) parla, è vero, dell’esteriore forma umana di Gesù, ma sempre in relazione ad un sembiante provvisorio e diverso da quello da lui avuto in vita, con riferimento, pertanto, a uno dei differenti e particolari modi in cui il Signore manifestò sé stesso all’umanità.

La stessa parola, per altro, viene usata ancora nel successivo v. 7 di Filippesi 2, stavolta per rendere la “forma di servo” che Gesù prese dopo essere diventato uomo. È chiaro che qui lo Spirito Santo non si riferisce tanto ad una forma esteriore e visibile, quanto piuttosto ad un atteggiamento mentale, ad una disposizione interna dell’animo che scaturisce da una natura già definitivamente acquisita e geneticamente inalterabile.

Una conferma di ciò può essere data dall’uso biblico di altri due termini, composti e derivanti da μορφή, cioè i verbi μορφοομαι (= morfòomai) e μεταμορφοομαι (= metamorfòomai). Il primo, in Galati 4:19, si riferisce a quel cambio di comportamento che scaturisce da una condizione spirituale interna trasformata; il secondo, in Matteo 17:2 parla del mutamento della forma visibile di Gesù durante la trasfigurazione, mentre in Romani 12:2 e 2Corinzi 3:18 si applica alla trasformazione della struttura interna del credente, che si manifesta in modi esteriori visibili all’occhio umano.

D’altro canto, nella nostra lingua italiana non si parla forse di “metamorfosi” per intendere un cambiamento nella struttura interna, prima che nella forma esterna, da parte di animali e di piante?

Il vocabolo greco μορφή (= forma), peraltro, è in contrasto con l’altro termine σχήμα (= schema), presente al v. 8 di Filippesi 2, dove viene descritto l’aspetto fisico esteriore del Cristo, che era perfettamente umano. Nel Nuovo Testamento, quest’ulteriore vocabolo si riscontra ancora solo in 1Corinzi 7:31, dove sta scritto che “la figura di questo mondo passa”, con riferimento alle cose materiali e ai beni terreni, che per loro natura non sono eterni. Lo stesso termine σχήμα, d’altronde, è molto adoperato nella letteratura greca extrabiblica, ma esclusivamente nel senso di sembiante esteriore, di corpo umano, o più in generale di temporanea configurazione che sia visibile ad occhio nudo.

 

L’espressione completa adoperata nel brano di Fl 2:6 è morfè theù (= forma di Dio), frequente nella letteratura greca classica (es. Omero), dove ricorrono spesso ipotesi di dèi che prendono forma umana, benché ciò fosse contestato da filosofi come Socrate e Platone. Nella Bibbia, invece, quest’espressione composta si trova solo nel nostro versetto, nel quale lo Spirito Santo vuole rendere la manifestazione esteriore del Cristo preesistente, la quale corrispondeva perfettamente alla sua natura divina: in mancanza di un termine migliore, viene qui adoperata la parola “forma”, allo scopo di rappresentare ciò che è esterno e transeunte, ma come espressione visibile di ciò che è interno e permanente.

 

In altre parole, in Fl 2:6 questa espressione della lingua greca sta a indicare che Gesù Cristo era della stessa sostanza di Dio Padre sin dalla sua preesistenza, quando già portava l’immagine della divina maestà.

Si tratta di una delle affermazioni più importanti del Nuovo Testamento in merito alla deità di Cristo: qui si parla dell’aspetto esteriore del Cristo preesistente, che corrispondeva perfettamente alla sua natura divina e che egli ha perduto con l’incarnazione, al contrario della sua deità, che egli non poteva perdere in quanto era (ed è!) a lui connaturata indefettibilmente.

 

 

“…non considerò qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente…”

 

Ecco il primo stadio del processo che portò il Cristo dalla gloria che godeva alla destra del Padre all’umiliazione della croce. In questo primo stadio, possiamo immaginarlo alla presenza di Dio Padre, che vive la pienezza della deità e della gloria che gli appartiene ma, di fronte all’opportunità di realizzare il piano redentivo dell’intera umanità, Dio Figlio accetta di incarnarsi per rendersi ubbidiente al Padre, fino alle più estreme conseguenze.

 

Il vocabolo-chiave di quest’inciso è il sostantivo αρπαγμον (= arpagmòn), presente solo qui in tutto il Nuovo Testamento: si tratta di un termine raro nel greco classico assente nelle traduzioni greche dell’Antico Testamento. La Nuova Riveduta lo traduce: “qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente”, mentre altri lo rendono“rapina” (Luzzi) oppure “cosa da ritenere con avidità” (Diodati). Tutte queste traduzioni sono possibili, ma il punto cruciale è, piuttosto, comprendere che cosa significhi quest’espressione verbale nella sua intrinseca essenza.

Molte interpretazioni sono state proposte, ma quella che mi sembra più vicina al cuore di Dio e al contesto del brano, vede il Cristo nella sua pre-esistenza che già possedeva una perfetta uguaglianza con il Padre e si trovava nella posizione più alta ed eccelsa che si possa immaginare, posizione dalla quale nessuno poteva spodestarlo. Il Cristo partecipava alla natura divina e avrebbe potuto legittimamente approfittare del suo stato di assoluto privilegio ma, invece di aggrapparsi gelosamente a tale posizione e a tale privilegio, invece di afferrare con avidità per sé stesso la gloria e l’essere Dio, vi rinunciò e scelse l’incarnazione e l’umiliazione per essere poi dichiarato con potenza Signore e Figlio di Dio (cfr. Romani 1:4).

Di conseguenza, il Cristo non rinunciò alla sua deità ma rinunciò solo alla sua posizione ed alla forma esteriore della sua divinità: in vista della redenzione della sua creatura più amata, egli scelse liberamente e volontariamente la via della sofferenza e dell’ubbidienza, come cammino di santità verso l’affermazione incontrastata della sua signoria su tutte le cose.

Per chi dovesse preferire la traduzione “rapina”, sarà certamente apprezzato il commento di quegli studiosi che interpretano quest’inciso attribuendo a “rapina” il significato secondo cui Dio Figlio non pensò mai di essere colpevole di furto o di appropriazione indebita, quando condivideva la deità alla destra del Padre, e che, di conseguenza, vi rinunciò volentieri al fine di raggiungere l’altissimo obiettivo della redenzione dell’intera umanità.

In tal senso, allora, si può dire che il Cristo pre-incarnato non stava usurpando il diritto di nessun altro: egli poteva pretendere senz’altro di essere uguale a Dio… perché lo era! Per qualunque essere umano, invece, una pretesa del genere sarebbe un derubare Dio in quanto ai Suoi specifici diritti, dal momento che egli stesso dice chiaramente: “Io sono il Signore… Io non darò la Mia gloria ad un altro!” (Is 42:8).

 

 

“…l’essere uguale a Dio…”

 

Anche quest’ulteriore inciso conferma sinteticamente la preesistenza e la deità di Gesù Cristo, dal momento che egli possedeva pienamente la condizione, la natura e l’essenza di Dio stesso.

Il termine greco che noi traduciamo “uguale” significa “uguale in quantità oppure in qualità”.

Già nella sua preesistenza, il Signore Gesù Cristo sussisteva della stessa sostanza e natura di Dio Padre, ed era “uguale” a lui in tutti i sensi, dal momento che egli esisteva nella struttura essenziale e metafisica di Dio stesso.

Anche nella sua parentesi di vita terrena, d’altronde, Gesù affermò chiaramente di essere una cosa sola con Dio Padre (Gv 10:30) e per questo egli fu accusato di considerare sé stesso come Dio (v. 33). In precedenza (5:18), il Cristo aveva anche chiamato Dio suo Padre, affermando così indirettamente – secondo la sensibilità ebraica del tempo – di essere “uguale” a lui. In tal modo, il Cristo sgombrava il campo da ogni dubbio in merito alla sua natura divina, perfettamente e permanentemente tale, ma anche in relazione alla sua preesistenza rispetto al creato.

 

 

“…ma svuotò sé stesso…”

 

A questo punto entriamo nel vivo del secondo stadio del processo di umiliazione di Gesù Cristo: a seguito della decisione di non trattenere per sé la gloria, ed allo scopo di rendere possibile la redenzione dell’umanità peccatrice, ecco la determinazione di Dio Figlio che decide volontariamente e concretamente di realizzare il “grande salto” e di passare dalla forma esteriore di Dio a quella di uomo, con tutto ciò che tale “salto” poteva comportare.

In altre parole, siamo di fronte al risultato visibile, all’effettiva conseguenza della scelta, importantissima, già effettuata al v. 6: non aggrapparsi gelosamente alle proprie prerogative divine, per il Cristo significava in qualche modo “svuotarsene”, senza comunque cessare di essere Dio eterno e senza rinunciare alla propria deità, che in ogni caso faceva parte integrante di Sé.

Ma come poteva accadere tutto ciò?

Il verbo greco utilizzato nel nostro inciso nella Nuova Riveduta e nella Nuova Diodati è tradotto con “svuotò”, mentre altre versioni rendono “annichilì” (Luzzi, Diodati) oppure “spogliò” (Nuova Riveduta 1982). Questo verbo ha tre significati nel Nuovo Testamento: letteralmente significa “svuotare”, e in senso traslato fornisce l’idea di “rendere vano” (così in Ro 4:14 e in 1Co 1:17, 9:15) oppure anche di “essere smentito” (così in 2Co 9:3).

Nel nostro brano prevale il primo significato, per cui è stato affermato che, in questo caso, la traduzione“annichilì” non sarebbe preferibile in quanto renderebbe proprio l’idea di “rendere vano, annullare” più che di“svuotare”. Il Cristo, in realtà, non rese vana la sua deità e neppure l’annullò: fattosi uomo, piuttosto, egli rimase quale era per essenza, cioè Dio, modificando soltanto le modalità di esistenza e di manifestazione della Sua deità.

Un ampio dibattito teologico si è acceso, durante i secoli, intorno alla migliore interpretazione da dare allakenòsis del Cristo. In questa sede non abbiamo la pretesa e neanche la volontà di ripercorrere tale dibattito, ma ricordiamo solo che le evidenze scritturali, anche di Filippesi 2:7, non appoggiano né i teologi della “teoria massimale”, secondo cui il Cristo avrebbe rinunciato alla sua gloria solo in apparenza perché avrebbe invece conservato intatte tutte le qualità della deità, né gli studiosi che sposano la cosidetta “teoria minimale”, per la quale il Cristo incarnato avrebbe rinunciato completamente ai suoi attributi divini e, per un tempo, avrebbe abbandonato del tutto la sua gloria.

 

Dalla Scrittura, invece, deduciamo con chiarezza che Dio Figlio, con l’incarnazione, continuò a possedere tutti gli attributi divini, ma per trentatré anni fu limitata la sua gloria e vennero modificati l’esercizio e la manifestazione delle sue capacità divine. In altre parole, Gesù mise da parte e non rese visibili i suoi onori e il suo splendore ma, allo stesso tempo, non si svuotò della sua deità, cedendo piuttosto al Padre, e volontariamente, il diritto di esercitarne i relativi attributi. Il Signore, cioè, nella sua vita terrena manifestò la propria potenza divina solo se e quando era il momento giusto per Dio Padre. Per fare solo un esempio: Gesù era onnisciente e onnipotente (cfr. Gv 2:24-25; 5:19-21) non sempre manifestò tale qualità o ne fece uso (cfr. Mr 11:13-14, 20; Gv 11:34), evidentemente perché ciò non rientrava nella volontà del Padre.

 

È interessante notare che il testo non dice espressamente di che cosa il Cristo si spogliò, ma solo che egli“svuotò sé stesso”: non vi sono complementi oggetto che chiariscano gli elementi concreti di tale svuotamento, né vengono definite in senso metafisico le specifiche limitazioni che visse il Cristo incarnato. Nei due gerundi che seguono nel testo, però, lo Spirito Santo fornisce una descrizione chiara e forte di che cosa significò l’atto di rinuncia del Figlio di Dio: Egli divenne uomo e servo, e in tal modo la Scrittura esprime in modo sintetico e scultoreo quello che fu l’ineffabile atto di abnegazione del Cristo (cfr. 2Co 8:9).

 

 

“…prendendo forma di servo…”

 

Questo è il primo contenuto pratico della scelta di Cristo di “svuotare sé stesso”: a seguito della trasformazione qualitativa realizzata con l’incarnazione, il Figlio di Dio scelse anche di divenire un vero e proprio servo dell’umanità (cfr. Mt 20:28), nella piena realizzazione delle profezie dell’Antico Testamento concernenti il Servo dell’Eterno, noto anche come “il Servo sofferente” (es. Is 52:13-53:12).

Nella sua esistenza terrena, vissuta nella perfetta ubbidienza al Padre, Dio Figlio fu sublime esempio di ciò che significa essere contemporaneamente servo di Dio e servo degli uomini. Questa coincidenza di status di servizio è da intendersi in senso spirituale ed etico e va riferita alla condizione intrinseca dell’anima, che è visibile all’esterno solo in parte e solo per mezzo di concrete scelte di vita. Non meraviglia, allora, che ritroviamo qui il termine morfè il quale, come sappiamo, significa “forma”, nella specifica accezione di struttura interna di un essere vivente, la quale si manifesta anche all’esterno nei comportamenti e negli atteggiamenti, ma ha a che fare soprattutto con il segreto dell’anima.

Questa “forma di servo” è in evidente contrasto con la “forma di Dio” del precedente v. 6: Dio Figlio si trovò sulla terra in una situazione ontologica completamente diversa e del tutto inconciliabile con quella che viveva in precedenza nella gloria del Cielo… Dio che prende forma di uomo e addirittura di servo: questo è lo scandalo del Vangelo, difficile da comprendere e da accettare per noi uomini, ma agli occhi di Dio esso identifica un perfetto atto di ubbidienza del Messia.

 

L’altra parola greca dùlos, che traduciamo “servo”, non sottolinea tanto la posizione sociale di uno schiavo quanto piuttosto la sua dipendenza psicologica dal padrone. Questo termine si trova 122 volte nel Nuovo Testamento, in Filippesi anche in 1:1, e nel nostro versetto non significa in alcun modo “schiavo” quanto piuttosto “servo” perché sottolinea in modo particolare la sottomissione al Padre, vissuta da Dio Figlio incarnato in quei trentatré anni di vita terrena, ma anche l’umanità di Gesù Cristo in tutta la sua fragilità e finitezza (cfr. Ro 8:3; Eb 2:14).

Il Signore non ha posto limiti al suo abbassamento, che era assolutamente necessario per realizzare la missione divina della redenzione dell’umanità. Entrando nella storia, Egli divenne un uomo e si abbassò ancora di più, perché nel suo intimo divenne un umile servitore di Dio e della stessa umanità, che Egli doveva riscattare dalla giusta condanna eterna.

 

Infine, il gerundio “prendendo”, non implica un cambio nella deità di Cristo quanto piuttosto un’aggiunta nella sua struttura essenziale: Gesù non poteva cessare di essere Dio ma allo stesso tempo per una parentesi di trentatré anni divenne uomo e, ancor più, servitore di tutti. Egli non ricevette né onori né gloria, visse in povertà assoluta e fece del bene a tutti, fino a dimostrare, anche visibilmente, il suo spirito di servizio, per esempio quando lavò umilmente i piedi ai suoi stessi discepoli (Gv 13:5-17)28.

 

 

“…divenendo simile agli uomini; e trovato esteriormente come un uomo…”

 

Eccoci, ora, dinanzi alla seconda conseguenza pratica della scelta del Cristo di “svuotare sé stesso”: Gesù nella sua incarnazione associò una natura di servitore ad una sembianza esterna di uomo, entrambe a lui del tutto sconosciute prima di allora.

Abbiamo preferito unificare le due espressioni verbali che intitolano questo paragrafo perché esse, seppure siano grammaticalmente distinte, esprimono il medesimo concetto, relativo alla visibilità dell’incarnazione del Figlio di Dio.

 

La prima espressione (“divenendo simile agli uomini”) è diretta conseguenza e chiarimento dello svuotamento del Cristo esposto nel v. 7: essa probabilmente conclude concettualmente questa parte del nostro brano, descrivendo anche ciò che il Cristo incarnato era al cospetto di Dio.

 

Con la seconda espressione, invece, (“trovato esteriormente come un uomo”) forse si dà inizio ad una nuova argomentazione e sicuramente si pone una “cerniera” con l’affermazione precedente, rafforzandola e sottolineando l’oggettiva visibilità delle sembianze umane di Gesù. Nella sua vita terrena, il Signore non fu solo“simile” agli uomini, ma fu proprio come uno di noi, almeno nelle sembianze esteriori, che chiunque poteva riconoscere come perfettamente umane.

Dal punto di vista esegetico, nella prima espressione verbale si può innanzitutto notare il netto contrasto fra il gerundio “divenendo” ed il precedente gerundio “essendo”. In quest’ultimo caso, infatti, si parlava dell’immutabile esistenza eterna del Cristo come Dio, mentre nel nostro vocabolo viene menzionato un provvisorio “diventare” ciò che prima non si era, con particolare riferimento a quella forma esteriore che fu assunta da Dio Figlio nella sua breve esistenza terrena.

Degno di rilievo è anche l’inciso che di norma viene tradotto “simile” ma che letteralmente sarebbe “in similitudine” oppure “in apparenza”.

 

Si tratta dello stesso vocabolo usato dallo Spirito Santo in Romani 1:23 e in Apocalisse 9:7 per rappresentare una somiglianza fisica in relazione a cose inanimate e ad animali, nonché in Romani 5:14, 6:5 e 8:3 per indicare un’assimi-

latitela di tipo concettuale. In Romani 8:3, in particolare, questa similitudine viene riferita allo stesso Gesù Cristo: egli era il Figlio di Dio venuto “in carne, simile a carne di peccato”, e ciò conferma che il Signore, nella sua parentesi relativa all’incarnazione, fu riconosciuto da tutti come un uomo, per il semplice motivo che ne aveva tutti i connotati fisici, anche se la sua persistente natura divina e la sua ubbidienza al Padre impedirono che egli peccasse e che, da questo punto di vista, si andasse oltre ad una mera rassomiglianza con il resto dell’umanità.

 

Sotto un altro punto di vista, può essere utile sottolineare che lo stesso termine è usato dai LXX per tradurre la“somiglianza” iniziale dell’uomo con Dio, di cui leggiamo in Genesi 1:26. Ciò potrebbe anche implicare che quella rassomiglianza, corrotta con il peccato, è stata ristabilita da Dio stesso quando ha preso forma umana, ed è valida ed efficace ancora oggi per tutti coloro che si fanno perdonare e rigenerare dal Signore Onnipotente.

 

Una buona illustrazione della “similitudine” temporanea fra Cristo e l’uomo può essere data dalla novella “Il principe e il povero” di Mark Twain. Il figlio del re d’Inghilterra decise di cambiare per un tempo la sua posizione con quella di un ragazzo povero che fisicamente gli rassomigliava molto: in tal modo il principe sperimentò per qualche tempo che cosa significava la povertà e la fame, e seppe farne tesoro una volta che divenne re egli stesso.

 

In modo parzialmente analogo, il Cristo, quando si fece uomo, assunse tutta l’umanità possibile e rinunciò all’uso indipendente dei suoi attributi divini: quando fece miracoli o manifestò in altro modo la sua gloria, Gesù lo fece sempre sotto la direzione di Dio Padre e con la potenza di Dio Spirito (cfr. Lu 4:14; Gv 5:19; 8:28; 14:10).

Per quanto riguarda, poi, la seconda espressione verbale del nostro inciso, dal punto di vista esegetico il vocabolo più interessante è senz’altro il dativo singolare σχήματι (= schèmati), tradotto “esteriormente”oppure “nell’esteriore”, che rende l’idea, a noi ben nota, di quella struttura esteriore della forma che può essere intesa dai cinque sensi umani, ovvero di quell’apparenza esterna che qualsiasi cosa o persona in possesso di una propria configurazione visibile può avere, anche se solo in via temporanea.

 

Non si tratta, allora, di una completa identità tra il Figlio di Dio e qualsiasi creatura umana, quanto piuttosto di una mera rassomiglianza nelle sembianze esteriori.

Gesù era Dio e possedeva anche una natura di vero servitore, ma esteriormente era del tutto come un qualsiasi altro uomo, specie per quanto riguarda le fattezze esteriori. Dio Figlio non venne sulla terra per regnare e non apparve in pompa magna come qualsiasi futuro re terreno: per sua iniziativa e volontà, con il suo pieno consenso, il Cristo lasciò la gloria e visse per un tempo in mezzo a noi senza alcun segno esteriore di distinzione.

Anche il Figlio di Dio, per esempio, fu sottoposto alle tentazioni come noi, però senza mai peccare (Eb 4:15); anch’egli soffrì (Eb 5:8) e pianse (Gv 11:35), ebbe fame (Mt 4:2) e sete (Gv 4:7)… esattamente come ciascuno di noi.

 

Nella sua vita terrena, il Signore accettò totalmente la condizione umana e la visse in pieno, tanto che oggi può comprenderci in ogni nostro bisogno e in ogni nostra necessità, oltre a venirci in soccorso in ciascuno di essi.