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Normalmente non viviamo tutti gli incontri della “nostra” chiesa locale con la stessa intensità di attenzione e di partecipazione. Siamo silenziosi e concentrati nei momenti di preghiera, ci sforziamo di essere attenti all’annuncio della Parola, stiamo tutti compunti a capo chino durante il passaggio dei simboli… I momenti di maggior distrazione e, quindi, di partecipazione più distratta e superficiale sono sicuramente quelli in cui si canta: un’occhiata alla raccolta di inni, uno sguardo a destra o a sinistra (o anche dietro!), non ci si preoccupa di intonare bene la voce (a volte il cantare diventa una sorta di bofonchioso borbottio), se ci sfugge qualche parola non ci preoccupiamo, perché non seguiamo il testo del canto e non pesiamo le parole che intoniamo davanti al Signore. Così che il nostro cantare diventa un “tanto pe’ canta’” come recitava anni fa il ritornello di una nota canzone in romanesco. Che dire poi di chi guida il canto, cantando o suonando? Se in una raccolta ci sono oltre cinquecento canti, chi guida deve prepararsi per poterli suonare tutti. Meglio ricorrere ad una raccolta ridotta piuttosto che sentir dire: “Questo non lo sappiamo, scegliamone un altro”! Se è lo Spirito che guida i nostri culti, non è forse un modo di contristarlo quello di costringerlo a ripetute seconde scelte, suggerendo immediate alternative all’inno che “non conosciamo”? Se la situazione è questa, aveva ragione quel caro fratello che anni fa mi confidava la sua personale contrarietà ad aprire un locale di riunione pubblico per la “propria” chiesa locale dal momento, mi disse, che “non sappiamo cantare e non vogliamo offrire una brutta impressione a chi dovesse entrare”. Abbiamo mai pensato seriamente che, quando ci raduniamo, lo facciamo “nel nome del Signore” ed “alla presenza del Signore” e, ancor prima che ad eventuali “ospiti”, quante “brutte impressioni” facciamo al Signore?!? I nostri canti sono per lui un suono melodioso oppure sono soltanto “un rumore” (vedi Amos 5:23)? 
    Mi ha colpito, studiando in questi giorni la vita del re Ezechia, leggere che, nel ripristinare il culto all’interno del Tempio dopo averlo fatto ripulire da immondezze di ogni genere, il re “stabilì i Leviti nella casa del Signore con cembali, con saltèri e con cetre, secondo l’ordine di Davide, di Gad, il veggente del re, e del profeta Natan; poiché tale era il comandamento dato dal Signore per mezzo di suoi profeti”. Poi “nel momento in cui si cominciò l’olocausto, cominciò pure il canto del Signore ed il suono delle trombe, con l’accompagnamento degli strumenti di Davide… tutto questo continuò fino alla fine dell’olocausto” (2Cr 29:25, 27, 28). La musica ed il canto nel culto erano stati richiesti da un preciso “comandamento dato dal Signore”. Non erano un optional, una scelta fatta tanto per rendere più vivo, più gioioso e più movimentato l’incontro. La musica ed il canto erano espressioni del cuore vissute con solennità, con impegno, con ordine e con profonda serietà, perché espressamente richieste e volute dal Signore. 
    Mi chiedo se solennità, impegno, ordine, serietà caratterizzano, durante i nostri incontri, il servizio di chi suona ed il canto di tutta l’assemblea chiamata a cantare “di cuore a Dio, sotto l’impulso della grazia, salmi, inni e cantici spirituali” (Cl 3:16). 
    Quanto sarebbero più belli, più vivi, più sentiti e, soprattutto, più graditi a Dio tutti i nostri culti, se cantassimo davvero “di cuore”: non borbottando ma a piena voce; scegliendo canti dai testi ricchi e significativi: non ripetitivi e banali; pesando bene le parole di lode, di confessione della nostra fede, di impegno alla consacrazione, alla santificazione ed al servizio che cantiamo! La musica e il canto accompagnarono l’offerta dell’olocausto da parte di Ezechia?”fino alla fine”. Che essi possano avere la stessa continuità e solennità anche nei nostri incontri!