Introduzione
Fu a Basilea che Calvino portò a termine, nell’agosto del 1535, la prima edizione di quella che resta la sua opera più significativa e migliore: la Institutio christianae religionis.
Scritta in latino e pubblicata nel marzo del 1536 con una lettera dedicata a Francesco I, nella quale Calvino difendeva il protestantesimo dalle accuse dei suoi nemici, comprendeva soltanto sei capitoli.
Ma nel 1539 vi fu una seconda versione pubblicata a Strasburgo ampliata di diciassette capitoli, la quale conobbe una traduzione francese nel 1541 per mano dello stesso Calvino.
Una terza edizione latina fu pubblicata sempre a Strasburgo nel 1543 raggiungendo i 21 capitoli e con una traduzione francese nel 1545.
Nel 1559 vi fu l’edizione definitiva con l’opera divisa in quattro libri e di ottanta capitoli complessivi. L’edizione francese uscì nel 1560. Nell’esaminare alcuni stralci di questo libro non farò nessun commento, ma ne citerò alcune parti significative solo per dare un’idea di ciò che era il fondamento dottrinale di Calvino.
Il primo libro
Il primo libro parla della conoscenza di Dio ed in tale trattato Calvino si oppone fortemente alla raffigurazione di Dio.
Egli dice “questa grossolana follia si è diffusa fra tutti gli uomini spingendoli a desiderare le immagini visibili per raffigurarsi Dio, infatti se ne sono costruite di legno, di pietra, d’oro, d’argento e di ogni materiale corruttibile” (I, 12, 1).
Inoltre Calvino ripropone la dottrina ortodossa della Trinità. Egli afferma:
“Dio si presenta quale solo Dio e si offre per essere contemplato, distinto in tre Persone e affinché nessuno immagini un Dio a tre teste o triplo nella sua essenza, oppure pensi che l’essenza semplice di Dio sia divisa e spartita” (I, 13, 2). Calvino chiarisce che per “persona” occorre intendere ipostasi o sussistenza “una realtà presente dell’essenza di Dio, in relazione con le altre ma distinta per una proprietà incomunicabile; e questo termine presenza deve essere inteso in un senso diverso di essenza” (I, 13, 6).
I termini Padre, Figlio e Spirito Santo indicano una vera distinzione, non sono “appellativi diversi attribuiti a Dio semplicemente per definirlo in diversi modi, tuttavia dobbiamo ricordare che si tratta di una distinzione, non di una divisione” (I, 13, 17).
Il secondo libro
Il secondo libro tratta della Persona del Signore Gesù Cristo, il Dio Redentore della “nostra misera condizione sopravvenuta per la caduta di Adamo” (II, 1, 1).
Calvino nega la dottrina pelagiana che insegna all’uomo ad avere fiducia solo su sé stesso e considera “inverosimile che i bambini nati da genitori credenti ne ricevano corruzione e li considerano invece purificati dalla purezza di questi” (II, 1, 7).
Dopo aver analizzato le definizioni di libero arbitrio portate da Cicerone fino a Tommaso d’Aquino, passando per Crisostomo e Bernardo di Chiaravalle, rileva come essi riconoscano “all’uomo il libero arbitrio non perché abbia libera scelta fra il bene e il male ma perché fa quello che fa volontariamente e non per costrizione. Questo è esatto. È però ridicolo attribuire qualità sì grandiose ad una realtà così fatta. Bella libertà per l’uomo il non essere costretto a servire il peccato, ma di essergli schiavo volontariamente al punto che la sua volontà sia prigioniera dei suoi legami.”(II,2,7).
Sulla scorta di Agostino e di Lutero, sostiene che “la volontà dell’uomo non è libera senza lo Spirito di Dio, dato che è soggetta alle proprie concupiscenze” e che “l’uomo usando male il libero arbitrio, lo ha perduto ed ha perduto sé stesso: il libero arbitrio è in cattività e non può operare il bene: non sarà libero fino a che la grazia di Dio non lo abbia liberato” (II,2,8).
Se la salvezza dell’uomo è possibile solo attraverso Cristo, allora la legge mosaica fu data per “mantenere viva l’attesa” (II,7,1) e se il culto ebraico – fatto di sacrifici animali e “fumo puzzolente per riconciliarsi con Dio […] appare un gioco sciocco e infantile” (II,7,2), occorre tenere presente i simboli cui corrispondono verità spirituali.
Tre sono i compiti delle legge morale: “mostrando la giustizia di Dio, la legge fa prendere coscienza ad ognuno della propria ingiustizia, convincendolo e condannandolo” (II,7,6) e facendo sorgere la coscienza del peccato.
La seconda funzione “consiste nel ricorrere alle sanzioni per mettere un freno alla malvagità di quanti si curano di fare il bene solo quando sono costretti” (II,7,10), mentre la terza e principale “si esplica fra i credenti nel cui cuore già regna ed agisce lo Spirito di Dio […] per far loro sempre meglio e più sicuramente comprendere quale sia la volontà di Dio”(II,7,12). È tuttavia Gesù Cristo, venuto ad abolire la legge fatta di precetti e “con la purificazione operata dalla sua morte […] ha abolito tutte quelle pratiche esteriori con cui gli uomini si confessano debitori di Dio senza poter essere scaricati dei loro debiti” (II,7,17).
Esistono differenze fra il Vecchio e il Nuovo Testamento: quest’ultimo ha rivelato più chiaramente “la grazia della vita futura […]senza dover ricorrere […] a strumenti pedagogici inferiori” (II,11,1); il Vecchio Testamento “rappresentava la verità, ancora assente, mediante immagini; invece del corpo, aveva l’ombra (II,11,4), in esso vi è, come scrive Paolo nella II lettera ai Corinzi, dottrina letterale predicazione di morte e di condanna scritta su tavole di pietra,l’Evangelo invece dottrina spirituale di vita e di giustizia scolpita nei cuori, afferma inoltre che la legge deve essere abolita e che l’Evangelo permane” (II,11,7).
L’Antico Testamento “genera timore e terrore nel cuore degli uomini, il Nuovo Testamento […] li conferma nella sicurezza e nella fiducia”(II,11,9).
Il terzo libro
Il terzo libro parla della Persona dello Spirito Santo.
Per ottenere i benefici del sacrificio di Cristo occorre che Egli “diventi nostro ed abiti in noi” mediante la fede in lui, ottenuta dall’intervento dello Spirito Santo, il quale “costituisce il legame mediante il quale il figlio di Dio ci unisce a sé con efficacia” (III, 2, 6). Pertanto, la fede è “una conoscenza stabile e certa della buona volontà di Dio nei nostri confronti, conoscenza fondata sulla promessa gratuita data in Gesù Cristo, rivelata al nostro intendimento e suggellata nel nostro cuore dallo Spirito Santo” (III, 2, 7). Citando la lettera ai Romani, Calvino sostiene che Dio “senza riguardo ad alcuna opera, sceglie coloro che ha decretato in sé […] noi otteniamo la salvezza, se non per la pura liberalità di Dio[…] e non è per dare una ricompensa, che non può essere dovuta” (III, 21, 1).
La predestinazione alla salvezza, secondo Calvino, è divenuto un problema unicamente a causa dell’“audacia e della presunzione” della mente umana, desiderosa di “non lasciare a Dio nulla di segreto, di inesplorato o di non esaminato […] è assurdo che le cose le quali Dio ha voluto tenere nascoste e di cui si è serbata la conoscenza, siano impunemente valutate dagli uomini […] i segreti della sua volontà, che ha pensato fosse opportuno comunicarci, ce li ha manifestati nella sua parola e ha ritenuto opportuno farci conoscere tutto quel che ci concerne e ci giova” (III, 21, 1).
Calvino crede nella predestinazione “per mezzo della quale Dio ha assegnato gli uni a salvezza e gli altri a condanna eterna” (III, 21, 5) ma non possiamo stabilire chi sia salvato e chi dannato, se non coloro “a cui Dio non solo offre la salvezza, ma dà anche una certezza tale, per cui la realtà non può essere incerta né dubbia […] nell’adozione della discendenza di Abramo è apparso chiaramente il favore generoso di Dio, che egli ha negato a tutti gli altri; ma la grazia accordata ai membri di Gesù Cristo ha ben altra preminenza di dignità, poiché essendo uniti al loro capo, non sono mai tagliati fuori dalla loro salvezza” (III, 21, 6).
Il quarto libro
Il quarto libro parla della Chiesa.
Calvino afferma che affinché “la fede sia generata in noi, cresca e progredisca” e continui la predicazione dell’Evangelo, Dio ha istituito la Chiesa, i pastori, i dottori ed i sacramenti, come “strumenti particolarmente utili ad alimentare e confermare la nostra fede” (IV, 1, 1). Secondo Calvino, fuori dalla Chiesa “non si può sperare di ottenere remissione di peccati o salvezza alcuna”.
Esiste una Chiesa invisibile, nel senso che è formata dalla comunità di tutti gli eletti, che sono noti solo a Dio e una Chiesa visibile, la concreta e storica comunità dei credenti, nella quale oltre ai buoni, vi sono anche gli ipocriti “che non hanno nulla di Gesù Cristo fuorché il nome e l’apparenza, ambiziosi gli uni, avari gli altri, maldicenti alcuni, dissoluti altri, tollerati per un certo tempo sia perché non si possono convertire con provvedimenti giuridici, sia perché la disciplina non è sempre esercitata con la fermezza che sarebbe richiesta” (IV, 1, 7).
Non tutte le Chiese che tali si definiscono, possono essere considerate autentiche: il criterio per riconoscere l’autentica Chiesa visibile è riscontrare se in essa “la Parola di Dio essere predicata con purezza, ed ascoltata, i sacramenti essere amministrati secondo l’istituzione di Cristo” (IV, 1, 9).
La Chiesa è retta preminentemente dagli apostoli, dai profeti e dagli evangelisti, alle origini “quantunque a volte ne susciti ancora oggi quando se ne presenta la necessità” e poi dai pastori e dai dottori, secondo quanto scrive Paolo nella lettera agli Efesini.
Di dottori e pastori la Chiesa non può fare a meno: “i dottori non hanno incarico disciplinare, né di amministrazione dei sacramenti, né di fare esortazioni o ammonizioni, ma solo di esporre la Scrittura affinché sia sempre conservata nella Chiesa una dottrina pura e sana. La carica di pastore invece comprende tutte queste mansioni” (IV, 3, 4). Calvino polemizza con la Chiesa cattolica, accusandola di aver istituito articoli di fede in contrasto con le Scritture. Egli afferma che i cattolici “seguendo la loro fantasia e senza alcun riguardo per la parola di Dio, le dottrine che a loro piace […] non considerano cristiano se non chi vive in pieno accordo con tutte le loro decisioni […] il loro principio fondamentale è che spetti l’autorità della Chiesa creare nuovi articoli di fede” (IV, 8, 10).
Per Calvino, il sacramento è “un segno esteriore mediante cui Dio suggella nella coscienza nostra le promesse della sua volontà di bene nei nostri riguardi, per fortificare la debolezza della nostra fede e mediante il quale, dal canto nostro, rendiamo testimonianza, sia dinanzi a lui e agli angeli, sia davanti agli uomini, che lo consideriamo nostro Dio” (IV, 14, 1). Calvino sottolinea che essi non hanno in sé stessi la facoltà di confermare e accrescere la nostra fede, se non quando “il Maestro interiore delle anime, lo Spirito, vi aggiunge la sua potenza, la sola in grado di raggiungere i cuori e toccare i sentimenti per dare accesso ai sacramenti” (IV, 14, 9). Calvino rifiuta i cinque sacramenti dell’ordinazione, della confessione, della cresima, del matrimonio e dell’estrema unzione, ma conferma il battesimo e la Cena eucaristica (IV, 14, 22).
Calvino, inoltre, in risposta agli anabattisti, sostiene la validità del battesimo dei bambini, in quanto, sempre secondo il riformatore, esso è segno mediante il quale ci si dichiara membri del popolo di Dio essendo l’equivalente della circoncisione ebraica (IV, 16, 6).
Nella cena eucaristica, il pane ed il vino “rappresentano il nutrimento spirituale che riceviamo dal corpo e dal sangue di Gesù Cristo […]affinché saziati della sua sostanza riceviamo di giorno in giorno nuovo vigore fino a giungere all’immortalità celeste” (IV, 17, 1). Calvino afferma che Cristo nella cena, sotto i segni del pane e del vino, ci ha offerto realmente sé stesso, cioè “il suo corpo e il suo sangue, nei quali ha adempiuto ogni giustizia per procurarci la salvezza: e questo accade in primo luogo affinché siamo uniti in un corpo con lui, in secondo luogo, affinché, resi partecipi della sua sostanza, percepiamo la sua potenza, avendo comunione a tutti i suoi benefici” (IV, 17, 10).
Calvino aggiunge che non bisogna concepire tale presenza “quasi il corpo di Cristo scendesse sul tavolo e fosse qui localizzato per essere toccato dalle mani, masticato in bocca e inghiottito nello stomaco. Fu papa Nicola a dettare questa bella formula a Berengario come attestato del suo pentimento. Sono parole di tale enormità da lasciare stupefatti” (IV, 17, 12).
Conclusione
Come già accennato nel primo articolo lo scopo a cui si vuole giungere non vuole essere assolutamente polemico. Anzi è importante iniziare con l’analisi, seppure concisa, della vita di Giovanni Calvino proprio per il fatto che quest’uomo lasciò un’impronta indelebile nel periodo della Riforma. In lui si ravvisano il coraggio e la determinazione proprie di un cristiano che ha dovuto affrontare un periodo turbolento, burrascoso e dominato dal potere della Chiesa Cattolica Apostolica Romana.
Con i prossimi articoli non soltanto verranno analizzati i cinque punti del TULIP (vedi nota alla fine del primo articolo, ma riprenderemo alcune citazioni tratte dal libro “Istituzione della religione cristiana” e li commenteremo alla luce della Parola di Dio.