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“Il SIGNORE, il tuo Dio, farà sorgere in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta come me; a lui darete ascolto!” (De 18:15).

 

“Su qualsiasi argomento Gesù si fosse pronunciato, non c’era più bisogno di aggiungervi nulla” (J. Oswald Sanders).

 

 

Introduzione

 

L’incontro di Gesù con la Samaritana illustra come la sua vita manifestava l’amore di Dio, un amore che non discrimina né fra i sessi né fra le diverse razze né pone condizioni prima di manifestarsi.

Quest’amore per tutti i discendenti di Adamo portò Gesù alla croce, scopo primario dell’incarnazione (Gv 12:27-32; 1Gv 4:10).

 

Ma oltre a essere amore, Dio è anche luce. In modo analogo la vita di Cristo è descritta come “piena di grazia e verità” (Gv 1:14).

Ora considereremo il secondo di questi aspetti: in quale modo Gesù rivelava e insegnava la verità come nessun altro abbia mai fatto prima e dopo di lui.

Questo secondo scopo dell’incarnazione indusse l’apostolo Giovanni a chiamare Gesù la Parola, anche perché insegnava tanto con l’esempio quanto a voce (Gv 1:1-18).

Poco dopo il suo ritorno in Galilea Gesù pronunciò il discorso che, più di qualunque altro, lo ha fatto conoscere come il Maestro per eccellenza.

 

Nel suo sermone sul monte (Mt capp. 5, 6 e 7) a partire dalle “beatitudini”, il Figlio di Dio insegna che, ancora di più delle nostre azioni, contano le motivazioni che le stanno dietro.

Questo capovolgimento dei valori che dominano nella società umana, illustra bene l’origine divina del suo insegnamento.

Un altro aspetto importante del sermone sono gli imperativi, in particolare i comandamenti indirizzati ai discepoli di tutti i tempi (si veda Mt 28:18-20).

Un terzo aspetto di fondamentale importanza è costituito dai termini con cui Gesù definisce il suo rapporto con i libri di Mosè e i profeti.

Lungi dall’abolirli Gesù afferma la propria intenzione di portare a compimento ciò che essi contengono (Mt 6:17-20), cosa che ha fatto in tre modi:

• _completando la rivelazione speciale (Gv 16:12-15; Eb 1:1-2),

• _vivendo in completa conformità con la volontà di Dio e

• _adempiendo molte delle predizioni che essi contengono (Mt 4:13-17).

 

 

Le profezie si adempiono

 

Fin dai primi tempi il ministero di Gesù riscontrò una risposta positiva nei Galilei. Come già notato, quando andò in Galilea “fu accolto dai Galilei, perché avevano visto le cose che egli aveva fatte in Gerusalemme durante la festa [della Pasqua]” (Gv 4:45; cfr. 2:23).

 

Appena arrivato in Galilea, Gesù si recò nuovamente a Cana, dove aveva operato il suo primo segno miracoloso. Mentre era lì gli venne incontro un ufficiale di Erode, il cui figlio era infermo, a Capernaum. Gesù guarì questo figlio a distanza (Gv 4:46-54). Questo fatto e la fede dell’ufficiale fanno sì che questo secondo segno costituisca un invito alla gente di ogni tempo e luogo a riporre fede in Gesù.

 

Da Cana Gesù andò a Nazaret ed, entrato nella sinagoga com’era sua abitudine nel giorno di sabato, accettò di leggere un brano dal rotolo di Isaia. Dopo aver riconsegnato il libro all’inserviente, “si mise a sedere, e gli occhi di tutti nella sinagoga erano fissi su di lui” (Lu 4:20). Avendo guadagnato l’attenzione di tutti, Gesù applicò a sé stesso il programma messianico contenuto in Isaia 61:1-2a.

Non è un caso che si fermò con le parole “per proclamare l’anno di grazia del Signore”, rimandando al futuro la realizzazione del “giorno di vendetta del nostro Dio” (cfr. Gv 12:47; 5:24-29). Nella continuazione del suo discorso Gesù rievocò alcuni aspetti del ministero di Elia ed Eliseo per comunicare ai suoi concittadini il seguente messaggio: Israele rischia di rimanere a guardare ciò che è “l’anno accettevole del Signore”, lasciando che fossero soprattutto i Gentili a sperimentare la salvezza di Dio.

Queste parole produssero un effetto drammatico. Infatti, ciò che era stata la meraviglia dei suoi concittadini si trasformò in rabbia, al punto che cercarono di uccidere il loro concittadino che ora si presentava come il Messia. Da parte sua, Gesù, dopo essere scampato al tentativo di precipitarlo giù dal ciglio del monte sul quale era costruita Nazaret, lasciò il villaggio che lo aveva rigettato e, per quanto ne sappiamo, non vi tornò più.

 

Capernaum (“villaggio di Naum”), dove Gesù era diretto, era una cittadina situata sulla riva del lago di Galilea.

Questa cittadina diventò il fulcro del ministero di Gesù per un anno, durante il quale raggiunse l’apice della propria popolarità in Galilea. Matteo commenta questa circostanza come segue: “lasciata Nazaret, [Gesù] venne ad abitare in Capernaum, città sul mare, ai confini di Zabulon e di Neftali, affinché si adempisse quello che era stato detto dal profeta Isaia: «Il paese di Zabulon e il paese di Neftali, sulla via del mare, al di là del Giordano, la Galilea dei Gentili, il popolo che giaceva nelle tenebre, ha veduto una gran luce; su quelli che giacevano nella contrada e nell’ombra della morte, una luce s’è levata». Da quel tempo Gesù cominciò a predicare e a dire: «Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino»” (Mt 4:13-17).

 

Tutti i Vangeli fanno comprendere che la preparazione di un gruppo di uomini destinati a essere “apostoli” di Gesù era una priorità durante gli anni del ministero pubblico di Gesù. A questo proposito, al suo arrivo a Capernaum avvenne la chiamata stabile di quattro pescatori, di cui tre avrebbero costituito il nucleo del gruppo dei Dodici.

Almeno due di loro, Andrea e Simon Pietro, avevano avuto un contatto con Gesù precedentemente in Giudea (si veda Gv 1:37-42). Ora però Gesù li chiama, insieme a Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, a un impegno stabile.

La promessa legata alla chiamata, “vi farò pescatori d’uomini”, fa comprendere che questi quattro uomini avrebbero avuto un ruolo importante nel programma di Gesù. È probabile che la chiamata di almeno un altro dei futuri apostoli, chiamato variamente Levi e Matteo, che si trovava “seduto al banco delle imposte”, avesse avuto luogo a Capernaum (Mt 9:1-13; Luca 5:27-32).

 

 

Gesù, il Maestro

(Mt capp. 5-7; cfr. Mr 1:22)

 

Dopo un periodo intenso di insegnamento nelle sinagoghe della Galilea, Gesù pronunciò il più famoso dei suoi discorsi, che va sotto il nome di “sermone sul monte” (Mt 4:23–7:29).

Dalle parole: “vedendo le folle, salì sul monte e si mise a sedere. I suoi discepoli si accostarono a lui…” (5:1) si deduce che l’intenzione di Gesù era di appartarsi per istruire i suoi discepoli. Infatti la prima parte del sermone è diretta a persone che hanno già deciso di seguire Gesù. D’altronde, soltanto coloro che hanno ubbidito al duplice comandamento di Gesù: “Ravvedetevi e credete al vangelo” (Mr 1:14) possono comprendere e fare propria la logica delle beatitudini (5: 3-12).

Inoltre soltanto persone che sono autentici discepoli di Gesù possono agire come “il sale della terra” (v. 13) e “la luce del mondo” (vv. 14-16).

 

Ma Gesù e i discepoli non rimasero soli.

A poco a poco la folla li seguì sul monte, un fatto intuibile dal contenuto dell’insegnamento di Gesù e confermato da Matteo (7:28-29).

Questo sermone è importante non solo per la ricchezza dei suoi contenuti etici ma anche perché costituisce un campione della metodologia didattica usata da Gesù il Maestro.

Ad esempio l’esposizione di alcuni comandamenti (5:21-48) testimonia l’autorità con cui insegnava.

Gesù ha puntualizzato che non intendeva sostituire Mosè bensì andare oltre le rivelazioni ricevute da Israele. Disse:

“Non pensare che io sia venuto per abolire la legge o i profeti; io sono venuto non per abolire ma per portare a compimento”. Intanto tutto ciò che la legge e i profeti prevedevano sarebbe, prima o poi, adempiuto (Mt 5:17-19).

 

Nel resto del capitolo 5, Gesù corregge l’inse-
gnamento orale degli Scribi. A questo proposito è importante notare che non dice: “Avete letto nella legge, ma io vi dico”. Dice invece: “Avete udito che fu detto agli antichi [dai dottori della legge]… ma io vi dico” (vv. 21-22, 27-28, 31-32, 33-34, 38-39, 43-44).

In altre parole, Gesù non propone un insegnamento in antitesi a quello della legge, piuttosto mette il suo insegnamento in antitesi al modo in cui gli Scribi avevano interpretato la legge. Allo stesso tempo Gesù radicalizzò il senso della legge, mettendo in evidenza le motivazioni che stanno dietro sia l’ubbidienza che la disubbidienza. Gli uditori notarono la differenza fra Gesù e i loro Scribi (7:28-29).

 

Nella prima parte del capitolo 6 (vv. 1-18) Gesù valuta alcune pratiche giudaiche, compresa la preghiera. I suoi comandamenti inerenti a tali pratiche rimangono fondamentali per ogni tempo, anche se i parametri dell’ubbidienza sono cambiati, essendo entrato in vigore il nuovo patto (Lu 22:20).

 

Invece nella seconda parte del capitolo 6 (vv. 19-34) presenta ciò che può ben dirsi “la filosofia di vita di Gesù”. Si tratta di un insegnamento importantissimo per i nostri tempi caratterizzati tanto dal materialismo quanto dall’ansietà. Ciò che rende indimenticabile quest’insegnamento è la moltitudine di immagini e similitudini nonché il modo efficace con cui il Maestro si appella alle emozioni e alla volontà dei suoi uditori. Questi elementi sono presenti anche nell’ultima parte del sermone, indirizzata maggiormente alla folla (cap. 7).

 

Vale la pena chiedersi perché la gente, quando desiderava parlare con Gesù, si rivolgeva a lui usando l’appellativo “Maestro” o “Rabbí”.

A questo proposito il titolo “Maestro” appare almeno quarantacinque volte nei Vangeli con riferimento a Gesù.

 

Questo modo di considerarlo si doveva in parte al fatto che, come altri rabbini giudaici:

• _insegnava la legge (Mt 5; Mr 12:28-34);

• _insegnava nelle sinagoghe (Mr 1:21-28,39; 3:1-6; 6:1-6);

• _raccoglieva discepoli intorno a sé (Mr 1:16-20; 3:13-19);

• _teneva dibattiti con gli Scribi (Mr 7:5-23; Lu 20; Gv capp. 5 e 7 a 10);

• _veniva interpellato intorno a dispute legali (Mr 12:13-17; Lu 12:13-15; Gv 7:53-8:11);

• _abitualmente si sedeva quando insegnava (Mt 5:1; Mr 4:1; 12:41-43);

• _citava gli Scritti sacri d’Israele (Mr 2:25-26; 10:6-9, 19; 12:26);

• _usava tecniche poetico-didattiche per facilitare la memorizzazione di ciò che diceva.

 

Però non mancavano aspetti unici nel modo in cui Gesù svolgeva il suo ministero di Maestro, dimostrando anche di non sentirsi obbligato a seguire le consuetudini rabbiniche del tempo. Ad esempio, a differenza di altri maestri, Gesù coglieva il momento per insegnare cose utili, senza badare neanche al posto in cui si trovava (Mr 4:1; 8:1-4; 14:49; Mt 5:1; Gv 13:12-17).

 

Inoltre parlava con autorità personale: mentre gli Scribi e i Farisei semplicemente trasmettevano un insegnamento tradizionale, Gesù associava il suo insegnamento con la sua persona (Mt 7:28-29; Gv 6:35-63; At 1:8). Inoltre, radicalizzava quanto richiesto da Dio nella legge, senza però contraddirne la sostanza. A questo proposito distingueva fra la Parola di Dio e la tradizione degli uomini, il che gli permetteva di prendere le distanze da quest’ultima (Mr 7:1-8; cfr Mt 22:34-40).

 

Intanto l’unicità di Gesù come Maestro dipendeva in particolare dal contenuto del suo insegnamento con cui aggiornava la rivelazione speciale alla luce dell’imminente entrata in vigore del nuovo patto (si veda ad esempio Gv 4:23-24).

Infine ciò che soprattutto faceva arrabbiare i Farisei e gli Scribi era il fatto che Gesù, mosso dall’amore di Dio, era disposto a essere Maestro anche nei confronti di persone da cui gli altri rabbini si tenevano a distanza: donne, pubblicani, “peccatori” e bambini (Mr 2:14-17; 10:13-16; Mt 11:16-19; Lu 7:39; 15:1-2).

 

 

Figure retoriche usate da Gesù

 

Le capacità didattiche di Gesù erano eccezionali. Robert Stein ha fatto notare che la forza perenne e unica dell’insegnamento di Gesù si deve, oltre che alla sua Persona e al carattere eccezionale di ciò che aveva da comunicare, anche alla metodologia adoperata.

 

Consideriamo qui di seguito le figure retoriche principali che illuminano l’insegnamento di Gesù.

 

Esagerazione

 

Esiste un tipo inopportuno di esagerazione, non di rado caratterizzato dall’uso di parole come “sempre” e “mai”, come nelle seguenti frasi: “Tu arrivi sempre in ritardo”, “Tu non mi ascolti mai”.

Però c’è un altro tipo di esagerazione, fatto ad arte, per comunicare un concetto in modo indimenticabile. Ad esempio: “Questo paese è un paradiso”.

Gesù si serviva spesso di questo secondo tipo di esagerazione, ad esempio quando disse: “Chi vuol litigare con te e prenderti la tunica, lasciagli anche il mantello. Se uno ti costringe a fare un miglio, fanne con lui due” (5:40-41), e ancora: “Non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a metter pace, ma spada” (10:34).

 

La forma di esagerazione si distingue dal discorso iperbolico in quanto la cosa detta potrebbe essere intesa, erroneamente, in senso letterale (il che, nel caso dell’iperbole, non è possibile). Quindi quando troviamo la forma dell’esagerazione nell’insegnamento di Gesù è importante che ci poniamo la domanda: “Che cosa intende insegnare Gesù con quest’espressione?”.

 

Sarebbe un grave errore comprendere in modo letterale la forma di esagerazione e agire di conseguenza, per esempio quando Gesù dici: “Se dunque il tuo occhio destro ti fa cadere in peccato, cavalo e gettalo via da te; poiché è meglio per te che uno dei tuoi membri perisca, piuttosto che tutto il tuo corpo sia gettato nella geenna” (Mt 5:29-30 e cfr. Luca 14:26 alla luce di Mr 7:11-13; Gv 19:26-27).

 

 

Iperbole

 

In questo caso il pericolo di fraintendere il senso dell’insegnamento di Gesù è minimo.

Chi potrebbe avere una trave nell’occhio (Mt 7:3-5) o inghiottire un cammello (23:24)!? Similmente è impossibile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago (Mr 10:23-25; cfr. Mt 6:2-4)!

È comunque da rilevare e sottolineare la grande forza dell’insegnamento contenuto in questi brani, proprio perché Gesù si è servito ad arte della figura retorica dell’iperbole.

 

 

Giochi di parole

 

Tralasciando i giochi di parole che sicuramente avranno fatto parte del modo di parlare di Gesù in lingua aramaica (ad esempio: galma-“moscerino”/gamla-“cammello” in Matteo 23:24), notiamo alcuni dei casi che mantengono la loro forza anche dopo che il testo greco del Nuovo Testamento è stato tradotto in italiano.

 

In Luca 9:60 Gesù risponde così a chi chiede il permesso di tornare a casa per “seppellire” il proprio padre: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; ma tu va ad annunziare il regno di Dio”! È chiaro che, in questo caso, la parola “morti” viene usata in due modi diversi nella stessa frase, con grande efficacia.

 

In modo analogo, quando alcuni Farisei protestarono che il parlare di Gesù li faceva passare per ciechi, Gesù rispose:

“Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: «Noi vediamo», il vostro peccato rimane” (Gv 9:41).

 

Senza dubbio l’esempio più famoso dell’uso fatto da Gesù del gioco di parole è quello che appare in Matteo 16:18.

Pietro fece la sua famosa confessione:

“Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (v. 16) a Cesarea di Filippo, dove si trova una massiccia facciata rocciosa, dalla quale spunta uno dei principali affluenti del fiume Giordano. Gesù replicando gli disse, fra l’altro:

“Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa”.

La seconda pietra è evidentemente la verità confessata da Pietro che costituisce il fondamento della chiesa.

Similitudini e parabole

 

Le similitudini sono abbastanza frequenti nell’insegnamento di Gesù. I termini che indicano la presenza di una similitudine sono “simile a” e “come”.

L’uso di similitudini impegna l’immaginazione dell’uditore più di qualsiasi altra cosa perché fa riferimento a ciò che fa parte della sua esperienza in vista di comprendere il vero peso di ciò che si vuole comunicare.

Basti l’esempio che segue per illustrare questo fatto.

Ai Dodici mandati in missione, Gesù disse: “Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe” (Mt 10:16; cfr. 12:40; Lu 13:34; 17:6; Gv 10:1-6; e le similitudini di ragionamento in Mt 6:28-30; 7:9-11; 10:25; Mr 2:23-28; Lu 18:1-8; Gv 13:14).

 

La parabola è una similitudine portata al punto di avere una vita propria.

È stato detto che le parabole di Gesù sono “delle storie terrene con un significato celeste”.

Con la forma di parabola Gesù comunicava delle verità importanti facendo uso di fatti e situazioni che appartenevano in qualche modo alla vita comune dei suoi ascoltatori.

Essendo velato il significato della parabola, Gesù le usava tanto per rivelare quanto per nascondere una verità o, per citare la metàfora di Gesù, per “non gettare le vostre perle davanti ai porci” (Mt 7:6; 13:10-17).

Il meccanismo fondamentale della parabola è l’analogia sottintesa fra l’idea centrale del racconto e la verità o sfida da comunicare.

Fra le parabole più famose dell’Antico Testamento vi sono quella che il profeta Natan raccontò a Davide (2Sa 12:1-7) e quella della vigna del Signore (Is 5:1-7), ma anche il matrimonio di Osea e molte altre azioni simboliche che Dio ordinò di fare ai profeti d’Israele.

La chiave d’interpretazione delle parabole di Gesù in genere di trova nel contesto letterario immediato.

Considereremo alcune delle sue parabole in uno dei prossimi articoli, nel corso del nostro studio panoramico della vita di Cristo.

 

Intanto va ricordata quella con cui terminò il “sermone sul monte”.

È la parabola delle due case di cui una fondata sulla roccia, quale immagine di chi ascolta la sua parola e la mette in pratica, e l’altra sulla sabbia, quale immagine di chi l’ascolta ma non la mette in pratica (Mt 7:24-27).

Da questa parabola emerge che l’ubbidienza all’insegnamento, contenuto in tutto il discorso, riportato in Matteo capitoli 5-7, non è un optional, bensì essenziale per chi non vuole vedere la rovina della propria vita.

 

 

La metafora

 

La metafora è una forma molto dinamica di linguaggio in cui la comparazione è implicita ma non espressa.

Tra i molti esempi dell’uso che Gesù ha fatto dalla metafora, si possono notare: i modi in cui si presenta, a partire dai vari “Io sono”, nel Vangelo di Giovanni, o affermando così la sua deità (Gv 8:58) oppure quando si è definito pane disceso dal cielo (Gv 6:35-40).

Allo stesso modo i suoi discepoli sono descritti come “sale” e “luce” (Mt 5:13-16).

Altri esempi di metafora sono “la porta stretta” e “la via angusta” da una parte e “la porta larga” e “la via spaziosa” dall’altra parte, per simboleggiare il tipo di scelta che portano rispettivamente alla vita e alla perdizione (7:13-14); poi le metafore della mietitura (Mt 9:37-38; Gv 4:35) e la descrizione di alcune persone (Mt 23:29,33; Lu 13:31-32).

Vale la pena far menzione qui anche del modo metaforico in cui il corpo e sangue di Cristo sono rappresentati dai simboli del pane e del vino nella Cena commemorativa istituita da Cristo perché i suoi discepoli si ricordassero di lui ed anche del modo della stipulazione del nuovo patto (Mr 14:22-24; Mt 26:26-30; Lu 22:19-20).

 

 

Il proprio esempio

 

Gesù, il Maestro per eccellenza, supera qualsiasi altro maestro non solo per l’efficacia del suo insegnamento ma anche per la coerenza che manifestava fra insegnamento e pratica.

Un esempio per tutti è l’abbinamento di esempio e il comandamento “Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 13:34; cfr. v.1).

Si tratta dello spirito di servizio nell’atto di lavare i piedi dei discepoli e le parole dette da Gesù dopo che aveva ripreso il suo posto a tavola: “Voi mi chiamate Maestro e Signore; e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, che sono il Signore e il Maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri” (Gv 13:13-14).

 

Abbiamo bisogno di imparare dal modo in cui Gesù insegnava. Intanto in una cosa dobbiamo seguire il suo esempio, cioè nell’essere coerenti fra ciò che insegniamo e ciò che facciamo.

 

 

Per la riflessione personale

o lo studio di gruppo

 

1. _Qual è stato il contributo di Gesù alla rivelazione speciale? (si veda Eb 1:1-2)

2. _Perché il suo insegnamento è senza paragoni?

3. _Elenca tutti i comandamenti del Signore contenuti nel sermone sul monte (Mt 5-7) e, dopo ciascuno di essi, commenta su come possa essere ubbidito nel contesto della propria vita.

4. _Se hai tempo, svolgi lo stesso esercizio sui capitoli 13 a 16 del Vangelo di Giovanni.