Fermarsi per riflettere
In seguito alla pubblicazione dell’articolo “Family day e dintorni: alla luce di quale lampione cerchiamo le nostre chiavi?” pubblicato sul numero di agosto (pagg. 368-371), ho ricevuto alcune obiezioni e richieste di chiarimento a livello personale.
Nel rispondere privatamente a questi fratelli, ho però pensato che forse le stesse domande avrebbero potuto sorgere anche ad altri lettori.
Mi è stato, ad esempio, fatto presente che le mie parole potrebbero favorire una visione della vita cristiana suddivisa in due compartimenti stagni, impermeabili tra loro: il sacro, che riguarda la nostra vita di chiesa, e il profano, che riguarda invece tutto il resto del nostro quotidiano, compreso dunque tutto ciò che rientra nell’ambito del nostro impegno di cittadini nella società in cui viviamo.
Inoltre, mi è stato fatto presente che la mia enfasi sul fatto che il nostro mandato non sia quello di costruire una “società cristiana”, ma solo quello di testimoniare di Cristo, in attesa del suo ritorno, non implichi necessariamente che tale dovere sia limitato al solo annuncio esplicito del Vangelo della grazia, ma possa realizzarsi anche attraverso modalità non-verbali, in ambiti che investono la sfera pubblica.
L’obiettivo principale del mio intervento non era quello di puntare il dito contro fratelli che ritengono lecito e doveroso scendere in piazza in manifestazioni pubbliche, per esprimere la loro contrarietà a possibili sviluppi legislativi che favoriscono comportamenti e filosofie deplorate dalla Scrittura. Piuttosto, voleva essere un appello a valutare, discernere con estrema attenzione, le basi scritturali – il lampione dottrinale – su cui fondare le nostre scelte.
È proprio quando ci troviamo ad essere confrontati con tematiche che ci toccano nel profondo, che dobbiamo stare attenti a non essere travolti dalle nostre reazioni viscerali, perché in tali situazioni irrazionali il rischio che corriamo è quello di non valutare le conseguenze delle nostre azioni, senza dimenticare poi il rischio di trovarci ad essere stati strumentalizzati da altri, per finalità di tutt’altro genere.
È dunque assolutamente prioritario fermarci e chiarire prima di tutto a noi stessi quali finalità stiamo perseguendo e se dunque l’azione che stiamo intraprendendo sia davvero funzionale a quello scopo.
Testimonianza di Cristo
verbale e non-verbale
Come ho scritto, la Parola di Dio non offre alcuna sponda a favore del fatto che i discepoli di Cristo debbano avere come obiettivo quello di costruire una “società cristiana”.
La storia ci ha purtroppo mostrato le tristi conseguenze di questo grave errore teologico, che dobbiamo assolutamente scongiurare.
L’unico obiettivo chiaro ed esplicito che la Chiesa è chiamata a perseguire è quello di testimoniare di Cristo.
Giustamente però ci si può domandare se un tale mandato debba necessariamente limitarsi all’annuncio verbale del Vangelo.
Pur nella consapevolezza che la pazzia della predicazione continui ancora oggi ad essere lo strumento per eccellenza con cui il Signore vuole salvare coloro che credono in lui (1Co 1:21), è doveroso ricordare che Gesù stesso ha indirettamente menzionato modalità non-verbali con cui testimoniare di lui.
Quando infatti dice ai suoi discepoli “Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13:35), oppure prega il Padre per loro “che siano tutti uno… affinché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17:21) sta chiaramente indicando nell’amore fraterno e nell’unità tra i suoi discepoli degli strumenti non-verbali attraverso cui possiamo testimoniare di lui, cioè fare in modo che il mondo lo conosca (…o lo bestemmi, quando purtroppo nelle nostre chiese ci sono litigi, divisioni e mancanza di perdono…).
Nel contesto sociale in cui viviamo oggi, è doveroso menzionare anche quando Gesù, parlando del giudizio delle nazioni in Matteo 25:31-46, ci dice che, nel dare da mangiare agli affamati, bere agli assetati, accoglienza agli stranieri ecc…, stiamo facendo tutto ciò a lui (vv. 40, 45), suggerendo implicitamente come anche attraverso quelle che oggi identifichiamo sotto il nome di “opere sociali” possiamo comunicare il nostro amore per Gesù, e dunque testimoniare di lui.
Questi brani possono costituire una base per riflettere se il nostro mandato di testimoniare di Gesù possa attuarsi anche attraverso modalità meno convenzionali, tuttavia, occorre anche estrema onestà, innanzitutto con noi stessi, e trasparenza davanti al Signore, per riflettere se una tale finalità sia autentica o non sia magari solo un’innocente illusione.
Guardare agli strumenti utilizzati
per mettere in luce gli obiettivi reali
A mio giudizio le modalità con cui l’obiettivo viene attuato divengono spesso la dimostrazione dell’autenticità dell’obiettivo perseguito, cioè che si sta davvero operando al fine di testimoniare di Cristo. Pensiamo ad esempio proprio alla manifestazione del 20 giugno scorso, il Family day.
Questo evento ha visto la partecipazione di diversi credenti, sotto un’insegna ufficiale di “cristiani evangelici” riportata anche sui mass-media nazionali, assieme a realtà del mondo politico e religioso che poco o nulla hanno a che spartire col vangelo di Cristo.
Una tale collaborazione è stata giustificata in comunicati ufficiali facendo appello al concetto di co-belligeranza (cioè, combattere assieme), suggerendo che possano esservi delle specifiche finalità comuni che potrebbero consentirci di combattere assieme anche a coloro da cui manteniamo delle differenze sostanziali in altri ambiti.
Onestamente, però, se il nostro obiettivo è per davvero, e non solo di facciata, quello di testimoniare di Cristo, siamo così sicuri che il Signore approvi che combattiamo le nostre battaglie assieme a persone che usano ipocritamente la fede cristiana come manto delle loro immoralità, con coloro che perseguono l’idolatria, o addirittura con coloro che non credono nemmeno in Cristo?
Su quest’ultima affermazione mi riferisco in particolare al fatto che anche un Imam musulmano ha parlato dal palco di quella manifestazione. Certo che, se il nostro reale obiettivo, al di là dei paraventi che ci mettiamo, è di fatto solo quello di favorire l’approvazione di leggi cristiane, possiamo anche ritenere lecito avvalerci del sostegno di chiunque, incidentalmente, condivida quelle leggi. Ma, ripeto, se l’obiettivo è invece quello di testimoniare di Cristo, dubito fortemente che un tale cinismo utilitarista sia autorizzato.
Mi vengono a mente quei Giudei tornati dall’esilio babilonese, che decidono di ricostruire il Tempio a Gerusalemme (Ed 4:1-3). Gli abitanti del luogo si offrono di collaborazione nella sua costruzione, e quei Giudei che fanno? Decidono forse di co-belligerare, pensando che in fondo possono limitare la collaborazione a quel comune obiettivo, di mettere un mattone sull’altro? In fondo, il loro aiuto pratico avrebbe permesso una costruzione ancora più celere! No, loro rifiutano seccamente quella collaborazione: “Non è compito vostro costruire insieme a noi una casa al nostro Dio; noi la costruiremo da soli al SIGNORE, Dio d’Israele…” (v. 3).
Evidentemente quei Giudei identificano nel loro obiettivo una finalità di natura spirituale che non poteva ridursi a una banale sovrapposizione di pile di mattoni, e dunque lo strumento che utilizzano per raggiungere quell’obiettivo (cioè, costruire da soli) diviene una manifestazione dell’autenticità dell’obiettivo che essi perseguono.
Concorrere come figli di Dio
al bene della nostra società
Un tale atteggiamento può forse giustificare un disinteresse del cristiano per il bene delle società in cui vive? Tutt’altro!
Ribadisco piuttosto che è proprio quando i discepoli di Cristo danno priorità alla testimonianza autentica e intransigente di Cristo, che quella trasformazione operata dalla Spirito Santo dei cuori di ciascuno, si traduce nel tempo in una reale, profonda, opera di rinnovamento della società.
Perché questo avvenga occorre anche un sano insegnamento di tutto ciò che il Signore Gesù ha comandato (Mt 28:20), affinché l’accettazione intima del messaggio di Cristo si traduca anche, necessariamente, in cambiamenti effettivi e globali nella vita reale del singolo credente, senza favorire alcuna suddivisione tra la sfera del “sacro” e quella del “profano”.
Mi viene in mente l’esempio di due persone che entrano in una casa abbandonata. Entrandoci vengono inondati da un tanfo terribile che rende l’aria irrespirabile, perché quella casa è divenuta ricetto di animali e di vagabondi che l’hanno usata per tutti i loro bisogni corporali.
Uno dei due dice all’altro: “Ehi, che puzza terribile! Dobbiamo darci da fare per rendere l’aria respirabile”. L’altro invece dice: “Mah, secondo me qui bisogna pulire e igienizzare bene l’ambiente”. Chi dei due ha ragione?
Mi permetto di dire che, se il fine è limitato a rendere l’aria respirabile, potrebbe essere sufficiente una buona dose di spray al gelsomino, con l’aria che però tornerebbe in breve tempo nauseabonda, appena svanito l’effetto dello spray. Se invece ci si pone come obiettivo quello di pulire e igienizzare, non solo si ottiene quel risultato, ma l’effetto collaterale che ne risulta sarà anche un’aria respirabile, e per di più in modo duraturo. Bene, perseguire l’obiettivo di favorire leggi cristiane, perdendo di vista quello prioritario di testimoniare di Cristo, equivale proprio a illudersi di risolvere il problema di quella casa puzzolente con un po’ di spray al gelsomino.
Le società cosiddette “protestanti” risentono tutt’ora, dopo tanti secoli e malgrado la dilagante secolarizzazione, degli effetti positivi di un ritorno alla Scrittura che si è tradotto in benefici durevoli per la società intera.
A volte si fa giustamente riferimento a personaggi come l’inglese William Wilberforce, il quale, traendo ispirazione dalla sua fede autentica in Gesù, lottò come parlamentare alla fine del ‘700 per giungere all’abolizione del commercio degli schiavi. Ci si dimentica però che quel bel fiore di Wilberforce sia potuto spuntare su un campo – la società inglese – dissodato da anni di predicazione autentica e genuina del metodismo di John Wesley.
La domanda che pongo è allora la seguente: siamo davvero sicuri che la depravazione morale della nostra società italiana e occidentale, che partorisce leggi che non sono altro che l’espressione naturale di quello stesso livello di depravazione, abbia bisogno di un Wilbeforce che favorisca una legislazione cristiana, o non piuttosto di tanti Wesley che dissodino i cuori degli italiani con la potenza del Vangelo?
Impegnamoci dunque a guardare alla Scrittura, per riflettere su una sana teologia biblica che ci permetta di conservare l’obiettivo di testimoniare di Cristo in attesa del suo ritorno, pur attraverso le modalità più variegate che il vivere quotidiano ci offre, nella piena consapevolezza di dover essere “sale” nel contesto sociale in cui viviamo.