GIOBBE, un padrone giusto e generoso
Il problema di Giobbe era la convinzione di avere diritto alle benedizioni di Dio grazie alla propria giustizia, che, in effetti, verrà riconosciuta anche da Dio (Ez 14:14).
Il sopraggiungere della prova determinò quindi un corto circuito nella sua mente, dove l’equazione giustizia uguale prosperità non tornava più, convinto com’era di essere sempre rimasto fedele a Dio.
Le prove non sopraggiunsero a causa di qualche particolare disubbidienza di Giobbe. Si trattava piuttosto di uno strumento di cui Dio si serviva per insegnare al suo servo la propria sovranità, in modo che Giobbe arrivasse a riconoscere che l’Onnipotente aveva il diritto di operare qualsiasi cosa non solo nell’universo intorno a lui, ma anche nella sua vita.
Detto questo, la condotta di Giobbe non può che essere per noi un valido esempio sia prima della prova sia al suo sopraggiungere (Gm 5:11), anche guardando al suo comportamento in ambito lavorativo, sul quale si aprono qua e là delle piccole finestre nel fluire del testo del suo libro.
Giobbe era un ricco proprietario terriero, agricoltore e allevatore:
“…possedeva settemila pecore, tremila cammelli, cinquecento paia di buoi, cinquecento asine e una servitù molto numerosa. Quest’uomo era il più grande di tutti gli Orientali” (Gb 1:3).
Al capitolo 31, in particolare, troviamo delle informazioni precise riguardo l’atteggiamento di Giobbe come proprietario e datore di lavoro, in queste sue parole:
• “Se ho disconosciuto il diritto del mio servo e della mia serva, quando erano in lite con me, che farei quando Dio si alzasse per giudicarmi, e che risponderei quando mi esaminasse? Chi fece me nel grembo materno non fece anche lui? Non ci ha formati nel grembo materno uno stesso Dio? Se ho rifiutato ai poveri quanto desideravano, se ho fatto languire gli occhi della vedova, se ho mangiato da solo il mio pezzo di pane senza che l’orfano ne mangiasse la sua parte, io che fin da giovane l’ho allevato come un padre, io che fin dal grembo di mia madre sono stato guida alla vedova, se ho visto uno soffrire per mancanza di vesti o il povero senza una coperta, se non mi hanno benedetto i suoi fianchi, ed egli non si è riscaldato con la lana dei miei agnelli, se ho alzato la mano contro l’orfano perché mi sapevo sostenuto alla porta della città, che la mia spalla si stacchi dalla sua giuntura, il mio braccio si spezzi e cada! In effetti mi spaventava il castigo di Dio, ero trattenuto dalla maestà di lui” (Gb 31:13-23).
• “Se la mia terra mi grida contro, se tutti i suoi solchi piangono, se ne ho mangiato il frutto senza pagarla, se ho fatto sospirare chi la coltivava, che invece di grano mi nascano spine, invece d’orzo mi crescano zizzanie! Qui finiscono i discorsi di Giobbe” (Gb 31:38-40).
Le parole di Giobbe, che è pronto ad evocare delle maledizioni su sé stesso se fosse vero che si è comportato male, dimostrano indirettamente che era nelle sue possibilità comportarsi da egoista e da prepotente. Forse, gli esempi che fa erano tratti da comportamenti di altri facoltosi proprietari che approfittavano della loro posizione di autorità a scapito del prossimo.
Anche oggi chi ha maggiori risorse economiche ha la possibilità di esercitare un potere sulle persone e sulle situazioni. Giobbe, da questo punto di vista, ci offre il confronto con un comportamento moralmente ineccepibile.
Rispetto per i dipendenti
In primo luogo vediamo da parte sua il rispetto dei diritti dei suoi lavoratori. Ad orientare la condotta di Giobbe c’era un principio semplice ma basilare: agli occhi di Dio lui ed i suoi servi avevano pari dignità. I suoi servi erano esseri umani come lui, creati dallo stesso Dio. Questo bastava a distoglierlo da qualunque sopruso nei loro confronti, rispettando i loro diritti quali delle condizioni di lavoro dignitose ed un salario equo. Il suo senso di giustizia arrivava perfino al rispetto per il suolo, dal quale otteneva i raccolti (31:38), suolo nei confronti del quale Giobbe dice di avere sempre avuto benevolenza.
Quanto sono validi, nel mondo odierno, principi di questo tenore! Si parla di diritti dei lavoratori e di rispetto per la terra millenni prima dell’istituzione di sindacati o di studi che dimostrano il danno prodotto da un eccessivo sfruttamento del suolo terrestre.
Come detto, ancora oggi chi è ricco si trova nelle condizioni di poter prevaricare il povero ed il bisognoso senza incontrare resistenze.
Il ricco datore di lavoro può permettersi gli avvocati migliori, può imporre regole di lavoro illegali, pagare sottocosto un operaio perché se questi se ne andrà ne troverà subito un altro da trattare come lui, può assumere una donna facendole firmare dimissioni in bianco da datare il giorno della sua gravidanza, può corrompere enti ed amministrazioni.
Ovviamente non tutti agiscono così, ma questo accade, e nemmeno troppo di rado. I colossi economici delle multinazionali influenzano le legislazioni e il mondo dell’informazione. Ma per rimanere alle esperienze più comuni, tutti sappiamo di datori di lavoro che minacciano, urlano, insultano, deridono al solo scopo di mantenere alto il livello di timore dei sottoposti nei loro confronti o semplicemente per sentirsi forti della loro posizione di comando. Oggi i lavoratori sottoposti non sono più chiamati servi o serve, ma questo non garantisce loro un trattamento sempre benevolo. Così tante volte si lavora con frustrazione, ci si sente usati e si torna a casa con il mal di stomaco.
Ogni padrone o datore di lavoro cristiano deve avere presente che il suo diritto di impartire ordini ai sottoposti e di ottenere i risultati delle loro prestazioni non può tradursi in possibilità di minacciarli, maltrattarli o derubarli. È scritto: “Padroni, date ai vostri servi ciò che è giusto ed equo, sapendo che avete un padrone nel cielo” (Cl 4:1), “…astenendovi dalle minacce, sapendo che il Signore vostro e loro è nel cielo e che presso di lui non c’è favoritismo” (Ef 6:9).
Aiutare chi ha bisogno
In secondo luogo vediamo in Giobbe la generosità mostrata nei confronti di chi è nel bisogno. Giobbe menziona il povero, il bisognoso, la vedova e l’orfano tra i destinatari dei proventi derivanti dalla sua attività.
Egli aveva tutto il diritto di tenere per sé e per la sua numerosa famiglia quanto raccoglieva dai campi e quanto otteneva dagli allevamenti, ma la sua sensibilità per gli altri lo spingeva a non restare inerme davanti a bisogni tanto evidenti tra la gente che gli era vicino.
Egli attuava così una forma di “ridistribuzione della ricchezza” a favore delle fasce meno abbienti. Anche in questo egli precorreva elementi previsti molti secoli più tardi da alcuni Stati, cioè l’assistenza per le categorie meno tutelate.
Ma il donare di Giobbe non avveniva sotto l’imposizione di una norma, né in maniera fredda e distaccata, bensì accorciando ogni distanza e abbattendo ogni barriera tra lui ed i bisognosi. In altre parole, Giobbe non solo non era egoista ma oltre a ciò, non era neppure distante dal resto della gente, in forza dei suoi privilegi, come spesso accade per chi è benestante. Si potrebbe infatti essere generosi benefattori che mantengono le distanze dagli altri per marcare la differenza di condizione sociale: non era il caso di Giobbe.
In tutto questo egli testimoniava quello che per un cristiano deve essere uno degli scopi del lavoro, cioè avere “qualcosa da dare a colui che è nel bisogno” (Ef 4:28).
A volte nei confronti di chi è ricco si ha una forma di disprezzo e repulsione dovuti al solo fatto che egli sia abbiente. Ma questo non è corretto, perché a fare la differenza è sempre l’uso che tali persone faranno dei loro beni. Infatti, è proprio grazie a uomini e donne ricchi e generosi che si sono costruiti ospedali, orfanotrofi, scuole, soccorsi feriti e ammalati e molto altro ancora; è grazie al contributo di “donatori generosi” che sono stati inviati missionari, stampate Bibbie e letteratura, costruiti o acquistati locali di culto, installate stazioni radio ecc.
Ben vengano quindi fiorenti attività di figli e figlie di Dio che destineranno le loro rendite a chi è nel bisogno e all’opera del Signore.
Nel concludere la breve presentazione di questo personaggio, possiamo dire che, con timore di Dio, rispetto e benevolenza per il prossimo, Giobbe è stato precursore di ogni buon padrone cristiano.
DANIELE e la sfida per la fedeltà
Non esageriamo nel ritenere l’invidia tra colleghi la causa dell’esperienza di Daniele nella fossa dei leoni. Ma leggiamo come andarono le cose:
“Parve bene a Dario di affidare l’amministrazione del suo regno a centoventi satrapi distribuiti in tutte le provincie del regno. Sopra di loro nominò tre capi, uno dei quali era Daniele, perché i satrapi rendessero conto a loro e il re non dovesse soffrire alcun danno. Questo Daniele si distingueva tra i capi e i satrapi, perché c’era in lui uno spirito straordinario; il re pensava di stabilirlo sopra tutto il suo regno. Allora i capi e i satrapi cercarono di trovare un’occasione per accusare Daniele circa l’amministrazione del regno, ma non potevano trovare alcuna occasione né alcun motivo di riprensione, perché egli era fedele e non c’era in lui alcuna mancanza da potergli rimproverare. Quegli uomini dissero dunque: «Noi non avremo nessun pretesto per accusare questo Daniele, se non lo troviamo in quello che concerne la legge del suo Dio». Allora capi e satrapi vennero tumultuosamente presso il re…” (Da 6:1-6).
I colleghi di Daniele istigarono il re a promulgare un decreto che vietasse qualsiasi forma di richiesta-preghiera a chiunque, eccetto che al re stesso.
Un provvedimento fatto su misura per fare risultare Daniele un trasgressore, oggi diremmo un provvedimento “ad personam”, che però non dissuase minimamente Daniele dal continuare a pregare il solo vero Dio come sempre:
“Quando Daniele seppe che il decreto era firmato, andò a casa sua; e, tenendo le finestre della sua camera superiore aperte verso Gerusalemme, tre volte al giorno si metteva in ginocchio, pregava e ringraziava il suo Dio come era solito fare anche prima” (Da 6:1-6).
A quel punto fu semplice, per quegli uomini, sorprenderlo in preghiera e chiedere al re l’applicazione del decreto da lui stesso firmato, con l’esecuzione del colpevole in pasto ai leoni.
Ma per fede Daniele vide chiudersi le fauci a quei leoni (Eb 11:33) e non sperimentare alcun danno, perché Dio mandò il suo angelo a salvarlo (Da 6:22).
Mettendo in primo piano le questioni legate al lavoro, vediamo in Daniele una caratteristica basilare che deve caratterizzare ogni credente, vale a dire la fedeltà (Da 6:4).
Daniele aveva un ruolo di primissimo piano nel regno di Dario di Persia: era uno dei tre capi incaricati di sovrintendere ai centoventi satrapi che amministravano le province del regno. Daniele era dunque un amministratore per conto del re, e non dobbiamo dimenticare che “quel che si richiede agli amministratori è che ciascuno sia trovato fedele” (1Co 4:2).
Daniele era fedele nell’eseguire il proprio lavoro, al punto da non offrire alcuna ragione ai suoi avversari per accusarlo, e questa qualità, insieme allo “spirito straordinario” (v. 3) che c’era in lui, era il motivo per cui il re stava pensando di stabilirlo come unico sovrintendente del regno. Di qui l’invidia di tutti gli altri capi e la loro iniziativa, rivelatasi poi fallimentare.
La fedeltà di Daniele poteva esplicarsi in diversi modi: rispetto per il re e i suoi ordini, giustizia verso il popolo, puntualità e precisione, mantenimento degli impegni presi…
Cosa significa oggi essere fedeli?
Se pensiamo al principio indicato da Gesù a proposito della fedeltà (“chi è fedele nelle cose minime, è fedele anche nelle grandi”, Lu 16:10), potremo anche noi individuare quali sono i comportamenti coerenti di un lavoratore fedele, quelli a volte sottovalutati ma sintomatici di questa virtù.
Infatti, essere fedeli nelle cose “grandi” non sarebbe garanzia di una vera e profonda fedeltà, che si vede invece da come ci si comporta nelle cose più trascurate, più nascoste e meno gratificanti.
Dunque essere fedeli significa sicuramente essere puntuali al lavoro, non perdere tempo in distrazioni (cellulare, posta elettronica privata, pause e conversazioni prolungate), significa compiere il proprio dovere con diligenza, rispettare i preposti…
Tutto questo non è banale perché servirà a “onorare in ogni cosa la dottrina di Dio, nostro Salvatore” (Tt 2:10).
Senza dimenticare che la fedeltà è frutto dello Spirito Santo (Ga 5:22), per cui non si tratta di essere bravi grazie ai nostri sforzi ma di lasciare che la vita di Cristo si sprigioni attraverso di noi.
La fedeltà di Daniele è poi proseguita anche quando i suoi colleghi hanno escogitato e attuato un piano per farlo cadere in trappola. Difficilmente l’iniziativa di così tanti poteva essere mantenuta segreta a uno dei tre con maggiore potere nel regno dopo il re Dario. Eppure non leggiamo di un tentativo di Daniele di correre ai ripari e cercare di impedire il decreto, né di trovare un accordo con gli altri capi. Daniele mantiene semplicemente la sua perseverante sottomissione al vero Dio.
A volte possiamo correre la tentazione di “farci giustizia di soli”, assumendo iniziative volte a farci rispettare davanti a chi vuole farci del male, ma è molto meglio lasciare che sia il Signore, con i suoi tempi ed i suoi modi a sistemare le cose, seguendo questa esortazione:
“Non fate le vostre vendette, miei cari, ma cedete il posto all’ira di Dio” (Ro 12:19).
La fedeltà di Daniele viene ulteriormente messa alla prova quando il decreto diventa operativo: Daniele continua a pregare tre volte al giorno e lo fa senza minimamente nascondersi, perché procede esattamente come prima e prega con le finestre aperte verso Gerusalemme.
Spesso potremmo sentirci attratti dalla possibilità di minimizzare le manifestazioni della nostra fede, per ridurne le conseguenze negative su noi (derisione, disprezzo degli altri…). Ma anche questa sfida vinta, per grazia divina, da Daniele, parla a noi di una franchezza che non ci dovrebbe lasciare neppure davanti alla prova più dura. Potranno presentarsi anche per noi delle occasioni in cui solo chi è disposto ad un compromesso (nel caso di Daniele rinunciare alla preghiera), potrà ottenere dei benefici oppure non subirne un danno.
Sarebbero le circostanze in cui anche noi dovremo rifiutare di eseguire un ordine (delle autorità civili o dei datori di lavoro) perché tale ingiunzione risulterebbe in contrasto con altri precisi ordini di Dio (At 4:19; 5:29).
Siamo pronti a questa possibilità? Ci è già accaduto?
La vicenda della fossa dei leoni si conclude non solo con la liberazione di Daniele e l’esecuzione di chi aveva premeditato di fargli del male, ma con una bella confessione del re Dario che esalta il Dio vivente, il Dio di Daniele.
Ebbene, le sfide che ogni giorno incontreremo nel nostro ambiente di lavoro, se rimarremo fermi sul terreno della fedeltà, non potranno che diventare delle opportunità affinché gli uomini “vedano le vostre (nostre) buone opere e glorifichino il Padre vostro (nostro) che è nei cieli” (Mt 5:16).