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Stato e Chiesa:

un discorso da approfondire

 

Caro Paolo,

in linea con quanto ho letto ed apprezzato su Il Cristiano, anche di recente, sarei contento di vedere approfondito il discorso sui rapporti tra Stato e Chiesa in merito alla figura dei “ministri di culto”.

Infatti, capita di sentire chiamata in causa questa figura in occasione della celebrazione di matrimoni tra credenti, i quali, anziché presentarsi davanti al Sindaco o chi per lui, scelgono di essere uniti in matrimonio da un fratello che ha ottenuto questa nomina dallo Stato.

Le mie forti perplessità, su cui suggerisco una riflessione, sono queste:

 

• Questo genere di matrimoni, non rischia di confondere le idee, occupando un credente (il “ministro di culto”) una posizione che rientra nella sfera della società civile (essendo il matrimonio una istituzione, anche biblicamente, per tutti, credenti e non)?

 

• Perché accettare che lo Stato si permetta di nominare chi può avere incarichi di natura dichiaratamente spirituale (ministro “di culto”), quando il Signore ci ha già fatti essere “ministri di un nuovo patto” (2 Co 3:6)?

Grazie per lo spazio che darai a queste riflessioni.

 

Lettera firmata

“Il ministro di culto”:

figura creata dalla legislazione fascista

 

Confesso che avverto un senso di disagio nel tornare, come la lettera mi invita esplicitamente a fare, su una questione intorno alla quale so che fratelli, da me amati e stimati in Cristo, hanno – almeno nella prassi – una convinzione diversa dalla mia, convinzione supportata anche da tante realtà di assemblee locali, dal momento che si va sempre più diffondendo la consuetudine di sposarsi non davanti all’autorità civile, ma davanti al ministro di culto. Questo “disagio” ha provocato una lunga riflessione ed un conseguente ritardo nel rispondere; ritardo per il quale chiedo scusa a chi ha, in modo sereno e fraterno, riproposto il problema.

 

Confesso d’altro canto la mia tristezza profonda nel ricordare che, negli anni ‘70, ad un incontro nazionale di fratelli Anziani, dopo un confronto basato non sulle convenienze ma su un rigoroso e sviscerato esame della Scrittura, emerse la convinzione della non biblicità della figura giuridica del “ministro di culto”. Tanto è vero che fu raccomandato all’Opera delle Chiese Cristiane dei Fratelli, il “nostro” ente morale che gestisce rapporti di natura amministrativa e giuridica con lo Stato, di non procedere più ad alcuna richiesta di nomina di ministri di culto.

 

In precedenza l’ente morale aveva nominato più di un ministro di culto, a causa della necessità imposta dalle leggi sui culti ammessi del 1929-1930 e dal regime fascista che richiedevano la presenza di un ministro di culto come condizione per ottenere il permesso di apertura di un locale di culto. Non furono pochi i fratelli, fra i quali ricordiamo Cesaro Ronco, che non vollero sottoporsi a questa condizione coercitiva, preferendo percorrere la strada della clandestinità degli incontri e rifiutando quella di una loro pubblicità “condizionata”.

 

Pensando al momento attuale ed alle motivazioni di fondo che hanno ispirato la lettera ricevuta, possiamo dire che ci troviamo davanti ad un ripetersi della storia, infatti anche allora (come oggi!) si trattò di scegliere fra ciò che era conveniente, perché, pur esponendo al rischio di compromesso con le verità scritturali, concedeva piccoli margini di libertà all’interno di una legislazione opprimente ed oppressoria, e ciò che era coerente con la fedeltà alla Scrittura, ma che esponeva al rischio della clandestinità.

 

 

Dalla costrizione alla consuetudine: convenienza o coerenza?

 

Questa “necessità coercitiva”, imposta dal fascismo, si trasformò purtroppo in una sorta di consuetudine consolidata anche dopo la caduta della dittatura, la proclamazione della Repubblica e l’emanazione della Carta Costituzionale. Per questo motivo, pur permanendo voci di dissenso, le Assemblee continuarono ad avere al loro interno alcuni ministri di culto, precedentemente riconosciuti dal governo fascista, e a richiederne anche di nuovi al governo della Repubblica.

Questo, fino agli anni ‘70 quando, nel quadro di una più ampia revisione biblicamente ispirata del ruolo e delle funzioni e delle competenze dell’ente morale, si affrontò il problema, giungendo al rifiuto di avere ministri di culto, al quale ho fatto prima riferimento.

 

Cosa è cambiato oggi se, smentendo questa convinzione passata, si è giunti, non più attraverso l’ente morale ma attraverso iniziative di singoli fratelli supportate da chiese locali, a richiedere il riconoscimento e la nomina di ministri di culto?

È una domanda questa alla quale confesso di non sapere rispondere, perché andrebbe posta a quanti si sono assunti la responsabilità di queste iniziative ed a quanti, direttamente o indirettamente, le hanno accolte spesso anche con indifferenza, senza cioè porsi alcun problema.

 

Un cosa è certa – ed è questo il motivo della mia profonda tristezza – che dagli anni ‘70 nessuno ha più affrontato, a livello di comunione nazionale fra gli Anziani e fra le chiese locali, il problema della nomina di ministri di culto.

Cioè alla nascita ed allo sviluppo di questa nuova consuetudine che oggi si va diffondendo sono mancati il confronto fraterno, l’analisi biblica e soprattutto il desiderio di una decisione condivisa.

In questo modo si ha la sensazione che si sia preferito percorrere la strada di ciò che è conveniente piuttosto che quella di ciò che è coerente, la strada dell’individualismo piuttosto che quella della comunione.

 

Ma se, fino alla fine del fascismo, la “convenienza” di avere ministri di culto consisteva nella possibilità di poter mantenere aperti al pubblico i locali di culto, oggi in cosa consiste questa “convenienza”?

Prima di tutto nella possibilità di poter celebrare i matrimoni nei propri locali di culto o in altri locali scelti dagli sposi. Mentre, quando il matrimonio viene celebrato dal Sindaco o da persona da lui delegata a rappresentarlo, la legge impone che il matrimonio si svolga nella sede municipale o, in deroga, in sede diversa ma sempre di proprietà e pertinenza comunale.

 

Comprendo l’oggettiva difficoltà che si pone quando, a fronte della necessità di accogliere un considerevole numero di persone invitate, il Comune ha a disposizione, nella sede municipale, solo locali piccoli e poco accoglienti. O, quando, alla richiesta dei promessi sposi di sposarsi in un determinato giorno (soprattutto domenica), le autorità comunali oppongono la loro indisponibilità.

Davanti a queste difficoltà, comprendo quindi come la presenza di un ministro di culto risulti preferibile e conveniente, perché in questo modo ci si può sposare dove si vuole e quando si vuole.

 

Questa situazione ha creato di fatto due conseguenze negative:

 

1. Dal momento che, tanto si sa che è possibile ricorrere ad un ministro di culto, il matrimonio in Comune diventa un’opzione che non si prende più neppure in considerazione.

2. Qualora si avesse poi voglia di prendere questa opzione in considerazione, ci si chiede perché mai si dovrebbe lottare ed insistere con le autorità comunali perché accontentino gli sposi, trovando un luogo ed una data adatti alle loro esigenze, tanto… c’è il ministro di culto.

 

 

Visitare carcerati ed ammalati?

 

Un’altra convenienza è costituita, a detta di alcuni, dalle ulteriori opportunità di testimonianza e di servizio che si avrebbero attraverso la possibilità di visitare i carcerati e di svolgere la cura pastorale delle persone ammalate e ricoverate in ospedale, anche dal di fuori dell’orario di visita.

 

È bene subito escludere la possibilità di testimonianza perché i ministri di culto non cattolici possono rendere visita solo ai carcerati o agli ammalati che, dichiarando la loro fede evangelica, richiedano esplicitamente alle “autorità” del carcere o dell’ospedale di essere visitate e curate spiritualmente. Solo i sacerdoti cattolici godono, attraverso il Concordato ed i relativi Patti di settore, la libertà di entrare e uscire quando vogliono, di incontrare chiunque in qualsiasi momento (“i cappellani” delle carceri e degli ospedali ricevono addirittura un compenso economico per questo).

 

Per quanto riguarda poi la cura pastorale, conosco fratelli e sorelle che, pur non essendo “ministri di culto”, l’hanno svolta e la svolgono, con il semplice appellarsi e referenziarsi presso i giudici di sorveglianza ed i responsabili delle strutture ospedaliere. Negli anni passati io stesso ho visitato per mesi dei detenuti e sono stato ammesso in dei reparti di rianimazione, senza presentare alle autorità competenti alcun “titolo”, se non quello rappresentato dal desiderio di essere di aiuto e di conforto a cari fratelli e sorelle in difficoltà e sofferenti.

 

Anche la testimonianza può essere possibile, senza il ricorso a riconoscimenti giuridici ed a titoli ecclesiastici.

So di fratelli e sorelle che inviano pacchi dono ai carcerati, con calendari e libretti di testimonianza, e di altri che entrano negli ospedali nelle ore di visita e si fermano accanto a pazienti che non hanno “visitatori”. So di altri che attraverso la partecipazione alle associazioni del volontariato (ad esempio: l’AVO, Associazione Volontari Ospedalieri) hanno la possibilità di sviluppare rapporti costruttivi di consolazione e di testimonianza.

 

 

Un problema accantonato

 

Ovviamente però la conseguenza più triste e negativa di questa “corsa al ministro di culto” è rappresentata dall’aver ormai accantonato il problema della legittimità biblica.

 

Questo problema, attraverso un evidente richiamo alla coerenza con la nostra confessione di fedeltà alla Scrittura è invece ben evocato, sotto due aspetti, dalla lettera che abbiamo ricevuto.

 

1. Chi scrive si chiede e mi chiede se il matrimonio celebrato da un ministro di culto non finisca con il“confondere le idee” su quello che noi crediamo essere il matrimonio secondo gli insegnamenti della Scrittura.

 

2. Inoltre si chiede se la nomina da parte dello Stato di un incarico “di natura dichiaratamente spirituale” sia biblicamente accettabile.

 

Vorrei partire dalla seconda questione che è indubbiamente la questione di fondo, perché investe direttamente la problematica dei rapporti fra Chiesa e Stato e le relative indicazioni della Scrittura. Vorrei anche ricordare che, in relazione a questa problematica, sono apparsi in passato più articoli su questo stesso mensile1.

 

Nel modello strutturale di Chiesa presentatoci nel Nuovo Testamento, essa non ha nulla a che vedere con le forme dell’associazionismo umano né con quelle delle istituzioni giuridiche di un particolare Stato.

 

La Chiesa è un organismo vivente!

Come ben ci ricorda la metafora del “corpo” usata da Paolo, i legami che lo Spirito Santo crea fra i membri della Chiesa, proiezione universale dei legami creati fra i membri di ogni chiesa locale, non sono istituzionalizzabili, cioè non sono assoggettabili alle leggi di qualsiasi Stato.

 

La Chiesa, nella sua realtà universale e nella sua espressione locale, è infatti “l’unico corpo” formato indistintamente da “Giudei e Greci”, da “schiavi e liberi” (1Co 12:13); quel corpo che, a Cristo “ben collegato e ben connesso mediante l’aiuto fornito da tutte le giunture”, da lui “trae il proprio sviluppo, nella misura del vigore di ogni singola parte…” (Ef 4:16).

 

La vita di una chiesa locale si esprime quindi attraverso legami o, come li chiamerebbe Paolo (Ef. 4:16), attraverso “collegamenti” “connessioni” di natura esclusivamente spirituale. Questi legami sono stati creati dalla comune fede in Cristo, dalla comune dimora in lui e devono continuare ad esprimersi ed a svilupparsi attraverso il collegamento con lui e la connessione a lui! Non si è connessi con gli altri, se non è connessi con Cristo. Per questo motivo la chiesa locale non può essere trasformata in un’istituzione, in un’associazione o in un club, se non vuole perdere la propria identità.

 

Per questo stesso motivo, quando i fratelli di Firenze si trovarono alla fine dell’Ottocento nella necessità di risolvere il problema provocato alla proprietà legale del loro locale di culto di via della Vigna Vecchia, vissero un tempo di profondo turbamento, di tensioni ed anche di lacerazioni, perché ad alcuni parve che la nascita di un ente morale avrebbe in qualche modo minato l’identità spirituale della chiesa (vedi “Lo Spirito che vivifica”diRoberto Cappato, edizioni GBU, in particolare il capitolo primo).

E, pur se nel tempo si è arrivati alla definizione giuridica dell’ente morale come di una struttura amministrativa al servizio delle chiese ma esterna ad esse, di tanto in tanto si ripresentano inevitabili motivi di disagio, sollevati dalla difficoltà che le leggi dello Stato provocano al desiderio di vivere coerentemente la propria identità.

 

 

La comunione non è istituzionalizzabile!

 

È evidente che la legislazione di uno Stato non può contemplare figure giuridiche che abbiano una identità “spirituale”.

E questo crea evidentemente delle difficoltà. Ad esempio, uno dei motivi per i quali non possiamo pensare alla stipula di Intese con lo Stato è costituito dal fatto che l’art. 8 della Costituzione parli di “confessioni religiose”.

È, questa, una configurazione giudirica del tutto inadeguata ad esprimere la realtà della Chiesa come desideriamo viverla sulla base degli insegnamenti neotestamentari. Infatti, se è vero che nessun legislatore ha ancora chiarito che cosa debba intendersi per “confessione religiosa” (un concetto del tutto nuovo introdotto dalla Costituzione del 1948, dal momento che precedentemente si parlava sempre e solo di “culti”), è altrettanto vero che proprio nella stessa Costituzione (art. 8) si fa esplicito riferimento a “statuti” e a “rappresentanze” che le confessioni religiose dovrebbero di norma avere per poter stipulare Intese con lo Stato.

 

Se l’identità di ogni chiesa locale è “spirituale”, perché fondata solo sui “collegamenti” e sulle “connessioni”conCristo, l’emanazione di “statuti” e la nomina di “rappresentanze” ne minerebbe le fondamenta e e ne sconvolgerebbe la natura. Con ironia, potrei dire che, se le Intese hanno lo scopo di farci riconoscere dallo Stato per quello che siamo, una loro eventuale stipula ci costringerebbe a non essere più quello che, in Cristo, siamo e vogliamo essere! Le Intese provocherebbero quindi una dicotomia insanabile e, di conseguenza, inaccettabile con la nostra identità.

 

 

Il ministro di culto: figura clericale

 

Il diritto ecclesiastico ci ricorda che anche per chi non ha Intese, “il ministro di culto” si configura giuridicamente come “rappresentante” di una chiesa di fronte allo Stato, che in quanto tale lo riconosce e lo nomina (la chiesa deve indicare anche “un luogo dove la comunità si riunisce per le attività religiose”).

Lo Stato non nominerà mai nessuno che sia privo del criterio di rappresentanza. In questo modo chi chiede di essere istituzionalizzato come “ministro di culto”, accetta di istituzionalizzare anche la chiesa che rappresenta.

 

È opportuno ricordare che il “ministro di culto” è figura giuridica del diritto ecclesiastico, che si ispira in buona parte al diritto canonico della chiesa cattolica.

 

Infatti la schiacciante maggioranza dei ministri di culto in Italia è rappresentata dai sacerdoti cattolici, al cui modello clericale la legislazione si ispira anche per la nomina di ministri di culto non cattolici. In sostanza non solo i preti, ma ogni “ministro di culto” è identificabile con il celebrante dei riti di un movimento religioso.

Per questo motivo i ministri di culto “non sono eleggibili a sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale, provinciale e circoscrizionale… non possono essere giudici popolari, giudici di pace, giudici onorari aggregati… non possono assumere l’ufficio di notaio e quello di esattore d’imposte”. Oltre a questo non possono esercitare “la professione di avvocato, dottore commercialista, di ragioniere e perito commerciale”.

 

Sempre secondo il diritto ecclesiastico “il ministro di culto è colui che risulta, o con competenza territoriale o per incarico affidatogli dalla confessione, preposto ad una comunità di fedeli; generalmente tale soggetto ha cura d’anime, presiede alla celebrazione dei riti ed ha solitamente cura dell’edificio di culto, stabilisce con i fedeli della confessione un vero e proprio rapporto basato sulla fiducia e provvede a diffondere tra essi il messaggio religioso proprio della religiose di appartenenza” (Umberto Grillo in “Diritto ecclesiastico-La figura del ministro di culto”).

 

Davanti a tutto questo, è evidente la totale incompatibilità fra la figura del ministro di culto, come definita dal diritto ecclesiastico, e la realtà della chiesa locale in cui doni e ministeri devono essere esercitati sotto la guida dello Spirito Santo e nella quale “ministri-responsabili del culto” sono tutti i credenti, non certo per un titolo acquisito e riconosciuto da un’autorità extraecclesiale, ma per la libertà che in Cristo tutti godiamo di entrare nel “luogo santissimo” e di essere servitori gli uni degli altri.

Sono quindi in piena sintonia con chi ha scritto la lettera, quando osserva che il Signore ci ha costituiti “ministri”, ma non di “culto”, piuttosto “di un nuovo patto” di un nuovo patto “non di lettera, ma di Spirito” (2Co 3:6).

 

 

Una questione secondaria?

 

A questo punto il problema relativo alla celebrazione di matrimoni da parte del “ministro di culto” potrebbe essere considerato di secondaria importanza, dal momento che il problema primario è indubbiamente costituito – come abbiamo dettagliatamente visto – dalla illegittimità biblica della figura del ministro di culto.

 

Ci sono però alcuni principi che vale la pena ricordare, soprattutto perché ad essere chiamate in causa sono la nostra testimonianza e la nostra coerenza. Sono principi ricordati in uno degli articoli citati nella nota di pagina 485 (“Matrimonio civile o religioso?”, IL CRISTIANO n.5/maggio 2004; pagg. 222-226), ma che vale la pena di ricordare ancora, illuminati dalle considerazioni precedenti.

 

Chi ci ha scritto sottolinea il fatto che “questo genere di matrimoni” – cioè i matrimoni celebrati da un ministro di culto – finisce con il “confondere le idee”.

In che cosa le idee “vengono confuse”?

 

1. Prima di tutto le idee vengono confuse in relazione al nostro concetto di Chiesa. Se il celebrante si presentasse semplicemente come cittadino delegato dal Sindaco (cosa possibile per le normative vigenti), questa confusione certamente non accadrebbe. Ma, presentandosi come “ministro di culto”, trasmette l’idea della presenza anche fra di noi di un clero. Per una persona che non conosce la nostra realtà di chiese e che partecipa ad un matrimonio del genere, sarà difficile cogliere la differenza fra un prete ed un ministro di culto. D’altronde, come abbiamo visto nelle indicazioni del diritto ecclesiastico, questa differenza non esiste.

La conseguenza di questo è che si trasmette l’idea di un chiesa istituzionalizzata e, peggio ancora, clericalizzata.

2. In secondo luogo vengono confuse le idee in relazione al concetto di matrimonio. Secondo la Scrittura il matrimonio è un ordinamento creazionale di Dio e questo, come ricorda chi ci ha scritto, vale “per tutti, credenti e non”. Il matrimonio non è un ordinamento neotestamentario, non è stato assolutamente modificato in nulla con la nascita della Chiesa. La sua origine e la sua istituzione sono ancora oggi, per noi e per la Chiesa che desidera essere fedele alla Parola, codificate dal testo di Genesi 2:24 che, non certo a caso, è stato ripreso sia da Gesù (Mt 19: 5) che da Paolo (Ef 5:31), nelle occasioni in cui hanno voluto trasmettere un insegnamento chiaro sul matrimonio.

 

È la Chiesa cattolica che ha trasformato il matrimonio in uno dei suoi sacramenti, non considerandolo più un ordinamento creazionale, ma un ordinamento ecclesiale, soggetto non solo al diritto naturale e al codice civile ma anche al diritto canonico. In base a questo, ci sono matrimoni che vengono celebrati dal sacerdote cattolico, ma non trasmessi agli uffici di Stato civile. Ci sono coppie che sono sposate davanti alla Chiesa, ma non lo sono davanti allo Stato, così da non perdere privilegi economici legati in particolare a pensioni di reversibilità! Una volta a “sposarsi” in questo modo erano anche i militari di carriera i quali, per aggirare una norma che imponeva loro di non sposarsi prima dei trent’anni d’età, si sposavano solo “in chiesa”.

So bene che fra noi nessuno è toccato da simili, assurde, incoerenze, ma ricordiamoci che siamo immersi in una cultura profondamente cattolica e che, per questo, si deve tenere presente il rischio concreto che la celebrazione del matrimonio da parte di un ministro di culto lo “sacramentalizzi” agli occhi di tanti invitati cattolici. La nostra testimonianza su cosa è il matrimonio secondo le Scritture va in questo modo a perdersi,peggio ancora: a contraddirsi.

 

Concludo, auspicando che il futuro ci veda, insieme, attenti ed impegnati ad “esaminare che cosa sia gradito al Signore”.

 

 1. Desidero in particolare ricordare i seguenti articoli pubblicati sulle pagine de IL CRISTIANO: 
    • “Stato e Chiesa” di Paolo Moretti (n. 5/maggio 1995; pagg. 148-154). 
    • “Abbraccio mortale”, editoriale (n. 3/marzo 1998; pag. 99). 
    • “A chi è giusto dare l’otto per mille?” di Marcello Cicchese (n. 4/aprile 1998; pagg. 163-170). 
    • “Perché non è opportuno stipulare Intese con lo Stato?” di Marcello Cicchese (n. 5/maggio 1998; pagg. 204-212) con 
      “Nota redazionale” di Paolo Moretti (pagg. 213-214). 
    • “Civile o religioso?”, editoriale (n. 3/marzo 2004; pag. 107). 
    • “Matrimonio civile o religioso?” di Paolo Moretti (n. 5/maggio 2004; pagg. 222-226). 
    • “Incoerenza davanti al codice civile?” di Paolo Moretti (n. 7/luglio 2004; pagg. 322-325). 
    • “Quale libertà religiosa?” di Daniele Moretti (n. 9/ottobre 2009; pagg. 436-439).