Un nome per testimoniare una triste situazione di vita
Naomi arrivò a Betlemme quando si cominciava a mietere l’orzo. Era accompagnata da Rut la Moabita, sua nuora.
La città fu commossa per loro, due donne che avevano percorso circa un centinaio di chilometri da Moab a Betlemme, da sole.
Le donne del paese, che non la vedevano da molti anni, si chiedevano l’un l’altra con tono incredulo: “È proprio Naomi?”.
Chissà se Naomi era stata una ragazza dolce come il suo bellissimo nome faceva presagire! Naomi significa infatti “mia dolcezza”.
Forse proprio di quella dolcezza si era innamorato suo marito Elimelec. E insieme avevano scelto di partire per Moab quando a Betlemme era cominciata la carestia.
Avevano lasciato Betlemme, che significa “casa del pane”, per andare a cercare del pane in un paese straniero.Ma a Moab, Naomi non trovò solo pane. Trovò la sofferenza.
Prima perse il marito che la lasciò sola con i suoi due figli. Poi, dopo che entrambi avevano sposato donne moabite, non proprio il genere di nuore che aveva sognato, Naomi perse anche i figli.
Naomi si ritrovò vedova e priva di figli in un paese straniero, in compagnia delle sue due nuore moabite.
Quando aveva saputo che in Giuda il Signore aveva visitato il suo popolo mettendo fine alla carestia, Naomi aveva deciso di tornare a Betlemme.
Entrambe le nuore la accompagnarono ma, dopo un po’ di strada, Naomi era riuscita a convincere Orpa a tornare indietro. Rut invece non ne aveva voluto sapere di andare a cercarsi un altro marito nel suo paese ed era rimasta con Naomi.
Così Naomi era tornata a Betlemme con l’ulteriore peso di dover sistemare la nuora.
Chi, nella piccola Betlemme, si sarebbe preso in moglie quella vedova moabita?
E così Naomi vedeva nero. Solo nero.
Ecco perché non possiamo biasimarla se, quando le donne si erano rivolte a lei chiamandola Naomi, lei aveva risposto:
“Non mi chiamate Naomi; chiamatemi Mara, poiché l’Onnipotente m’ha riempita d’amarezza. Io partii nell’abbondanza, e il SIGNORE mi riconduce spoglia di tutto. Perché chiamarmi Naomi, quando il SIGNORE ha testimoniato contro di me, e l’Onnipotente m’ha resa infelice?” (Ru 1:20-21).
“Chiamatemi Mara”.
Nella vita di Naomi non c’era più spazio per la dolcezza. Quel nome alle sue orecchie suonava come una beffa e non voleva più sentirlo.
Mara significa amara, triste.
In quel momento era il nome che meglio la descriveva.
Quando tutto va a rotoli
Alle orecchie di molti credenti le parole di Naomi suoneranno irrispettose nei confronti del Signore.
Ma piuttosto che biasimarla per le sue parole, se vogliamo imparare qualcosa che può essere utile anche nella nostra vita, dobbiamo provare a metterci nei suoi panni.
Dal suo punto di vista, la situazione era tragica: • il passato le riportava alla mente i suoi cari che ora non c’erano più,
• il presente le sembrava un peso impossibile da sopportare,
• il futuro appariva senza prospettive e senza speranza.
Dopo tutto ciò che le era successo, Naomi vedeva il Signore più come un giudice che come un Padre amorevole. Più che colui al quale poteva chiedere soccorso, Dio sembrava essere il nemico, l’artefice dei suoi mali.
Si sentiva colpita da Dio e si stava rassegnando ad una vita piena d’amarezza.
Neanche la presenza di Rut sembrava essere un sollievo per lei, infatti al loro arrivo a Betlemme, Naomi dichiarava a tutti di essere tornata spoglia di tutto. Non un solo accenno positivo alla nuora. Forse in quel momento, più che una consolazione, Rut sembrava essere solo un peso che Naomi non era in grado di sopportare. Perché non se ne era tornata al suo paese a rifarsi una vita come aveva fatto Orpa?
Quando tutto va a rotoli, non è facile affrontare la vita in maniera serena e vedere le cose dalla giusta prospettiva. Nelle sue condizioni, quanti di noi sarebbero stati tanto ottimisti da vedere il bicchiere mezzo pieno?
Non avremmo anche noi pianto sulle nostre disgrazie?
Quando il mondo sembra crollarci addosso non ci viene talvolta da gridare: “Perché proprio a me?”. Domande come queste spesso non trovano risposta in questa vita e hanno l’unico effetto di logorarci:
“Non dire: «Come mai i giorni di prima erano migliori di questi?», poiché non è da saggio domandarsi questo”(Ec 7:10).
Come accade a chiunque si trovi nel dolore, in quel momento i suoi occhi non riuscivano a vedere ciò che il Signore le aveva donato, una nuora che si sarebbe rivelata più preziosa di sette figli (Ru 4:15). Naomi vedeva solo ciò che le era stato tolto.
Nella sua infinita grazia, colui che a Naomi sembrava solo un giudice severo, aveva un piano per risollevarla e darle una speranza e le aveva messo vicino Rut per la sua consolazione ma, in quei momenti, la fede di Naomi era offuscata dalla ragione che le mostrava solo i fatti nudi e crudi: suo marito e i suoi figli non c’erano più.
Rut: non solo parole
Spesso ci sentiamo in dovere di dire qualcosa a chi soffre come Naomi.
D’altra parte, i credenti, a rigor di logica, dovrebbero essere le persone più adatte a consolare chi soffre, in quanto sono essi stessi oggetto continuo di consolazione da parte di Dio “il quale ci consola in ogni nostra afflizione, affinché, mediante la consolazione con la quale siamo noi stessi da Dio consolati, possiamo consolare quelli che si trovano in qualunque afflizione…” (2Co 1:4).
Anche su un argomento spinoso come la morte, Paolo dimostra che il credente ha una consolazione da portare:
“Fratelli, non vogliamo che siate nell’ignoranza riguardo a quelli che dormono, affinché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza.…Consolatevi dunque gli uni gli altri con queste parole” (1Te 4:13, 18).
Nella Scrittura ci sono molti passi che sono di vero incoraggiamento per il credente che sta attraversando una prova difficile.
Ma li utilizziamo sempre nel modo giusto e con la giusta sensibilità?
O rischiano di essere freddi enunciati che invece di aiutare il prossimo, creano una barriera ancora più impenetrabile?
“Se un fratello o una sorella non hanno vestiti e mancano del cibo quotidiano, e uno di voi dice loro: «Andate in pace, scaldatevi e saziatevi», ma non date loro le cose necessarie al corpo, a che cosa serve?” (Gm 2:15-16).
Insomma, Non possiamo dire a qualcuno che soffre: “Rallegratevi sempre nel Signore. Ripeto: rallegratevi”(Fl4:4) e poi tornare ai nostri affari come se niente fosse.
Se vogliamo aiutare Mara a ritrovare la dolcezza di Naomi non abbiamo scorciatoie, se non quello di essere solidali con lei.
“Il cuore del saggio è nella casa del pianto; ma il cuore degli stolti è nella casa della gioia” (Ec 7:4).
“Rallegratevi con quelli che sono allegri; piangete con quelli che piangono. Abbiate tra di voi un medesimo sentimento” (Ro 12:15-16).
Non possiamo aiutare il nostro fratello inondandolo di versetti “dall’alto”. Dobbiamo sederci al suo fianco.Quando è ora di piangere, bisogna avere il coraggio di piangere.
Questo atteggiamento empatico è fondamentale per non fare la fine degli amici di Giobbe che, invece di lenire il dolore del loro amico, lo acuirono. Dio non vide infatti di buon occhio il loro maldestro tentativo consolatorio:
“Dopo che ebbe rivolto questi discorsi a Giobbe, il SIGNORE disse a Elifaz di Teman: «La mia ira è accesa contro di te e contro i tuoi due amici, perché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe»” (Gb 42:7).
Una semplice dimostrazione di saccenza indispettisce ma l’ammissione onesta di chi si rendo conto che non siamo in grado di capire tutto ma confidiamo comunque nel Signore, viene apprezzata da chi soffre.
In un passaggio tratto dal libro “Lettere a Malcolm”di C.S. Lewis leggiamo:
“Alcuni anni fa, quando sono stato io a trovarmi in difficoltà, me lo hai anche detto esplicitamente. Anzi, mi hai scritto: «So di restare al di fuori. La mia voce riesce a stento a raggiungerti». E quello fu uno dei motivi per cui la tua lettera fu per me la stretta di mano più vera e sincera di qualsiasi altra che abbia mai ricevuto”.
Lewis dipinge con questa frase la condizione dell’uomo che, con estrema sensibilità, si rende conto di non riuscire a penetrare nel dolore dell’amico e non può fare altro che ammettere questa difficoltà. Questo umile punto di partenza può essere la base per aiutare davvero.
Dobbiamo ricordarci che il credente che soffre, molto spesso, conosce già i versetti che noi utilizziamo per cercare di consolarlo. Ciò che realmente gli manca in quel momento è la lucidità per applicare la Scrittura alla propria particolare situazione.
Il nostro compito quindi non è solo quello di snocciolare versetti ma quello di aiutare il nostro fratello arecuperare la giusta visione delle cose e a riporre la propria fede nel Signore. E questo richiede tempo.
Oggi, in un mondo che va di fretta anche la consolazione viene elargita come il cibo in un fast food. È più comodo recitare dei versetti a memoria piuttosto che dedicare del tempo ad ascoltare davvero qualcuno.
Ma come sarebbe riuscita Naomi a rivedere Dio come un Padre amorevole e non come un giudice?
Non solo attraverso parole frettolose ma attraverso Rut la Moabita che le avrebbe mostrato l’amore di Dio in maniera pratica.
Quando soffriamo, non abbiamo solo bisogno di qualcuno che ci ricordi che Dio ci ama ma di qualcuno che ci mostri l’amore di Dio per noi.
L’empatia di Rut con Naomi è quasi totale:
“Rut rispose: «Non pregarmi di lasciarti, per andarmene via da te; perché dove andrai tu, andrò anch’io; e dove starai tu, io pure starò; il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu, morirò anch’io, e là sarò sepolta. Il SIGNORE mi tratti con il massimo rigore, se altra cosa che la morte mi separerà da te!»” (Ru 1:16-17).
Mentre Naomi, nel suo dolore, aveva tentato di allontanare Rut e rimandarla al suo paese, Rut, sopportando le parole amare della suocera, decise di ascoltare la voce del Signore che le indicava il modo più giusto di aiutarla.
Le parole di Rut non sono un semplice enunciato teologico con il quale accettava il Dio di Naomi ma sono parole che dimostrano una trasformazione interiore. Nel momento in cui dichiarò la sua fede nel Dio di Israele, la dimostrò in maniera pratica nel suo solenne impegno con Naomi.
La giovane Moabita Rut poteva rifarsi una vita in Moab ma preferì rinunciare a sé stessa per aiutare sua suocera. E in tale rinuncia anticipa di secoli ciò che il Nuovo Testamento ci insegna sul modo in cui l’amore di Dio ci spinge a operare:
“Da questo abbiamo conosciuto l’amore: egli ha dato la sua vita per noi; anche noi dobbiamo dare la nostra vita per i fratelli” (1Gv 3:16).
“La religione pura e senza macchia davanti a Dio e Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni, e conservarsi puri dal mondo” (Gm 1:27).
Dio non operò un miracolo eclatante per consolare la vedova Naomi ma le diede l’amore di Rut.
Dio manifesta sé stesso a chi soffre proprio attraverso altri esseri umani che si lasciano utilizzare come strumenti nelle sue mani.
Quegli esseri umani possiamo essere proprio noi!
Tornare a vivere
La disponibilità di Rut ad essere usata dal Signore per la consolazione di Naomi ha dato i suoi frutti.
Il racconto arriva ad una svolta quando Rut decise di andare a lavorare per tentare di portare qualcosa a casa da mangiare per lei e per sua suocera:
“Rut, la Moabita, disse a Naomi: «Lasciami andare nei campi a spigolare dietro a colui agli occhi del quale avrò trovato grazia». E lei le rispose: «Va’, figlia mia». Rut andò e si mise a spigolare in un campo dietro ai mietitori; e per caso si trovò nella parte di terra appartenente a Boaz, che era della famiglia di Elimelec” (Ru 2:2-3).
Per caso? C’erano decine e decine di campi in cui Rut sarebbe potuta andare a finire, ma per caso si trovò nella terra appartenente a Boaz, un parente di Elimelec. Mentre gli increduli credono nella fortuna, noi sappiamo che
“Il cuore dell’uomo medita la sua via, ma il SIGNORE dirige i suoi passi” (Pr 16:9).
Gli eventi della vita sembrano casuali ma la Scrittura ci dice che Dio ha ogni cosa sotto il suo controllo. Rut voleva aiutare sua suocera e Dio guidò le cose in modo che ciò potesse avvenire in maniera efficace.
Dio mostrò la sua compassione verso Naomi lasciando che Rut incontrasse Boaz e da qui in poi la storia assume toni completamente diversi. Infatti nel momento in cui si rese conto che Boaz era un loro parente stretto, Naomi realizzò che le cose potevano cambiare:
“E Naomi disse a sua nuora: «Sia egli benedetto dal SIGNORE, perché non ha rinunciato a mostrare ai vivi la bontà che ebbe verso i morti!». E aggiunse: «Quest’uomo è nostro parente stretto; è di quelli che hanno su di noi il diritto di riscatto»” (Ru 2:20).
Finalmente, dopo tanta amarezza, Naomi rivide uno spiraglio di luce. Capì che il Signore poteva dare un futuro alla sua famiglia proprio usando la sua nuora moabita. Tornò a vivere.
Il fatto che Boaz fosse parente stretto lo rendeva idoneo per essere il riscattatore (o redentore) della famiglia.
Benché esuli dallo scopo di questo articolo, è bene dire qualcosa sulla figura del riscattatore. In Israele, la terra apparteneva a Dio ed egli l’aveva suddivisa tra le varie tribù di Israele comandando che nessuna famiglia si arricchisse nel tempo a scapito di un’altra.
Per salvaguardare questo principio, nella legge ci sono diverse norme che prevedevano tra l’altro il riscatto delle terre di un parente impoverito (Le 25:25) e la cosidetta legge del levirato che serviva a garantire una discendenza ad un uomo che moriva senza figli:
“Se dei fratelli staranno insieme e uno di loro morirà senza lasciare figli, la moglie del defunto non si sposerà fuori, con uno straniero; suo cognato verrà da lei e se la prenderà per moglie, compiendo così verso di lei il suo dovere di cognato; e il primogenito che lei partorirà porterà il nome del fratello defunto, affinché questo nome non sia estinto in Israele” (De 25:5-6).
In questo contesto, Boaz, come parente stretto di Elimelec, poteva fare valere il diritto di riscatto sulla terra messa in vendita da Naomi e Rut e, allo stesso tempo, sposare Rut per non lasciare la famiglia senza eredi.
È proprio ciò che accadde nei mesi successivi. Dopo alcune vicende narrate nel libro, Boaz sposò Rut accettando il ruolo di riscattatore della famiglia e il libro si conclude con una Naomi finalmente felice con il suo nipotino in braccio:
“E le donne dicevano a Naomi: «Benedetto il SIGNORE, il quale non ha permesso che oggi ti mancasse uno con il diritto di riscatto! Il suo nome sia celebrato in Israele! Egli consolerà l’anima tua e sarà il sostegno della tua vecchiaia; l’ha partorito tua nuora che ti ama, e che vale per te più di sette figli». E Naomi prese il bambino, se lo strinse al seno, e gli fece da nutrice. Le vicine gli diedero il nome, e dicevano: «È nato un figlio a Naomi!» Lo chiamarono Obed. Egli fu il padre d’Isai, padre di Davide” (Ru 4:14-17).
In questi passi finali del libro vediamo che la consolazione di Dio è finalmente completa e va al di là di ogni aspettativa.
Vengono messi in luce diversi elementi che hanno contribuito a tale consolazione:
• Le donne dicevano “È nato un figlio a Naomi!”, a testimonianza del fatto che l’intera comunità gioiva nel vedere il riscatto di questa donna attraverso la nascita di questo bambino che viene chiamato Obed (servo).
• Obed sarebbe diventato celebre in Israele, fu infatti il nonno di Davide. La Naomi che non aveva speranza sarebbe diventata addirittura antenata del grande re Davide attraverso questo bimbo.
• Il valore di Rut nella vicenda viene riconosciuto anche dalle sue vicine. Naomi aveva perso due figli, ma Rut, la nuora che l’amava, valeva per lei più di sette figli.
• Dio ha provveduto Boaz che ha svolto il prezioso ruolo di riscattatore (una bella figura di Cristo).
• Il Signore viene indicato come colui che ha guidato ogni cosa e ha permesso il riscatto di Naomi.
Colui che era sembrato un giudice cattivo aveva lavorato durante tutto il tempo come un Padre amorevole per dare consolazione a Naomi. Ma questo ha richiesto tempo e ha richiesto la strumentalità di persone come Rut e di Boaz nel lasciarsi usare da Dio a questo scopo.
Una Rut per Naomi
Quando mi troverò nei panni di Naomi, se Dio mi sembrerà lontano, posso essere certo che lui non si è mai mosso da lì.
Se esorta i suoi figli a piangere con quelli che piangono, non sarà lui il primo a dare il buon esempio?
Se aveva un piano per ricostruire la vita di Naomi, perché non dovrebbe essere lo stesso per me?
La sofferenza prima o poi ci accompagnerà per un tratto di strada nella nostra vita. Non so fino a che punto è possibile prepararsi ad affrontare le avversità, ma credo che nei momenti sereni della nostra vita dobbiamo approfittare per fare il pieno delle promesse che troviamo nella sua Parola.
Avremo carburante per attraversare il deserto della prova.
Quando sarò tentato di dire: “Chiamatemi Mara”, chiedo al Signore che mi ricordi parole come queste:
• “Dio è padre degli orfani e difensore delle vedove nella sua santa dimora; a quelli che sono soli Dio dà una famiglia, libera i prigionieri e dà loro prosperità; solo i ribelli risiedono in terra arida” (Sl 68:5-6).
• “Annienterà per sempre la morte; il Signore, Dio, asciugherà le lacrime da ogni viso, toglierà via da tutta la terra la vergogna del suo popolo, perché il SIGNORE ha parlato” (Is 25:9).
• “Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate” (Ap 21:4).
Che in quel giorno queste parole siano per me un’ancora di salvezza e non parole dal significato lontano ed incerto!
E che Dio mi dia di riconoscere la Rut che mi ha messo vicino per la mia consolazione.
D’altra parte, quando sarò chiamato ad essere Rut per una Naomi che sta soffrendo, che Dio mi guidi a non giudicarla per la sua amarezza ma ad aiutarla nel riscoprire la dolcezza.
Che io stia zitto, se non ho intenzione anche di ascoltare!
Che io sappia essere “L’amico che ama in ogni tempo, nato per essere un fratello nella sventura” (Pr 17:7)!