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Nuovi tentativi dopoRossini

 

L’esperimento rossiniano, e il successo da cui venne coronato, spinse anche altri musicisti ad ispirarsi a testi biblici.

 

Un esempio poco conosciuto – ma di grande interesse – è dato da un prolificissimo autore, nelle cui opere al protestantesimo è dato uno spazio che forse, nel panorama Italiano, costituisce un caso unico: Gaetano Donizetti.

Una sua opera però si propone come un grande dramma sacro di contenuto biblico, proprio come il Mosè: “Il Diluvio Universale”, scritto, come il Mosè, per la stagione “quaresimale” del San Carlo di Napoli, nel 1830.

 

 

Le fonti di Donizetti

 

Donizetti – come non di rado gli era capitato di fare – giocò un ruolo attivo anche nella scelta del soggetto e nella stesura del libretto; in una sua lettera al padre ci informa – ed è un dato prezioso – sulle sue fonti:

 

“Dite (a Mayr) che se non ha trovato nulla sul diluvio, io ne ho scoperto abbastanza; stavolta voglio propormi quale inventore non solo della musica, ma anche dell’azione. Ho letto le opere di Sassy e Calmet, «Gli amori degli angeli» di Lord Byron, la tragedia «Il diluvio» di Padre Ringhieri e se mi riuscisse di trovarlo, leggerei anche il poema sullo stesso argomento di Bernardino Baldi…”.

Sassy è l’abate di Sacy, uno dei fondatori del Giansenismo (una corrente teologica in odore di eresia, che, pur essendo riuscita a mantenersi nell’alveo del cattolicesimo, aveva mutuato molti temi dal protestantesimo, specialmente dal calvinismo – in particolare una concezione assai sfuggente – in un’ottica cattolica – della grazia). Agostino Calmet fu un monaco inquisitore che nutriva però interessi molto eclettici, il poemetto sugli“amori degli Angeli” è in realtà del poeta irlandese Thomas Moore, cattolico ma che doveva avere anche rapporti col mondo protestante, avendo studiato al Trinity College (che solo fino a qualche anno prima era precluso agli studenti cattolici); e anche il calvinista Byron, col suo “Cain”, da cui mutua i nomi di Sela e Ada (le due protagoniste femminili dell’opera), fu una lettura presente al compositore bergamasco. Controriforma, Giansenismo e Calvinismo sembrano amalgamarsi nella musica di Donizetti – e non soltanto in questa grandiosa, e purtroppo poco nota, opera – ma un po’ in tutta la sua produzione

 

Alla nota vicenda di Noè e del Diluvio si sovrappone una storia che Donizetti trae dalle sue diverse fonti, soprattutto dalla tragedia del Ringhieri (che aveva già fornito il soggetto per il Mosè rossiniano, e che – a dispetto del suo status religioso – era considerato anch’egli in odor d’eresia).

Eppure si può leggere, in questa vicenda, qualche cosa di più: Sela, eroina dell’opera, alla fine della medesima verrà posta davanti ad una tragica scelta: solo se rinnegherà il Dio d’Adamo, riavrà l’amore dell’uomo che ama, il figlio e la vita salva. Cede, ma non fa in tempo a cedere completamente; le flebili parole con cui si piega al volere di Cadmo e accenna a rinnegare il proprio Dio sono soverchiate dalle onde del diluvio che sommerge la terra mentre lei, incapace di spingersi fino in fondo nella sua abiura, muore soffocata. Un dilemma che nell’Italia di quegli anni – forse in termini non così “spettacolari” – si sarebbero trovati a vivere molti credenti (un caso documentato è quello della vedova Berretti, che sarebbe diventata moglie di uno degli anziani della Chiesa di Firenze, alla quale le figlie piccolissime furono sottratte e chiuse in convento all’indomani della morte del marito, a seguito del suo rifiuto di abiurare e di tornare in seno alla Chiesa di Roma).

 

 

Giuseppe Verdi e il “Nabucco”

 

Naturalmente non si può tacere l’esempio più famoso e probabilmente più riuscito, che è il “Nabucco” di Giuseppe Verdi.

Le citazioni bibliche poste a capo delle varie sezioni del libretto, testimoniano che la prima fonte d’ispirazione del librettista, Temistocle Solera, era stata la Bibbia, e in particolare la Bibbia nella traduzione – cara agli Evangelici d’Italia, e però proibita dalla censura – di Giovanni Diodati, nonostante che alla data in cui venne scritta e rappresentata (fra il 1840 e il 1842) fosse già disponibile la traduzione cattolica di mons. Martini.

È difficile immaginare se e quanto abbia influito nel tono e nella stesura della musica la lettura piuttosto costante della Bibbia (in quale traduzione non è dato sapere) che sappiamo era stata una delle letture predilette da Verdi nella sua giovinezza. Più che nel “Mosè”, e molto più che nel “Diluvio Universale”, l’opera – soprattutto (ma non esclusivamente) nel celebre coro “Va’ pensiero, su l’ali dorate” – si configura come una sorta di grande preghiera cantata corale, dove un popolo oppresso (che era il popolo d’Israele, nel momento in cui sotto i colpi delle armate di Nabucodonosor sta per perdere in un colpo solo la propria indipendenza nazionale e la propria libertà di adorare il proprio Dio, ma in cui facilmente si potevano riconoscere gli Italiani del XIX Secolo, oppressi dalla dominazione straniera) si rivolge a Dio.

 

 

Primi cristiani e protestanti sulle scene

 

A questi grandiosi affreschi dal contenuto più direttamente biblico (e, almeno nel caso verdiano, la Bibbia è sicuramente mediata dalla versione “protestante” di Giovanni Diodati), si devono aggiungere alcuni lavori, il cui contenuto rimanda piuttosto alla storia.

 

Sebbene ci siano esempi importanti tanto nella produzione belliniana quanto in quella verdiana, come pure nelle opere di alcuni autori meno conosciuti, un posto di grande rilievo occupa da questo punto di vista il caso singolare di G. Donizetti che, a parte il menzionato tentativo di opera biblica, attinse a piene mani dalla storia del protestantesimo. È noto che il musicista bergamasco era particolarmente attento alla scelta dei soggetti per le sue opere, e in qualche caso prese attivamente parte anche alla loro stesura – egli si fece vanto di non avere mai attinto alla mitologia classica (anche se si deve ricordare la vistosa eccezione della sua prima opera, composta peraltro mentre era ancora studente e mai rappresentata mentre era in vita, il “Pigmalione”).

 

Per le sue opere serie o semiserie egli preferiva ambientazioni storiche più vicine e, a partire grosso modo dal 1830, iniziò ad essere affascinato dalle guerre di religione che a cavallo fra XVI e XVII secolo insanguinarono l’Europa e, specialmente, l’Inghilterra contesa fra i Tudor, protestanti, e gli Stuart, cattolici.

Proprio alla controversa figura della regina Elisabetta I è dedicata la sua prima opera di sicura ambientazione protestante, “Elisabetta al Castello di Kenilworth” (Napoli, 1829), cui seguiranno a breve distanza “Anna Bolena”(Milano, 1830), “Maria Stuarda” (Milano 1835), “Lucia di Lammermoor” (Napoli, 1835), “Roberto Devereux”(Napoli, 1837), “Il Duca d’Alba” (1839) e “Maria di Rohan” (Vienna, 1843).

 

 

Donizetti e “La Linda di Chamounix”

 

Lo sfondo è chiaramente protestante anche nella “Linda di Chamounix” (Vienna, 1842): in questo caso però non siamo di fronte ad un’ambientazione genericamente “protestante”, ma – caso abbastanza singolare – si fa riferimento al Protestantesimo Italiano: Chamounix era (ed è) un piccolo villaggio della Savoia, la regione nella quale i Valdesi avevano fin dal Medio Evo il loro centro maggiore; nella figura del Prefetto, che nei momenti salienti dell’opera invita i protagonisti a conservare o ritrovare la fede in Dio, non è difficile riconoscere la figura di un “ministro” protestante.

Particolarmente coinvolgente è il finale del primo atto: quando un gruppo di montanari savoiardi, fra cui la stessa Linda, protagonista dell’opera, devono mettersi in marcia verso Parigi, egli invita coloro che partono come coloro che restano ad unirsi in una toccante preghiera che, affidata alla sensibilità del compositore bergamasco, assume le caratteristiche di un commovente inno. Nelle sue cadenze e nei suoi stilemi, sembra davvero riecheggiare i canti che proprio in quegli anni, timidamente, spesso nella clandestinità, i credenti d’Italia (non soltanto Valdesi, e non soltanto nelle Valli) iniziavano a levare al loro Signore:

“O tu che regoli gli umani eventi, speme degli umili, degl’innocenti; nella tua grazia onnipossente, noi ti preghiamo, serbali ognor”.

Se in un precedente duetto (che pure ha le cadenze di un inno) il riferimento alla “divina Provvidenza” potrebbe rimandare ad alcune idee gianseniste che in quegli stessi anni stavano ispirando in Alessandro Manzoni uno dei temi dominanti del suo romanzo, il riferimento alla “grazia onnipossente” del coro finale del 1° atto sembra spingersi più in là e rimandare a concezioni tipicamente riformate (del resto, il titolo stesso della commedia francese che ha ispirato il libretto dell’opera, “La Grace de Dieu”, è più che emblematico. Si parte da un lavoro dove il protagonista non è Linda, e nemmeno un pastore, ma la Grazia.

 

Sarebbe troppo pensare a Gaetano Donizetti come ad una specie di cripto-credente, nonostante i molti riferimenti alla Bibbia, alla fede, alla grazia al Cristianesimo e alla Riforma nelle sue opere. Dal suo copiosissimo epistolario egli sembra poco attento in generale alla religione, e comunque non sembra che si sia posto mai seriamente il problema se la Chiesa Romana fosse – come pretendeva di essere – la sola vera chiesa. L’idea che personalmente, da semplice appassionato, mi sono fatto, è che non fosse una persona particolarmente religiosa, ma che – essendosi dovuto confrontare per le trame di tante sue opere – con il Cristianesimo nelle sue diverse espressioni storiche, con la Scrittura e con la Riforma, ne fosse rimasto in qualche modo affascinato.

Comunque, è bene ricordare in quale orizzonte egli si mosse. Mazzini, i cui legami con l’Evangelismo sono ben noti, nel suo “La filosofia della musica” vede in lui la massima espressione della musica Italiana, il solo autore capace (a suo dire) di promuovere una nuova musica di respiro nazionale, una musica in grado di essere autentica espressione di una “fede”, anche se per Mazzini “fede” è concetto complesso: non è fede cristiana, ma non è nemmeno una pura fede politica o nazionale; sullo sfondo del suo pensiero, se si parla di fede, la fede riformata non è mai del tutto assente pur non essendo quasi mai l’elemento unico o dominante.

I contatti con gli ambienti liberali e mazziniani durante il suo soggiorno francese sono inoltre abbastanza documentati. Il suo maestro, Giovanni Simone Mayr, aveva aderito alla loggia degli Illuminati di Baviera. E, soprattutto, il suo librettista, il napoletano Salvatore Cammarano, era in ottimi rapporti con Gabriele Rossetti. Una delle corrispondenze più interessanti è l’inno 530 dell’ultima versione del nostro innario (“È spirato! E più non langue”), che era, in origine, una delle liriche più toccanti della raccolta di Gabriele Rossetti “L’arpa evangelica”.

 

 

Donizetti e il “Poliuto”

 

Cammarano fu anche autore del libretto di una delle più singolari opere non solo di Donizetti ma – a mio giudizio – di tutta la produzione operistica Italiana dell’Ottocento, vale a dire “Poliuto”. Anche il Poliuto era stato pensato per il San Carlo di Napoli. Avrebbe dovuto andare in scena nel 1838, ma non vi andò in quanto la censura non lo permise. La ragione – che veniamo a sapere dallo stesso Donizetti, che ne parla nel suo epistolario – era che si riteneva sconveniente portare sulle scene “un santo”. Eppure, non sarebbe stata certo la prima volta che ciò accadeva.

Opere di argomento sacro ormai da mezzo secolo erano diventate consuetudine nei teatri napoletani. Come dunque si spiega la contrarietà della censura che non si accontentò nemmeno di un aggiustamento (Donizetti aveva sempre dovuto combattere con le assurde prescrizioni dei censori, soprattutto a Napoli, e lo aveva sempre fatto adattandosi anche alle richieste più bizzarre come quella di eliminare tutti gli “eziandio” che eventualmente comparissero nei libretti)?

 

“Poliuto” è una delle pochissime opere donizettiane di ambientazione quasi classica (le altre eccezioni, su una copiosissima produzione, sono il giovanile “Pigmalione”, “Fausta”, “l’Esule di Roma” e il “Belisario”). L’azione si svolge a Mitilene, capitale dell’Armenia, al tempo delle persecuzioni dei Cristiani ad opera dei Romani. Proprio le persecuzioni sono – molto più della debole vicenda d’amore che Donizetti stesso aveva voluto inserire – il tema centrale dell’opera. E in qualche maniera l’intera vicenda si snoda e ruota intorno ad un grandioso confronto fra due fedi, che, sulla carta almeno, sono il culto di Zeus e il Cristianesimo.

 

Tuttavia non è secondo me impossibile pensare che il vero confronto fosse fra due tipi di religiosità, fra due modi di intendere la fede. In tutto il libretto dell’opera, tutti i riferimenti al politeismo tipico dei culti pagani si riducono ad un unico passaggio: l’ultima scena del terzo atto si apre con il popolo che grida: “Alle fiere chi oltraggia gli dèi, fia punito l’orrendo misfatto”.

In tutti gli altri casi anche il culto di Zeus, il culto antagonista rispetto al Cristianesimo, viene presentato come un culto verso un unico dio. La differenza che si percepisce fra i due culti, è piuttosto nel modo di intendere la fede. Se i pagani cantano: “Celeste un’aura/pel tempio muove/Al sacrificio/presiede Giove/che il giusto premia/e l’empio atterra/che può dai cardini/sveller la terra/le stelle innumeri/strappare al ciel…”, i Cristiani cantano qualcosa di profondamente diverso: “Infiamma quest’alma, o Spirto di Dio/ che piena di speme a Te ricovrò:/ e il premio le serba che avanza il desio,/che il Figlio Celeste col sangue mercò”.

 

Di più, anche se l’opera si apre con due riferimenti a due temi cari alla teologia cattolica (il primo al battesimo come alla “onda che terge dell’antica macchia”, e il secondo a Cristo descritto come “Quei che t’apre le braccia, ostia di pace s’offerse…”), si chiude con la scena assai toccante nella quale Paolina, promessa sposa del protagonista, combattuta fra Cristianesimo e paganesimo, fa la sua scelta, sceglie per Cristo, ed è salvata. Senza aver ricevuto il battesimo. E, udendolo, così commenta Poliuto: “Fia vero!… La grazia nell’alma ti scende!… La via di salute fu schiusa per te”.

E, ancora: la vicenda prende le mosse da un fatto che in quegli anni era tutt’altro che infrequente. I Cristiani devono, nella finzione scenica, fare i conti con una nuova legge: se fino al giorno prima la pena per loro era l’esilio, ora è la morte. E gli Stati Italiani del primo Ottocento – in particolare il Regno delle due Sicilie – non erano affatto nuovi a tali improvvise svolte reazionarie che comportavano un inasprimento delle misure contro gli acattolici.

Per esempio, il 7 Maggio del 1821 Ferdinando I di Napoli aveva decretato che i capi delle società segrete (una voce generica sotto cui ricadevano anche i “reati” di quanti venissero identificati come “capi” dei cosiddetti gruppi scismatici) potessero essere messi a morte con procedure assai semplificate.

 

Il confronto, è davvero fra Cristo e Zeus?

Non è piuttosto fra due modi diversi di intendere la fede e la grazia? Non fu forse questo confronto, nonché il riferimento alle persecuzioni, ai drammi terribili di cui gli Stati si rendevano colpevoli col processare e condannare le persone sulla base delle loro credenze religiose, ad infastidire l’occhiuta, retriva, contestatissima censura della Corte di Ferdinando II?

In ogni caso, parlare di battesimo (sia pure inteso come atto in qualche modo purificatore dal peccato originale, anche se non indispensabile per la salvezza) ricevuto da adulti, di una conversione a Cristo sperimentata da adulti e intesa come “grazia che discende nel cuore”, non era affatto usuale negli Stati cattolici del 1838, o anche del 1848 (quando finalmente, pochi mesi dopo la morte dell’autore, poté essere rappresentata).

 

 

Vincenzo Bellini e “I Puritani”

 

La fede torna anche nel capolavoro del “rivale” di Donizetti, Vincenzo Bellini. Vi torna in maniera forse più superficiale – ma anche più esplicita. Il suo capolavoro, che fu anche la sua ultima opera, porta il titolo fin troppo significativo de “I Puritani”.

Donizetti stesso scrive che Parigi – dove lui si trasferisce per la rappresentazione del “Poliuto” – non ha bisogno di nulla, perché ha già avuto il massimo con due fra le opere più esplicitamente protestanti del XIX Secolo: “Gli Ugonotti” di Meyerbeer (altro titolo importante, e su cui qui per ragioni di spazio non mi soffermo), e “I Puritani” di Bellini.

Ne “I Puritani”, a dominare è la storia d’amore; tuttavia suggestivo e toccante è il momento iniziale, dove il coro canta una preghiera – e quello che ne esce è un inno che davvero sembra richiamare le armonie che in quegli anni risuonavano nelle prime comunità. Riascoltando quella melodia, nelle sue battute iniziali, par di riconoscere qualche assonanza col nostro “Io voglio questa sera”, che pure venne composto alcuni anni dopo (inno 332 della “nostra” raccolta). La singolarità, comunque, più che nello specifico momento musicale, sta nelportare sulle scende una comunità riformata – presentandola in una luce decisamente positiva.

Forse fu all’Opera che, inconsapevolmente, molti Italiani iniziarono a comprendere che “Protestanti” non era sinonimo di “criminali”, che i credenti evangelici non erano una specie di razza aliena proveniente da un altro pianeta, ma erano persone normali, capaci di provare gli stessi sentimenti che provavano tutti: di amare, odiare, provare amicizia, invidia, di compiere atti di coraggio o di viltà, e capaci, soprattutto, di una fede autentica nel Dio della Rivelazione…

 

 

Religiosità anticonformista nelle opere di Verdi

 

E poi, ancora, Verdi. A parte il Nabucco, molte delle sue opere sono intrise di una religiosità decisamente anticonformista. Il tema religioso assume in lui i tratti di una ricerca, che lo porta a esplorare diversi ambiti – fra i quali anche alcuni temi ed episodi dove la Riforma occupa un posto di tutto rilievo.

 

Si possono ricordare gli ultimi due atti de “I Masnadieri”, la cui stessa ambientazione (la Sassonia a metà del XVI Secolo) rimanda in maniera incontrovertibile alla culla del Protestantesimo: era stato proprio il Principe Elettore di Sassonia, Federico il Saggio, che nel 1519– 20 avrebbe dato rifugio e protezione a Lutero. Nel quarto atto entra in scena un pastore protestante – che viene espressamente definito “pastore”, come nella tragedia di Schiller da cui l’opera trae spunto.

Anche se in questo primo incontro fra Verdi e la Riforma, la figura del pastore subisce una trasformazione radicale: certo, nel lavoro di Schiller, nel quale alla fine anche il “cattivo” di turno, Franz, si sarebbe pentito e avrebbe pertanto ricevuto il perdono di Dio, nell’opera di Verdi, a Francesco che gli chiede l’assoluzione, dà una risposta per certi versi molto “evangelica”, ma che, nella mentalità del tempo, doveva suonare come una condanna senza appello:

“M’assolvi!” – ordina Francesco, e il pastore, Moser, replica: “Iddio lo può, l’uom non ti assolve…”.

L’incontro probabilmente più felice e più completo col Protestantesimo, però, lo abbiamo nello “Stiffelio”. Lo status di “opera”, non salvò questo lavoro dalla censura, quantunque essa abbia avuto almeno una rappresentazione (a Trieste, nel 1850).

Il successo fu modesto: il tema era troppo ardito per il pubblico di quegli anni. Stiffelio è il pastore di una chiesa protestante che, scoperto l’adulterio della moglie – pensa alla vendetta. Ma poi si lascia guidare dalla Scrittura.

Alla fine, invece della scena di vendetta finale, con uccisione della fedifraga (quasi d’obbligo in opere di questo tipo), troviamo la lettura del brano dell’adultera perdonata da Gesù. Sulle parole “Perdonata”, l’opera si conclude su un insolito lieto fine.

 

A parte alcuni riferimenti e comparse sporadiche, l’ultima importante presenza del Protestantesimo nell’opera verdiana è chiaramente nel “Don Carlos”, che rievoca il tentativo di Filippo II di imporre nei Paesi Bassi il Cattolicesimo come religione di Stato – e in particolare nella grande scena dell’Autodafé del III Atto.

In questo caso sullo sfondo abbiamo soprattutto il conflitto, assai sentito in quegli anni, fra Stato e Chiesa, e doveva essere abbastanza presente nella mente di Verdi il celebre motto (“Libera Chiesa in libero Stato”) che il grande artefice dell’unità Italiana, il Conte di Cavour, aveva (come non molti sanno) mutuato direttamente dal teologo protestante svizzero Alessandro Vinet.

l grido sconsolato del Re di Spagna, Filippo II, nel momento in cui cede alle pressioni del Grande Inquisitore, riflette quasi sicuramente l’insofferenza con cui quasi tutti i liberali italiani del tempo guardavano alla strenua opposizione della chiesa all’unificazione Italiana.

“Don Carlos” viene rappresentata l’11 marzo del 1867.

Sullo sfondo c’è chiaramente la “questione Romana”: nel 1864 il neonato Stato Italiano era stato costretto ad un accordo con la Francia, che accettava di ritirare le sue truppe, schierate a difesa dello Stato Pontificio, in cambio della solenne rinuncia a prendere possesso di Roma e dell’impegno a difendere l’indipendenza e la sovranità dello Stato della Chiesa.

Il 9 Settembre del 1867, il grande eroe dell’unificazione italiana, Giuseppe Garibaldi, avrebbe proclamato da Ginevra che il papato è “negazione di Dio” oltre che “vergogna e piaga dell’Italia”. Poche settimane dopo avrebbe tentato – armato un piccolo esercito di volontari – l’invasione del Lazio, che non ebbe successo.

L’anno dopo, nel 1868, con l’enciclica “Non Expedit”, il papa sconsigliava fortemente ai cattolici italiani di partecipare alle elezioni e alla vita politica del loro Paese; contemporaneamente indisse il Concilio Vaticano I, che avrebbe sancito il dogma dell’infallibilità pontificia. Ciò non impedì, il 20 Settembre 1870, alle truppe Italiane di entrare a Roma e conquistarla, proclamandola Capitale d’Italia – un’annessione che il papa non riconobbe mai.

In questo clima, alla fine dell’opera – ricordiamolo, siamo nel 1867 – all’inquisitore vecchio e cieco (una guida cieca…), l’Imperatore oppone, pur cedendo alla forza, quel grido sconsolato e straziante che esprimeva forse il grido di un’intera nazione: “Dunque il trono piegar dovrà sempre all’altare”?!!!

Ma ciò che è per noi ancora più interessante è che ciò che con difficoltà traspare dai libri di storia – vale a direla connessione tra libertà politica, democrazia e libertà religiosa – è, nell’opera verdiana, assolutamente trasparente ed esplicito.

L’accorato appello. “Date la libertà”, che il marchese di Posa fa allo stesso Imperatore – che poi rifiuterà di ascoltarlo, anzi, finirà col metterlo a morte – si riferisce in maniera esplicita e chiarissima non ad una generica, qualsiasi, libertà, ma alla libertà religiosa. E, più specificatamente ancora, alla libertà religiosa per i Protestanti (che nell’opera – come in certa trattatistica polemica del tempo – sono definiti “i novatori”).

 

Lo sfondo è infatti quello delle guerre di religione che insanguinarono l’Europa del XVI secolo; l’Impero spagnolo è assai vasto e fra i suoi domini ci sono anche le Fiandre. Le Fiandre tuttavia hanno una fortissima presenza protestante, che la Corona cerca in tutti i modi di reprimere con la forza.

“O Signor – dice il Marchese a Filippo – di Fiandra arrivo/Quel paese un di sì bel,/D’ogni luce or fatto privo/Ispira orror, par muto avel!/L’orfanel che non ha loco/Per le vie piangendo va;/La riviera che rosseggia scorrer sangue al guardo par;/Della madre il grido echeggia pei figlioli che spirar/Ah! Sia benedetto Iddio,/Che narrar lascia a me/Questa cruda agonia/Perchè sia nota al Re”.

Il Re, che forse in un primo momento fraintende il senso delle parole del suo dignitario e confidente, si rammarica: “Col sangue sol potei la pace aver del mondo,/Il brando mio calcò l’orgoglio ai novator/Che illudono le genti con sogni mentitor…/La morte in questa man ha un avvenir fecondo”.

Il Marchese esce allo scoperto, e critica apertamente il Re, che pensa di poter imporre un credo ricorrendo alla violenza:

“Che! voi pensate, seminando morte,/Piantar per gli anni eterni?”.

 

Il re insiste; ovunque nei suoi domini la religione Cattolica è pacificamente accettata, perché le Fiandre dovrebbero essere diverse? Ma la pace di cui in tal maniera, ricorrendo a tali mezzi, la Corona può e vuole rendersi garante, è un’orrenda pace.

“Non abbia mai di voi l’istoria a dir – continua il Marchese di Posa ­­Ei fu Neron!/Quest’è la pace che voi date al mondo?/Desta tal don terror, orror profondo!/È un carnefice il prete,un bandito ogni armier!/Il popol geme e si spegne tacendo,/È il vostro imper deserto, immenso, orrendo,/S’ode ognun a Filippo maledir!/Come un Dio Redentor, l’orbe inter rinnovate./V’ergete a voi sublime, sovra d’ogn’altro re!/Per voi si allieti il mondo!/Date la libertà!”

Rifiutando di accondiscendere alla richiesta, il monito che il sovrano rivolge al suo confidente, è decisamente emblematico: “Ti guarda dal grande Inquisitore”.

Un sinistro consiglio, ben motivato. Siamo alla fine del secondo atto. Il cuore del terzo atto è occupato da un grande autodafé – vale a dire, in sostanza – un rogo di eretici protestanti, fra i quali lo stesso Marchese di Posa che aveva dato quel consiglio, cui seguirà poco dopo lo sconsolato, angosciante grido dell’Imperatore.

Col 1870 si chiude un’epoca, e un’altra se ne inaugura. Verdi vive ancora 30 anni; mette in scena solo tre opere – ma il clima è decisamente mutato. L’unificazione Italiana – e la sua “appendice” Romana del 1870 – comporta l’estensione dello Statuto Albertino a tutta la Penisola, e – con esso – del regime di tolleranza da esso garantito alle minoranze religiose.

Al tempo stesso l’Opera continua a godere per molti anni di un grande favore di pubblico, ma i nuovi autori preferiscono mettere in scena i piccoli drammi della vita quotidiana; certamente, elementi di natura religiosa non scompaiono dai libretti, ma si tratta, per l’appunto, sempre più di “religione”, talora perfino di folklore e di superstizione, e sempre meno di “fede”.

 

 

Puccini e “Madame Butterfly”

 

E ciò è a maggior ragione vero quando torna sulle scene la “religione Protestante”.

Nel passaggio dalla fede viva e vissuta, fondata su un rapporto autentico e diretto con la Scrittura, alla“religione”, il Protestantesimo ha tutto da perdere, e nulla da guadagnare: e forse è questo l’ultimo ammonimento che, con l’occhio disincantato dell’osservatore esterno, il melodramma Italiano rivolge ai credenti, allorquando l’ultimo grande operista Italiano del XIX Secolo, Giacomo Puccini, porta sulle scene un’ingenua ragazza giapponese che si lascia sedurre a tal punto dal protestante Pinkerton, da rinunciare per lui ad ogni cosa, perfino ai suoi antichi dei, per abbracciare la fede cristiana. Ma si illude.

Lo vedrà sì tornare – ma solo per reclamare il figlio – insieme con la nuova, e vera, moglie americana. Il dramma si conclude – come è noto – tragicamente, col suicidio della protagonista, Cho Cho San, ma – sembrano dirci quelle note così strazianti, opera di uno fra i meno religiosi dei nostri compositori – è la fede Cristiana riscoperta dalla Riforma che si suicida, nel momento in cui sceglie di trasformarsi in “religione”.

Ciò è tanto più toccante, se si tiene conto del fatto – poco noto – che all’origine della “Madama Butterfly”, pur con tutte le variazioni e gli aggiustamenti resi necessari dalla trasposizione scenica, ci potrebbero essere delle corrispondenze con alcune tristi vicende realmente accadute.

 

 

Chi è la nostra guida nell’adorazione?

 

Mi permetto di concludere con una digressione, che voglio far precedere da una premessa importante. Personalmente – come forse si sarà capito da queste righe – sono un grandissimo estimatore della musica, e di ogni forma di musica.

Apprezzo moltissimo i canti che in questi ultimi anni hanno arricchito e continuano ad arricchire le nostre raccolte e i nostri culti. Mi piace il ritmo. Quando in una comunità come quella che frequento, che ha alle spalle una storia abbastanza ricca e può tutto sommato considerarsi abbastanza “tradizionalista”, durante il culto vengono proposti e cantati dei canti moderni, che prevedono l’utilizzo di strumenti come la chitarra elettrica o la batteria, dove il ritmo può essere scandito anche battendo le mani.

Però – pur apprezzando ed amando tutto questo – c’è un aspetto che reputo molto importante che i nostri fratelli dei secoli passati avevano ben compreso, e che oggi, sotto la spinta di varie mode, temo che rischiamo di dimenticare.

Esula un po’ (ma non più di tanto, siamo sempre nell’ambito dell’innografia del XIX secolo) dal tema scelto per queste pagine, tuttavia probabilmente quasi tutti noi conosciamo molto bene l’inno “Così qual sono”.

Il suo autore, Lowell Mason, scrisse circa 1600 inni, e promosse quella che, nelle chiese del suo tempo, fu una vera e propria rivoluzione: laddove infatti svolse il suo ministerio – soprattutto la Chiesa Presbiteriana della Quinta Strada a Boston, a partire dal 1853 – eliminò l’abitudine di pagare dei cantanti e dei coristi professionali per eseguire i canti che avrebbero dovuto accompagnare il culto, ma volle che fossero tutti i credenti, insieme, all’unisono, a cantare al Signore. Dopo un inizio un po’ faticoso e anche contestato, questa divenne poi la regola. Oggi, con altri tipi di canti, è molto forte la spinta a andare nella direzione opposta: sempre più successo riscuotono dei canti splendidi, ma più adatti per delle voci soliste, o addirittura per dei concerti, che per un canto corale.

E sempre più capita di sentir parlare di “Worship Leader” – che vuol dire “guide dell’adorazione” – sottintendendo due idee, a mio parere, un po’ controverse: la prima è che l’adorazione si esaurisca nel canto.

Ora è indubbiamente vero che il canto è una parte importante dell’adorazione , e che è anche un aiuto bellissimo che Dio ha lasciato ai suoi figli per lodarlo. Ma l’adorazione è molto più del canto. Essa si esprime anche con la preghiera. Con il silenzio. Con una lettura.

E, più ancora, si sottintende che l’adorazione possa o debba avere una guida umana, mentre mi pare abbastanza chiaro dal Nuovo Testamento che il solo, unico e vero “worship Leader” dovrebbe essere, in ogni comunità, il Signore, nella persona dello Spirito Santo.

Almeno sotto questo punto di vista, grazie anche a queste semplici e toccanti melodie, mi chiedo se i nostri fratelli del passato non fossero forse riusciti più e meglio di noi a realizzare il principio del Nuovo Testamento per cui tutti siamo adoratori, e nell’adorazione di Dio non devono esserci “leader” umani, ma una sola è – o dovrebbe essere – la nostra guida, mentre noi siamo tutti fratelli.

 

Oggi l’Opera non gode della stessa popolarità di cui godeva nel XIX secolo, in parte perché il secolo successivo non ha prodotto – almeno nel contesto Italiano – nomi di grandezza non dico pari, ma anche soltanto paragonabile a quella dei grandi operisti dell’Ottocento. I costi, inoltre, sono diventati proibitivi.

La musica popolare, nel XX secolo ha preso altre direzioni. Tuttavia l’Opera rimane uno spettacolo di grande impatto emotivo, e mantiene molti estimatori, anche fra le giovani generazioni; mentre spesso rimane lo spettacolo più amato dagli anziani. E proprio l’Opera, con i suoi riferimenti alla Scrittura e alla Riforma, può costituire un interessante punto di contatto con i nostri amici cattolici, specialmente quelli che hanno forti pregiudizi verso gli svangelici. Spesso ad avere i pregiudizi maggiori sono proprio persone – magari parenti – anziane e piuttosto “tradizionaliste”, e quindi poco amanti di tutto ciò che sembra “nuovo”.

Per queste stesse ragioni, queste medesime persone possono facilmente amare i lavori di Verdi, Bellini, Donizetti… e, non diversamente dai loro nonni, magari si commuovono quando ascoltano il coro del “Nabucco”, ma non immaginano neppure che esso, come tutta l’opera, fu scritto avendo sotto gli occhi la Bibbia del Diodati.

Forse non sanno nemmeno che “i Puritani” dell’opera di Bellini, sono coloro che nell’Inghilterra del XVI secolo avevano aderito alla forma più radicale di Protestantesimo.

Forse si stupirebbero di riconoscere nei protagonisti di tante opere di Donizetti, protagonisti positivi, perfino eroici, dei “Protestanti”.

Allo stesso tempo, credo che la dimensione “corale”, “comunitaria”, la suggestiva immagine di un popolo che con una sola voce leva la propria voce a Dio, senza leader, senza personalismi, ma in un grande momento di autentica comunione, dove tutti ci riconosciamo fratelli, discepoli al servizio dell’unico vero leader, il Signore Gesù, e sotto la guida dello Spirito Santo – sia un patrimonio prezioso, un’eredità che coloro che ci hanno preceduto nella fede ci hanno trasmesso, e che dovremmo cercare di riscoprire e di valorizzare – senza rinunciare, ovviamente, a tutto ciò che di buono e di bello le esperienze musicali e di lode del XX secolo e di questi primi anni del XXI secolo hanno potuto aggiungere, arricchendola, alla nostra lode.